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Coesione, capitale sociale e illegalità
Bruno Soro
 «Tutto quello che possiamo imparare sul passato ci aiuta a capire il presente [ma non a prevedere il futuro] ... Si può sperare che lo studio del passato possa aiutarci a orientare le nostre attività presenti e future in direzioni più universali e produttive, e soprattutto meno pericolose [ma non è affatto detto che ciò accada]».

L.L. Cavalli Sforza, «L’evoluzione della cultura», Codice, Torino 2010. [Parentesi quadre aggiunte]. 

Le vicende legate alla sorte dell’euro, unitamente alla divulgazione di alcuni studi sugli immensi danni che deriverebbero ai paesi dell’Eurozona (e all’economia mondiale) da un’eventuale l’implosione della moneta unica, rischiano di oscurare uno degli aspetti più significativi degli interventi di «politica economica» posti in essere dall’Unione Europea (UE), la cosiddetta «politica regionale». Trattasi di misure che nel corso degli anni hanno riversato un fiume di risorse in molte aree regionali (comunque denominate) di paesi come l’Irlanda, la Grecia, il Portogallo, la Spagna e l’Italia, misure dalle quali tali aree hanno tratto enormi vantaggi economici. Da quando, negli ultimi due anni, è scoppiata la crisi finanziaria dei debiti pubblici degli stati nazionali - crisi che sta mettendo in ginocchio le economie reali dei paesi europei maggiormente indebitati -, l’attenzione dei mezzi di comunicazione è stata attratta prevalentemente dalle misure di «politica monetaria» e da interventi di «politica fiscale» (intendendo con quest’ultima espressione la gestione delle entrate e delle uscite che compongono il bilancio dello stato), la cui competenza è stata lasciata dal Trattato di Maastricht ai singoli stati nazionali, a scapito, della politica regionale nelle varie forme di sostegno messe in atto con l’attivazione dei vari fondi “sociali” e “strutturali” europei.

Non molti, probabilmente, sono a conoscenza del fatto che le due parole chiave che sintetizzano gli scopi, gli obiettivi e gli strumenti della «politica regionale» dell’Unione Europea sono la «convergenza» e la «coesione». Nel linguaggio comune questi due termini assumono, il primo, il significato di “andare verso lo stesso punto muovendo da direzioni diverse”, e il secondo quello di “determinare univocità di sentimenti e di atti conseguenti”. Nella letteratura economica, oltre che nel linguaggio comunitario, queste due parole hanno assunto significati di volta in volta differenti. Occorrerà attendere i primi anni ‘70 del Novecento, infatti, caratterizzati dalla fine del sistema dei cambi fissi e dal rallentamento della crescita economica seguito alla prima crisi petrolifera, perché si acquisisse la piena consapevolezza dell’opportunità di un intervento a livello comunitario volto a ridurre le disparità nel potere d’acquisto dei cittadini dei paesi membri della CEE. E sarà solo dalla seconda metà degli anni ’70 che una vera e propria politica regionale comunitaria verrà attuata con l’istituzione di un apposito Fondo Europeo di Sviluppo Regionale.

