Veltroni, Bersani, Renzi e Zingaretti: quattro leader e fasi nella storia del PD

Il PD non è nato ieri. Ha solo dodici anni scarsi, ma ha già attraversato quattro fasi. Naturalmente i segretari sono stati sei o sette, ma Veltroni, Bersani, Renzi e Zingaretti sembrano essere – nel caso ultimo presumibilmente – pietre miliari.

  La prima fase, iniziata il 16 febbraio 2007, è stata quella fondativa, segnata dall’egemonia di Walter Veltroni. Non posso dire di aver apprezzato quella prima fase. Non mi iscrissi neppure. Non solo perché tenevo molto alla mia totale indipendenza di giudizio ed ero ormai lontano dalle “contese” per qualsiasi cosa, ma anche perché trovavo irrinunciabile “l’idea socialista” (da non confondere con i partiti di tal nome).

  Sin dalla fine degli anni Settanta del secolo scorso ero stato convinto del fatto che il Partito Comunista Italiano avrebbe dovuto superare sé stesso unificando tutta la sinistra sotto le bandiere del socialismo democratico europeo. Il PCI, per me, aveva avuto ed aveva due palle pesantissime ai piedi: una era stata il legame con l’URSS, almeno sino al 1981 (e in realtà “ripreso” con Gorbaciov); l’altra palla al piede per me era stata l’antisocialismo viscerale, nato nel 1921 e mai finito. Il legame con l’URSS era stato timidamente sciolto nel 1981, ma all’inizio degli anni Novanta con Gorbaciov era un po’ stato ricostituito. Con quei legami là fare un’alternativa democratica di sinistra sostituendo la Democrazia Cristiana e i suoi consorti al potere era difficile, in un Paese chiave della NATO al cuore del Mediterraneo. Ma nel 1989 cadde il muro di Berlino e la Germania “comunista” e due anni dopo implose la stessa Unione Sovietica. Ma l’antisocialismo rimase, tanto che il PCI non volle affatto realizzare l’unità socialista della sinistra, e neppure la propria rifondazione apertamente socialista, preferendo tentare di raggiungere lidi sconosciuti e immaginari come la “terza via” tra comunismo e socialdemocrazia: finché i suoi epigoni, dopo diverse metamorfosi, d’intesa con l’ex sinistra democristiana fondarono il Partito Democratico.

  A me fondare un Partito Democratico, da parte soprattutto di ex comunisti e ex democristiani, pareva un costruire un grattacielo sulla sabbia. La Costituzione è di tutti. Come si può farne il collante di un partito? – Non mi piaceva neppure che si rinunciasse alle alleanze tipo Ulivo, nelle elezioni del 2008: il che costringeva semplicemente tutti gli avversari di Berlusconi, che per parte sua raccoglieva tutti gli alleati pure minimi, a votare PD (che perse il governo, ma ottenne il 38% circa dei voti).

  In seguito però vidi che quella strana creatura, il PD, durava, e che lo spazio “socialista” fuori di esso, che mi era parso una prateria aperta per Sinistra Ecologia Libertà, non era occupato affatto, come poi non lo fu da Liberi e Uguali, che tutto potevano fare piuttosto che diventare socialisti democratici europei, avendo altra matrice, prevalentemente ex comunista, rimasta fissa come modo di far politica a dispetto dei più spericolati mutamenti d’indirizzo, come quei tali che erano preti, gettano la tonaca ma restano sempre “spretati”, un poco preti loro malgrado. Dire “comunisti” D’Alema, Bersani o altri che erano stati dirigenti nazionali nell’ex PCI sarebbe stato e sarebbe insensato, ma il modo di concepire il partito e il fare politica non saranno mai socialisti nel senso occidentale: ad esempio con totale accettazione come opinioni legittime di altri compagni delle posizioni interne diverse dalla propria, invece viste sempre come opera di elementi estranei o anticorpi, che non accettino di essere “tutti in maggioranza”, muovendosi “tutti insieme” come nel defunto PCI, in cui si faceva in modo di essere o almeno sembrare tutti d’accordo (o componendo tutte le vere differenze oppure “abolendole”, o spingendo i portatori d’altro sentire  ai margini, come “vecchi saggi” o “vecchi matti”).

