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Noi
L`Italia che non cresce
Bruno Soro

“Quello di prima non era un piacevole sogno; quello di oggi è un

incubo destinato a dissolversi con il mattino.”

J.M. Keynes, “La grande depressione del 1930”, in Esortazioni e

profezie, Il Saggiatore, Milano 1968

Le cronache delle ultime settimane hanno posto per l’ennesima volta al centro del dibattito la questione dell’economia italiana che langue da più di un decennio. Lo hanno ricordato, tra gli altri, lo storico dell’economia Pierluigi Ciocca, nella bella intervista rilasciata a Valentino Parlato su Il Manifesto del 22 maggio (“Il cuore malato dell’economia”), Mario Calabresi, nel fondo dedicato dal Direttore di La Stampa al commento del Rapporto annuale dell’ISTAT (“Il declino non è obbligato”) del 24 maggio, il Presidente di Confindustria Emma Marcegaglia nella sua relazione all’Assemblea annuale degli industriali del 26 maggio e, da ultimo, il Governatore della Banca d’Italia Mario Draghi nella sua relazione all’Assemblea annuale del 31 maggio scorso. La domanda che viene spontanea è: perché l’economia italiana non cresce? Molti osservatori rispondono a questa domanda con generiche affermazioni del tipo: “sono mancate le riforme”. Alcuni, come lo stesso Presidente di Confindustria, si spingono a denunciare quali mancate riforme abbiano impedito la crescita: semplificazioni e liberalizzazioni, infrastrutture e riforma del fisco. Il Governatore della Banca d’Italia ne ha addirittura proposto un dettagliato elenco in otto punti. Provo a fornire una diversa interpretazione.

Crescita e mancata crescita. Sgombriamo subito il campo da possibili equivoci: la crescita economica consiste nell’aumento del Valore aggiunto complessivo che coincide con il Prodotto interno lordo (PIL). Questo aggregato esprime l’ammontare dei redditi da lavoro e non da lavoro distribuiti nell’arco di un anno a tutti coloro che hanno partecipato alla produzione di beni e servizi.  Il fatto che l’economia non cresca o sia cresciuta molto lentamente sta pertanto a significare che il valore del reddito complessivo degli italiani è rimasto più o meno lo stesso di dieci anni fa. Ora, in un contesto in cui le altre economie (quelle degli altri paesi europei, ma non solo) sono cresciute a ritmi più elevati, ciò implica che la capacità di produrre e distribuire reddito da parte del sistema produttivo italiano rispetto a quella delle altre economie è andata riducendosi nel corso del tempo. Per inciso, poiché il reddito prodotto e distribuito nel corso di un anno è paragonabile al reddito annuo di una famiglia, il reddito (e quindi il PIL) non va confuso, come molti commentatori fanno, con la ricchezza: esso va infatti ad alimentare la ricchezza nella misura in cui è destinato al risparmio. Ora, se è vero che per far fronte ai consumi e mantenere inalterato il tenore di vita molte famiglie italiane non risparmiano più, anzi fanno ricorso in misura sempre maggiore o al risparmio accumulato (la ricchezza propria), o all’indebitamento (l’utilizzo della ricchezza altrui), in un contesto in cui il reddito non aumenta anche l’accumulazione della ricchezza ristagna. Tuttavia non è corretto confondere il primo con la seconda.

L’euro ha fatto bene all’Italia, meno agli italiani. Dal secondo dopoguerra, l’economia italiana è sempre stata trainata dalle esportazioni e le crisi economiche e i periodi di stagnazione che si sono succeduti dagli anni 70 in poi venivano affrontati principalmente mediante il ricorso alla svalutazione della lira. Con l’adozione della moneta unica (adottata virtualmente nel 1999 e con il circolante dal 2001), e con il conseguente trasferimento delle competenze di politica monetaria alla Banca Centrale Europea, ciò non è più possibile. La svalutazione della moneta comporta che siano necessarie più unità di moneta nazionale per acquistare una unità di valuta estera. Ciò ha l’effetto di rendere più vantaggiose le esportazioni delle imprese nazionali e più care le importazioni dall’estero. Dopo il drastico ridimensionamento dell’istituto della scala mobile nella primavera del 1986, istituto che garantiva l’aggancio dei salari monetari alla dinamica dei prezzi interni e la sua definitiva abolizione nel luglio del 1993, la svalutazione della lira si traduceva in una certa decurtazione dei salari monetari. Con l’introduzione dell’euro e nell’assenza di un adeguato accompagnamento dei prezzi alla nuova moneta (a differenza di quanto è accaduto in altri paesi europei), tutti coloro, che si ritenevano al riparo dalla concorrenza internazionale e che possedevano una certa capacità di fissare il prezzo per le proprie merci o delle proprie prestazioni hanno approfittato della situazione per attuare una sorta di iper-svalutazione (interna) della lira: anziché applicare il cambio ufficiale di 1936,27 per un euro, chi ha potuto ha adottato un cambio di mille lire (che è circa la metà di quello ufficiale), con la conseguenza che i salari e le pensioni, valutate al cambio ufficiale, hanno subito una decurtazione che talune indagini statistiche hanno stimato in circa il 30%. La riduzione del potere d’acquisto dei salariati e dei pensionati, che ha colpito prevalentemente il ceto medio, unitamente alle misure di contenimento del disavanzo e del debito pubblico imposte dal Trattato di Maastricht ai governi nazionali (ai quali è rimasta la competenza in materia di politica fiscale), hanno provocato una consistente contrazione dei consumi delle famiglie. Alla contrazione dei consumi ha fatto seguito una contrazione degli investimenti reali delle imprese, dal momento che queste ultime si sono ritrovate con una capacità produttiva in eccesso rispetto alla domanda calante dei consumi. Dunque, più che all’ingresso dell’Italia nell’euro, come qualcuno ancora recentemente ha adombrato, parte della stagnazione della nostra economia andrebbe ascritta alla responsabilità di coloro che hanno approfittato del cambio della moneta per arricchirsi a scapito di tutti gli altri. Ma la storia non finisce qui.