Da allora, la politica regionale dell’Unione Europea, che nasce con la CEE come Politica Agricola Comune (PAC) - una forma di sostegno dei redditi agricoli che assorbiva la quasi totalità delle risorse messe a disposizione dal bilancio comunitario -, è andata mutando nei suoi obiettivi e nei suoi strumenti di pari passo con i cinque successivi allargamenti della Comunità. Allargamenti ai quali ha fatto seguito un progressivo riequilibrio delle risorse messe a disposizione con i fondi per le politiche regionali. Tant’è vero che nel bilancio del 2006 le misure d’intervento a favore della politica agricola, che continuano tuttora ad assorbire una quota rilevante del bilancio comunitario, occupavano ancora poco più del 70% delle risorse impiegate nelle varie forme di intervento in cui si articola la politica regionale della UE. Con l’adozione dell’Atto Unico (1986) e, in seguito, con la stipula del Trattato di Maastricht (1992) - Trattato che ha trasformato la CEE nella UE -, l’obiettivo prioritario della politica regionale è divenuto esplicitamente quello di “favorire la coesione e la convergenza tra i paesi dell’Unione”. Basta un semplice sguardo ai dati messi a disposizione dell’ufficio statistico europeo (EUROSTAT) per constatare come a distanza di quasi mezzo secolo di politiche regionali, le disparità nella distribuzione del reddito pro capite (l’indicatore comunemente utilizzato per misurare questo fenomeno) tra i 27 paesi dell’Unione restino tuttora enormi. Recenti studi effettuati per valutare se vi sia stata convergenza tra i livelli dei redditi pro capite a livello comunitario hanno poi mostrato come nei primi anni del nuovo secolo, e fatta salva qualche eccezione come il Portogallo, sembrerebbe essersi verificata una certa convergenza tra i paesi dell’Unione. Ciò lascerebbe intendere che, valutate nel loro insieme, le politiche regionali non siano state del tutto inefficaci. A livello regionale italiano, per contro, e nonostante le varie forme d’intervento in favore delle regioni meridionali attuate sia a livello nazionale che comunitario, una certa convergenza tra i livelli del reddito pro capite tra le regioni italiane si riscontra solo nel corso degli anni ’70-prima metà degli anni ‘80. Dalla seconda metà degli anni ’80 alla seconda metà degli anni ’90, il fenomeno ha subito una battuta d’arresto, mostrando una vera e propria inversione di tendenza. A partire dalla seconda metà degli anni ‘90, infine, il processo di convergenza è ripreso, ma senza tuttavia tornare ai livelli precedenti. 

Queste informazioni, tratte da alcuni miei scritti, mi sono tornate alla mente leggendo un’interessante intervista al professor Giacomo Vaciago, uno dei più eminenti economisti italiani e profondo conoscitore delle dinamiche dei sistemi economici in un contesto storico, pubblicata sull’ultimo numero del periodico trimestrale “la Casana” della Banca Carige S.p.A., curata da Paola Cavallero. Nel corso di quell’intervista, dedicata all’analisi, alla diagnosi e alla terapia della crisi italiana, il professor Vaciago avanza alcune considerazioni che mi paiono particolarmente pertinenti e condivisibili. La prima riguarda il ruolo «sociale» dell’economia. Rispondendo ad una domanda sull’esistenza di analogie con altri momenti storici egli sostiene che “l’economia globale come la conosciamo oggi non è mai esistita in passato, e quindi non possiamo fidarci del sapere accumulato. Bisogna studiare ex novo come funziona questa economia ed in particolare come interagiscono variabili reali (produzione e spesa) e variabili finanziarie (ricchezza e risparmio). Si passa dall’euforia di qualche anno fa al panico odierno, e ciò avviene su scala globale senza aver predisposto un livello di governo (dell’economia) adeguato. Non stupisce che ci sia chi soffre questo livello di incertezza, che diventa sfiducia ed a volte paura”. Non a caso, gli economisti più attenti alle vicende storiche invocano una nuova Bretton Woods, nel corso della quale i responsabili politici delle grandi economie (UE, USA, Cina, Giappone, India, Brasile, ma anche alcune economie emergenti dei paesi africani) si accordino su misure di controllo dell’economia finanziaria (come ad esempio la separazione delle banche di credito commerciale e le cosiddette banche d’affari, dedite prevalentemente alla speculazione), e della riscrittura delle regole che governano i cambi tra le monete volte a favorire il commercio mondiale e con esso la crescita dell’economia reale.