  La svolta di Veltroni fu subita e ben presto criticata da sinistra. E Veltroni, cresciuto al tempo di Berlinguer in cui il Segretario era sempre sostenuto, com’era stato proprio dei comunisti, si stufò presto e si dimise. Dopo varie vicende, e trame di D’Alema, arrivò la segreteria di Bersani, nell’ottobre 2009. E con ciò iniziò quella che ho detto la seconda fase del PD. Si evidenziava il malinconico ritorno, e finale tramonto, dell’ex-comunismo. Bersani è stato uno straordinario ministro dell’industria e dei trasporti, ma un uomo “senza qualità” come leader politico. Lo si vide nel 2013, sol considerando il modo come gestì (male), come partito di maggioranza relativa (25% dei voti), cosette quali: l’elezione del nuovo Presidente della Repubblica; il possibile – ma mancato – ripristino della legge elettorale maggioritaria detta Mattarellum (per cui Giachetti nel 2013 fece lo sciopero della fame) e la faccenda della formazione del nuovo governo, in cui dalla sera alla mattina a suo parere il M5S, che aveva visto il PD come nemico principale sino al giorno prima, avrebbe dovuto diventare il socio “di minoranza” del PD al governo.

  Sapevo già prima che quei leader erano così: capaci di distruggere, persino senza volerlo, ogni riformismo democratico che fuoriuscisse dall’humus cattocomunista (o ex cattocomunista) da sempre loro proprio. Infatti già al tempo delle primarie in cui Bersani aveva sconfitto Renzi 60 a 40 nel dicembre 2012, io, nei miei articoli ”qui”  e col mio umile voto, avevo sostenuto Renzi, che in seguito agli autogol degli altri nel 2013 conquistò, tramite nuove primarie, la segreteria (dando inizio a quella che ho detto “terza fase” del PD); e poi – con una decisa e persino un po’ brutale spallata contro il Presidente del Consiglio, Enrico Letta – conquistò la presidenza del Consiglio.

  Mantenevo – sempre come appassionato osservatore e compagno di strada – le mie riserve sull’indefinitezza ideal-politica di quel partito, e la mia preferenza per un neosocialismo europeo, in Italia, rosso-verde. Ma dovevo accettare le dure repliche della storia, che avveravano del resto i miei più antichi sospetti. Ricordo che verso il 1987 ritrovai in ferie, a Limone, un mio vecchio amico dell’ex PSIUP alessandrino che non vedevo dal ’68, quando si era trasferito a Milano. In una delle nostre chiacchierate gli dicevo che l’antisocialismo del PCI, di cui ero un dirigente dal 1972, era così forte che se in futuro – non ce n’era ancora neanche indizio – il PCI avesse dovuto sciogliersi, non sarebbe diventato “socialista”, ma “democratico alla Ugo La Malfa”. Sin da allora sospettavo fortemente che sarebbe accaduto così, ma speravo ancora, verso il 2007-2009, che Madama la Storia avrebbe obbligato la sinistra a tornare a quelle radici. Ma non era poi accaduto. In seguito compresi che nonostante la diversa disposizione dello stesso Togliatti (che sapeva benissimo che la sorgente comune era socialista), l’uomo comunista (o ex comunista “tipico”), specie da Berlinguer in poi, non avrebbe mai potuto diventare socialista, anche nel senso più europeo: per la stessa ragione – compresi infine – per cui un cattolico pentito non diventa protestante e un protestante che si stacca dalla sua fede ben difficilmente diventa cattolico; è più facile che l’uno o l’altro diventino atei o buddhisti. E così è stato tra comunisti e socialisti, anche a costo di rischiare di perdere l’identità. Per uno dei più incredibili casi della storia, il Paese d’Occidente che aveva avuto il più importante e forte comunismo d’Europa, non sboccò in socialdemocrazia, ma nel liberalismo sociale: tanto che se non ci fossero gli ultrasessantenni e soprattutto ultrasettantenni e talora ottantenni che sono stati comunisti, gli altri del PD non saprebbero neanche chi erano stati “quelli di prima”. Hanno saltato la sinistra rosso-verde europea e hanno raggiunto direttamente Clinton e Obama. Mi pareva che non potesse funzionare, ma poi ha funzionato. Ancora una volta la Storia ha inverato il paradosso della giraffa enunciato da Togliatti in un congresso del PCI del 1961. Agli avversari che gli dicevano che non era possibile essere leninisti e per la democrazia costituzionale come dicevano di essere i comunisti italiani, il sottile Palmiro diceva che l’obiezione ricordava l’osservazione di un tale che avendo sentito parlare di un animale col corpo del cavallo ma con un collo tanto lungo da poter prendere i frutti sugli alti alberi, la giraffa, aveva detto che era impossibile esistesse: però esisteva. La giraffa è rimasta. Il PD è una nuova giraffa, in tal caso né socialista né democristiana (o “tutti e due”; sebbene impossibile, è  “reale”). Si tratta di una nuova “giraffa” che ha vinto la sfida del tempo. L’ha fondata soprattutto il beniamino di Berlinguer, Walter Veltroni. Ed è durata, risultando un grande partito per voti sotto il Walter (37,5%), e poi di maggioranza relativa, col 25%, nel 2013, alla fine del tempo di Bersani. La componente di minoranza di tale partito, ex democristiana, probabilmente nei propositi degli ex comunisti avrebbe dovuto essere assorbita (si sa che loro erano sempre “più avanti”). Invece fece scattare l’antica logica della “Grecia catturata” che “catturò il feroce nemico” romano, ellenizzandolo (del detto latino del I secolo avanti Cristo). Già Prodi, ex presidente democristiano dell’IRI, era stato capo storico. Nel 2013 arrivò Renzi, al potere nel partito, dov’è stato eletto due volte col 70% – prima nel 2013 e poi nel 2017 dopo una disfatta come quella al referendum del dicembre 2016 – a dimostrazione della forza anche professionale dei capi dell’ex Democrazia Cristiana.

