Un governacchio per fermare la Lega

Nessuno è in grado di rispondere alla domanda se la flessione dei cinquestelle in Friuli rifletta solo la loro – già nota – debolezza nelle votazioni amministrative. O se sia l’indice anche dello scontento del loro elettorato per le posizioni ondivaghe assunte da Di Maio nella trattativa di governo. Probabilmente, c’è un po’ dell’uno e dell’altro. Ma non è questo il dato più importante, anche perché la verifica la avremo solo in un incerto futuro. Ciò che invece è ben più evidente – e già presente – è il rafforzamento della Lega nella leadership del centrodestra. Rispetto a cinque anni fa, nel suo insieme, la coalizione guadagna quasi venti punti. Forza Italia si dimezza, la Lega si quadruplica. La vera domanda su eventuali prossime elezioni politiche è, dunque, piuttosto questa. Quanto la forza espansiva di Salvini sarà in grado di contagiare anche altri territori, meno sensibili – rispetto al Friuli – alle istanze autonomiste di cui la Lega è storicamente alfiere. E quanto potrà il suo partito cannibalizzare – ulteriormente – ciò che resta di Forza Italia.

È con questo interrogativo – alquanto tosto – che i partiti dovranno affrontare la – sempre più difficile – alternativa di fronte a cui si trovano. O una temporanea alleanza – cosiddetta – istituzionale, o nuove urne. Sapendo che, nel secondo caso, l’unico certo di guadagnarci è Salvini.  Il dato nuovo, rispetto al quadro del 4 marzo, è, infatti, questo. Le due elezioni regionali, pur prese con le dovute pinze, indicano che, tra i due populismi, la Lega appare più in salute. Più solida. E con maggiori prospettive di crescita. Al punto che, se si tornasse rapidamente alle urne, non è da escludere che ci potremmo trovare di fronte a uno scenario – quasi – capovolto. Vale a dire, con una – moderata – flessione dei grillini e una – consistente – avanzata dei leghisti, Salvini si troverebbe ad avere un doppio primato. Quello della coalizione – probabilmente ancora in crescita – e quello del partito, che si troverebbe molto più a ridosso dei Cinquestelle. A quel punto, sarebbe lui a dettare le condizioni di un governo bi-populista. E sarebbe duro per i Cinquestelle decidere se restarsene sull’aventino o scendere a più miti consigli. Soprattutto se fossero iniziate – come già qualche avvisaglia sembra annunciare – quelle faide intestine che, finora, la leadership di Di Maio è riuscita a tenere sotto il tappeto.

Se i Cinquestelle hanno da preoccuparsi qualora si tornasse rapidamente alle urne, per il Pd le prospettive sono ben peggiori. Appare di giorno in giorno più improbabile che il partito riesca a stare insieme. La scelta di Renzi di sbattere la porta di Di Maio così faticosamente socchiusa da Fico e Martina, non sorprende, vista la direttrice macronista ormai assunta dall’ex-segretario. Ma averlo fatto in una intervista televisiva, con uno sfregio evidente nei confronti dell’organo deliberante di partito convocato per giovedì, è il segnale che i margini di ricomposizione interna stanno definitivamente saltando. Renzi, molto probabilmente, sta già mettendo in conto di poter perdere il controllo del partito, ma ribadisce di tenere ben saldo quello dei gruppi parlamentari. Soprattutto al Senato, dove le liste sono state blindate con i suoi fedelissimi.

Paradossalmente, è proprio la debolezza – esplicita – di Pd e Forza Italia e quella – incipiente – dei Cinquestelle, l’unica arma su cui può far leva l’estremo tentativo del Colle di formare una qualche maggioranza per tirare – almeno qualche mese – a campare. Sgombriamo il campo dagli specchietti per le allodole. Non ci sarà una nuova legge elettorale. Nessun parlamentare è disposto a varare un nuovo congegno che, rimescolando i collegi, renderebbe il proprio seggio futuro – ancora – più incerto di quanto già lo sia. E figuriamoci se a Pd e Cinquestelle può convenire di aggiungere un premio maggioritario che – oggi – favorirebbe senz’altro il centrodestra. Altrettanto fuori dalla realtà è un governo costituente. Tanto più se l’obiettivo dovesse essere – come Renzi ha suggerito – di rimettere in pista la proposta già bocciata dal referendum. No. L’unica alternativa al voto è un governicchio. La cui sola forza sarebbe lo spauracchio di tornare alle urne. Sartori lo avrebbe chiamato governacchio. Il governicchio dello spauracchio.

(“Il Mattino!”, 1° maggio 2018).

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