La seconda, che riguarda più da vicino il nostro paese, evidenzia come negli ultimi decenni gli italiani abbiano ripreso ad emigrare, ma con una caratteristica nuova: la diversa qualità del «capitale umano», ossia l’istruzione accumulata fino alla formazione universitaria. Ancora qualche decennio fa, infatti, l’emigrazione italiana riguardava prevalentemente “le braccia”, mentre oggi emigrano “le menti”. Il professor Vaciago, che ha  conseguito il Master of Philosophy in Economia alla Università di Oxford (UK) nel 1968, ricorda come anche ai suoi tempi (che sono anche i miei) “dopo la laurea si andava a studiare due o tre anni (una laurea superiore) nelle migliori altrui università. Ma poi si tornava a lavorare qui. Oggi è questo che manca. Migliaia di nostri bravi laureati vanno a specializzarsi altrove e poi non tornano, perché trovano di meglio dove sono andati a studiare”. La migrazione delle menti, che coinvolge ad esempio molti giovani laureati nelle università delle regioni meridionali – laureati che salgono a specializzarsi nelle migliori università del settentrione, penso in particolare a Bologna, a Trento, ma anche nelle università di Milano, di Bergamo, di Pavia -, così come molti dei laureati in queste stesse università che vanno a specializzarsi nelle migliori università europee e statunitensi, non ritornano più ai luoghi di origine. E’ vero, infatti, come sostiene il professor Vaciago, che “i giovani devono diventare i protagonisti dell’economia globale, anzitutto cercando di capirne le caratteristiche, conoscerne pregi e difetti, sapersi muovere in tanti paesi riuscendo ad apprezzarne le qualità. In un mondo che sta cambiando rapidamente – egli conclude - «la cosa che più conta è imparare ad imparare»”. Ma è altrettanto vero che l’emigrazione delle menti comporta un duplice danno per i paesi (le regioni) dai quali origina il fenomeno dell’emigrazione. Essi sostengono il costo di produzione del capitale umano, ma poi non ne traggono alcun beneficio. Emigrando, il capitale umano va a favorire la crescita dei paesi (delle regioni) ospitanti, mentre i sistemi economici da cui gli immigrati provengono si impoveriscono di questa risorsa. In sintesi, l’emigrazione delle menti è la conseguenza del fatto che i flussi migratori (siano essi di braccia o di mente) si rivolgono laddove chi emigra ritiene possano esservi occasioni lavorative. Da questo punto di vista, l’economia italiana, che negli ultimi quarant’anni è passata attraverso quattro diversi tipi di crisi - quella petrolifera degli dei primi anni 70, quella del debito pubblico dei primi anni ’90, quella finanziaria originatasi negli Stati Uniti ormai quasi cinque anni or sono e la crisi attuale - è, di fatto, entrata in una spirale depressiva, un declino economico apparentemente irreversibile. E’ notizia dei giorni scorsi che nel nostro paese sembra essersi arrestata persino l’immigrazione di braccia.

La terza considerazione, infine, ma l’intervista al professor Vaciago meriterebbe di essere riportata per intero, riguarda “il problema irrisolto che più «spiega» la nostra mancata crescita degli ultimi vent’anni: la diffusa illegalità. Penso, in particolare, all’evasione fiscale e a tutto ciò che circonda questo fenomeno: l’economia sommersa, il lavoro nero, la corruzione”. L’illegalità, infatti, crea sfiducia reciproca e sfiducia nelle istituzioni. Detto in altri termini, l’illegalità distrugge il cosiddetto «capitale sociale», vale a dire quel sistema di regole condiviso da cui originano la coesione sociale e lo stato della fiducia. Quella del capitale sociale è una forma di capitale tutta particolare che si differenzia da tutte le altre forme. Ciò poiché possiede una caratteristica che lo distingue: quella della asimmetria. Occorre infatti molto tempo per un paese per accumulare il capitale sociale e conquistare la credibilità e la fiducia (passando talvolta attraverso fasi cruente di rivolte civili), ma basta pochissimo tempo per distruggerlo. Ora, negli ultimi quarant’anni, ma in particolare negli ultimi venti caratterizzati dalla filosofia sociale berlusconiana dell’arricchimento senza regole e a prescindere dai valori morali, è venuta meno la coesione sociale. Conseguentemente anche il capitale sociale di cui l’economia disponeva ha subito un’autentica distruzione. Una distruzione che ha attraversato tutte le diverse categorie di persone e tutti i livelli di convivenza civile (basti pensare, oltre alle forme d’illegalità rammentate da Vaciago, alla sistematica violazione delle più elementari regole del codice della strada e l’incuria nella raccolta differenziata dei rifiuti).

Per tornare a crescere, la nostra economia necessiterebbe pertanto una radicale ricostruzione di tutte le varie forme di capitale, da quello fisico, a quello umano a quello sociale. Affinché ciò possa accadere, non mi paiono sufficienti le misure varate dal Governo (in gran parte solo annunciate) volte a favorire la crescita economica. Occorrerebbe infatti una vera e propria rifondazione del contratto sociale su cui si regge lo stato, un innalzamento della qualità del personale politico e della pubblica amministrazione, il ripristino della legalità e più in generale la ricostituzione di quella coesione sociale che ha permesso all’Italia dei primi due decenni del dopoguerra di trasformarsi da un’economia che esportava braccia all’ottava potenza economica mondiale. Purtroppo di tutto ciò non vedo traccia.

06/08/2012 23:00:07
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