 In questo terzo tempo del PD, reso possibile dallo scacco matto subito dagli ex colonnelli di Berlinguer, per la verità Renzi cercò in tutti i modi di fare un salto oltre la tradizione socialcomunista come democristiana, connettendosi, come già Craxi, alla destra socialista europea di Blair (e infatti il suo primo atto da segretario in Direzione, il 22 febbraio 2014, fu quello del far aderire il PD al Partito Socialista Europeo, cosa che gli altri in sette anni non avevano fatto). Si connetteva anche al democraticismo americano di Obama.

  Renzi ha certo commesso diversi errori. Il carattere è quello che è, anche se c’è chi dice che avere carattere significa avere un cattivo carattere. Ma non credo che abbia perso per il carattere (sono psicologo junghiano per idee sulla natura umana, ma non sino a questo punto). Vedrei più una faccenda di vocazioni. Renzi è stato, e credo sarà, soprattutto un uomo di governo (o di opposizione a un governo, in attesa di tornarvi), come del resto dimostra il suo cursus honorum: prima da giovanissimo Presidente della Provincia di Firenze, poi da Sindaco e quindi, a trentanove anni e per 1000 giorni, da Presidente del Consiglio. Giustamente si è molto lamentato di esser stato colpito soprattutto dal fuoco amico. E perciò quelli più vicini a lui mai e poi mai vorrebbero tra i piedi gli scissionisti del 2017, che avevano dato un contributo fondamentale alla sconfitta del referendum istituzionale del dicembre 2016 e alla delegittimazione politica del PD tramite scissione a ridosso di elezioni. Ma il tutto ha avuto anche a che fare con la sottovalutazione – o non brillante gestione – della forma partito. In una comunità politica va accettata ogni opinione conforme agli ideali del movimento, ma nelle istituzioni elettive chi vota diversamente dal proprio gruppo, se questo si è riunito e ha deciso, una volta va ammonito e la seconda cacciato. Se fosse stato fatto quando i due primi Pinco Pallino non hanno fatto così, sarebbe stato tutto diverso. Inoltre chi se ne intende davvero di “vita di partito” sa sin da piccolo che il tuo compagno avversario prima lo metti in minoranza decisamente e poi lo coinvolgi in qualche modo, se non altro per non fartene un avversario implacabile per il futuro. Ma in Renzi c’era un tratto, credo d’origine democristiana, che lo portava a vedere il partito come la dimensione in cui contarsi per vedere chi e quanto uno possa comandare nelle istituzioni.

  Anche la riforma dello Stato proposta nel 2016 aveva dei limiti (soprattutto nel progetto di nuovo Senato), ma in grandissima parte erano i limiti stessi imposti dal compromesso parlamentare. Tuttavia l’aver bocciato un meccanismo per cui solo la Camera dava la fiducia ai governi (perno del monocameralismo) e un sistema elettorale maggioritario a due turni con maggioranza certa alla lista che vincesse al secondo turno, e aboliva il CNEL, e riportava allo Stato competenze di stato assurdamente date alle Regioni, è stato una sciagura nazionale. E chi ha determinato ciò, ponendo le basi per la rovina del PD di Renzi e per il trionfo del populismo reazionario “con basi di massa” di Salvini, ne risponderà davanti alla Storia.

