Un referendum in cerca d’autore

Ma questo referendum – a parte, forse, i grillini – quali partiti veramente lo vogliono? A leggere i dubbi espliciti di rappresentanti di peso, e quelli a mezza voce di buona parte delle seconde file, sembra che ci stiamo apprestando a un cambiamento della Costituzione – e che cambiamento! – di tipo preterintenzionale. Senza sapere, cioè, chi, tra le forze politiche, fosse – e sia ancora – convinto che si debbano segare un terzo delle poltrone al Senato e alla Camera.

Come ci si è arrivati lo sappiamo. Il taglio è l’ultimo – in ordine di tempo – frutto avvelenato di quel clima d’opinione populista cresciuto – e prosperato – sotto la bandiera del taglio dei costi della politica. Di cui oggi Di Maio e Salvini sono gli alfieri più impenitenti, ma che ha avuto tribuni riformisti della stazza di Matteo Renzi (è lui che devono ringraziare gli italiani che hanno la sventura di percorrere strade provinciali ridotte a un colabrodo peggio di quelle di Roma, dopo che a furor di populismo le Province furono ghigliottinate). E, per dare a Cesare il dovuto, la palma di ideatori e santi protettori di questa branca di ordalia antipartitica spetta a una elite di opinionisti di rango che, dai massimi media nazionali, hanno fatto da apprendisti stregoni creando, in tempi non sospetti ma non per questo meno colpevoli, il brodo di cultura per questo arrembaggio istituzionale.

Ormai, la frittata è – quasi – fatta. Grazie al Parlamento decurtato, ogni italiano risparmierà, all’anno, il costo di una tazza di caffè. Senza neanche la soddisfazione di pensare che, essendo di meno, i nostri deputati e senatori potranno funzionare meglio. Da questa fondamentale riforma – perché taglia le nostre fondamenta rappresentative – resta, infatti, tassativamente escluso qualsiasi tipo di intervento che miri a prestazioni più efficaci, magari rafforzando gli staff come accade da tempo in tutte le altre democrazie (da noi si sa, per definizione, gli esperti sono portaborse a sbafo). Se, come i sondaggi sembrano indicare, il «si» uscirà vincitore, resterà solo una consolazione. Questa pessima riforma avrà inflitto una dura – e meritatissima – lezione ai partiti che l’hanno votata senza veramente volerla.

L’unico esito, infatti, certo fin da oggi è che i mugugni dentro ciascun partito – già arrivati ad un livello di guardia – cresceranno nelle prossime settimane, ed esploderanno all’indomani del verdetto di autocastrazione. A cominciare proprio dai grillini. I peones del movimento avevano accettato di rinunciare a una chance di rielezione sapendo che non ce l’avevano, visto che il loro statuto poneva il tetto di due mandati. Ora che il tetto è in via di abolizione, molti – ovviamente di nascosto – cambierebbero volentieri parere. Ma è tardi. Toccherà scannarsi per lo scanno. I leghisti hanno un problema analogo. Quando si erano espressi a favore, erano ancora sulla cresta dell’onda, e all’orizzonte si intravedevano voti e seggi in crescita a bizzeffe. Oggi, il vento è cambiato. Il leader è alquanto ammaccato, le retrovie sono in subbuglio. E i seggi che si stanno amputando farebbero molto comodo per placare animi e appetiti. Del Pd, meglio non parlarne. Il segretario continua a ripetere che sono stati violati i patti, che insieme al taglio si doveva cambiare anche la legge elettorale. Ma a ripeterlo troppo, si fa male con le sue mani. Da un lato conferma il dubbio che lui – e la gran parte del suo partito – questa riforma non la voleva (e infatti, dall’opposizione, aveva provato a fermarla). Col risultato che non potrà intestarsi la vittoria (della serie: il danno e la beffa). Dall’altro, aggiunge l’aggravante che si è fatto fregare dai grillini. Il che, dopo che faticosamente la strada di un’alleanza – quasi – strategica sembrava essersi finalmente spianata, non suona come il miglior viatico.

In conclusione, questa commedia degli equivoci è – purtroppo – solo agli inizi. Grazie al colossale risparmio di un caffè, avremo un – legittimissimo – sbrego costituzionale, i partiti più rissosi e incattiviti, e un sistema istituzionale ancora più decisionista. Con più governo e meno parlamento, più capi e meno rappresentanti. Così è, se vi pare, il referendum in cerca di autore.

di Mauro Calise

(“Il Mattino”, 24 agosto 2020)

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