  Dopo di che si è determinata la situazione che i veneti riassumono nel proverbio: “Peso il tacòn del buso” (la pezza per riparare il buco nei pantaloni sta peggio del buco stesso). Renzi si è dimesso. Si è fatta una pessima legge elettorale che ha restaurato la proporzionale della prima Repubblica (ma senza poter risuscitare i partiti “veri”, che ne erano l’anima). E nelle elezioni del marzo 2018 il PD, che grazie alla forte leadership di Renzi alle elezioni europee del 2014 aveva raggiunto il 40%,  è sceso al 17%. Lo stesso PD, poi, invece di andare a congresso dopo la batosta del marzo 2018 ha cincischiato per un anno intero: il che è stato una follia politica.

  A questo punto – e con ciò inizia, il 3 marzo 2019, la quarta fase nella storia del PD – c’è stato il congresso e Nicola Zingaretti ha trionfato, con quasi il 70% alle primarie, staccando sia Martina che Giachetti, fermi al 19 e al 12. Addossare tutta la sconfitta prima del PD, e poi al congresso, a Renzi, mi sembra molto ingiusto, sol che si tenga un po’ presente l’ondata populista di destra che soffia sul mondo intero, e che ha portato al 6% i socialisti in Francia. Oltre a tutto Renzi ha tenuto nelle primarie una neutralità assoluta, senza neanche dire per chi avrebbe votato. E impegnandosi a sostenere chi avesse vinto, naturalmente con una voce in capitolo che il sottile Zingaretti non gli ha mai negato e non gli negherà mai, tanto più in presenza di gruppi parlamentari del PD a forte impronta già renziana. Ci sarà un compromesso positivo tra aree, opportuno e obbligato. Ma la svolta è forte, per volontà del “popolo” votante.

   Perciò si può dire con certezza che con il voto di queste primarie si sia chiaramente aperto un quarto tempo nella storia del PD, dopo quello di Veltroni, dopo quello di Bersani, finito nel 2013, e quello di Renzi, in declino dal dicembre 2016 e conclusosi domenica 3 marzo 2019. La svolta è forte, ma non va enfatizzata. Come ho detto nel mio ultimo articolo qui il 24 febbraio, le differenze tra i tre candidati alla segreteria non erano notevoli. Tutti concordavano sulla proposta di Calenda di un’unione più ampia del PD alle elezioni europee (se sarà possibile). Ci sarà più mediazione, e per il futuro più dialogo con le parti sociali, ma nulla di quanto hanno fatto Renzi e Gentiloni verrà disfatto (o rinnegato). Vedrete. E tutti, nel PD, chiudono al M5S, tanto più che aiutarlo mentre si sgretola, e mentre si è considerati da esso il nemico principale, sarebbe folle. E tutti e tre i capi-tendenza che si sono misurati (con apoteosi finale di Zingaretti) non vogliono far tornare gli scissionisti di sinistra, i quali in tempi di proporzionale per ora preferiscono zappettare l’orticello, anche perché quel che hanno combinato è stato molto grave e passeranno anni prima che possa essere metabolizzato nel PD.

  C’era sì – tra i tre candidati – una più marcata difesa del quinquennio di governo da parte di Giachetti. Io l’ho votato in primo luogo per questo: perché a me pare che i governi del PD, prima di Renzi (per 1000 giorni) e poi di Gentiloni, avessero governato – con gli ovvi punti deboli che non mancano mai – piuttosto bene.  L’Italia aveva ripreso a crescere, sia pure più lentamente di altri grandi paesi dell’Europa (per il macigno del debito pubblico, di 2350 miliardi, che ha sul groppone, e che è il terzo debito pubblico al mondo). Lo spread era quasi sparito. Erano stati conquistati nuovi diritti civili. E Minniti aveva fatto molto per ridurre l’immigrazione clandestina. Perché non gridarlo dai tetti?

  È vero che il popolo italiano, di fronte a un governo che non ha potuto vincere il grave disagio sociale, nel marzo 2018 ha premiato M5S e Lega, tra l’altro considerandoli contrapposti. Ma le promesse del Gatto e della Volpe fatte a Pinocchio, a proposito del “campo dei miracoli” in cui si seminano e moltiplicano le monete dalla sera alla mattina, poi vengono verificate da chi se le è bevute, che “si arrabbia”. E il populismo reazionario al potere già oggi tiene a stento i pezzi in vista delle elezioni europee.

  Inoltre Giachetti era stato il solo a lottare per tempo per imporre il rispetto del principio di maggioranza a tutti e per fare il congresso quasi un anno fa.

  Ma naturalmente, come tutti o quasi, sapevo che avrebbe vinto Zingaretti e non vedevo in ciò sciagura alcuna. E l’ho scritto per tempo. E credo che sarà così.

    In un precedente articolo, parecchi mesi fa, avevo scritto che a sinistra ci voleva un sarto, che ricucisse gli strappi. Per me il “tacòn”, se il sarto ci sa fare e un abito nuovo non si può comprare, è “meio” del “buso”. Sembra che il buon sarto sia arrivato. Si chiama Nicola Zingaretti. Non è un capo carismatico. Non assomiglia né a Craxi né a Renzi. Ricorda più Prodi, pur non avendo certo la sua esperienza di grande manager di Stato e di economista. Ma è un eccellente sarto e un uomo di governo unitario e navigato, e se non erro porterà bene a tutti.

  Invece di attardarci in inutili recriminazioni retrospettive, comunque dovremmo cogliere molti dati positivi emersi nelle ultime settimane. Dapprima la CGIL si è data un segretario come Maurizio Landini, che rinnova parecchio il primo sindacato italiano, mettendo l’operaio cosciente e combattivo come leader alla sua testa, affidandosi ad uno che a mio parere coniuga con grande forza concretezza tradeunionista e spirito di forte opposizione sociale (nel Sindacato tutto ciò “per me” è sacrosanto). Poi si è visto che il M5S entrava in crisi, incapace di gestire le sue contraddizioni, se non raggiungendo la destra estrema di Salvini in materia d’immigrazione, e salvandolo svergognatamente da un importante processo, e domani credo “ingoiando”, sempre con qualche ludibrio “suo” (e gioia mia)  il rospo della TAV: dimostrando con tali atti di essere – almeno finché non si spaccherà o entrerà in terribile cortocircuito – solo la sinistra della destra populista (oltre a tutto in modi spesso di un dilettantismo ridicolo). Così il M5S ha perso rilevanti masse di voti in Abruzzo e in Sardegna, e credo che ne perderà una valanga alle europee di maggio (in cui il PD “potrebbe” persino raggiungerlo e superarlo di poco, risultando il secondo partito dopo la Lega). Più oltre abbiamo avuto a Milano una manifestazione contro il razzismo di 250.000 persone. E, infine, oltre 1.700.000 persone – una fiumana rispetto ai dati interni del M5S e della Lega – domenica hanno eletto il segretario del PD (mentre tutti si chiedevano se sarebbe mai arrivata al milione). A me sembra evidente che i partiti che non sono solo raccattapalle sono ormai tre o al più quattro, e che tali resteranno per moti anni: M5S (finché dura), Lega, PD e Forza Italia (residuale). Per me la conseguenza, almeno per gente di sinistra, è che si deve sostenere il PD, nell’onesta certezza che il convento italiano in tempi prevedibili in campo progressista non passa altro. L’alternativa è occuparsi di cose diverse, nella sfera sociale come culturale (se non ci si prenda per i fondelli). Vale la pena di dare credito al PD, tanto più in presenza del populismo reazionario al potere, in forme sempre più compiute.

  Naturalmente il PD dovrà essere “molto MIGLIORATO”, dando ad esso una più solida identità ideologica (che non ha) e programmatica in senso storico (che è debole), e pure un’organizzazione più efficace e, come Zingaretti sembra voler fare subito e fortemente, realizzando un’apertura di dialogo ricorrente con i sindacati e con gruppi politici aperti all’alleanza con “tutto” il PD, ben al di là degli ultimi dei mohicani della pretesa sinistra radicale, per ora lontani. Il tutto a mio parere dovrebbe partire da una valutazione positiva sull’esperienza di governo del 2013/2018, ma soprattutto da un abito di simpatia, davvero da “compagni” e “amici”, che si è perso da tanto tempo, ma è indispensabile ricostruire. Tuttavia non si parte da zero, ma da un bel pezzo di strada che il PD ha già fatto, e che ora lo spirito unitario e concretistico dovrebbe consolidare e sviluppare grandemente.

   (4 marzo 2019)

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