Perché l’Italia non cresce. Il quindicennio, politicamente tumultuoso, che ha preceduto l’ingresso dell’Italia nell’euro è stato caratterizzato da una serie di misure (dalla fine  dell’intervento straordinario per il Mezzogiorno, all’assunzione di misure di politica industriale che prevedevano la ridefinizione delle aree da ammettere al sostegno comunitario, all’adozione di una Programmazione negoziata che mirava a coinvolgere nella gestione dell’economia le regioni, gli enti locali, le associazioni di rappresentanza dei lavoratori e degli imprenditori) che testimoniano come il nostro sistema produttivo si sia presentato a quell’appuntamento in una fase di oggettiva difficoltà. In questo contesto, il passaggio dalla lira all’euro ad un cambio ufficiale, da molti osservatori considerato eccessivo, ha indotto le imprese esportatrici, trovatesi in difficoltà, ad intraprendere misure di razionalizzazione volte a riacquistare competitività verso l’estero. In sintesi: con il passaggio alla moneta unica, tutte le componenti della domanda aggregata, sia quelle interne (i consumi, gli investimenti, la spesa pubblica), sia quella esterna (le esportazioni) sono state sottoposte a pressioni restrittive. E ciò spiega in una certa misura il rallentamento subito dall’economia italiana. Ora, siccome questa interpretazione è incentrata sul lato della domanda, proverò a fornirne una alternativa basata su una teoria elaborata dall’economista americano Moses Abramovitz (1912-2000). Secondo questa teoria la crescita o la mancata crescita di una economia dipenderebbe dall’azione di due distinte forze: quella che esprime il potenziale economico e quella che rappresenta la capacità degli operatori economici e delle istituzionidi realizzare ilpotenziale. La prima forza risente principalmente dei vantaggi di cui godono le economie emergenti, le quali, essendo giunte di recente nella fase dell’industrializzazione e crescendo a ritmi sostenuti (in quanto la loro economia è trainata dalle esportazioni e dalla domanda interna), possono usufruire di impianti tecnologicamente più avanzati e di un circolo virtuoso innescato dalla dinamica della produttività: le esportazioni favoriscono la crescita, quest’ultima fa crescere velocemente la produttività la quale alimenta un nuovo impulso alle esportazioni. Non essendo l’Italia un paese emergente, la nostra economia non può godere di questi vantaggi, per cui l’intensità di questa forza, che determina la capacità produttiva del sistema economico, è relativamente debole. Per quanto riguarda la forza che attiene alla capacità di realizzazione del potenziale, la sua direzione (può essere che vi sia il potenziale, ma la capacità di realizzarlo sia nulla o negativa) e la sua intensità dipendono: 1) dalla solidità dei cosiddetti «fondamentali» di una economia (vale a dire l’inflazione, l’equilibrio nei conti pubblici e l’equilibrio nei conti con l’estero); 2) dalla maggiore o minore adattabilità del sistema produttivo ai mutamenti che avvengono nella frontiera tecnologica e 3) da alcuni altri fattori che sono riconducibili alle condizioni sociali, culturali e istituzionali che caratterizzano il paese. Questi ultimi esprimono il contributo alla crescita derivante da due distinte forme di capitale: il cosiddetto «capitale umano» e il «capitale sociale». Il primo riflette lo stato delle conoscenze dei lavoratori e della loro capacità di adattamento alle diverse condizioni del mercato del lavoro. Il secondo dà conto della maggiore o minore condivisione collettiva del sistema delle regole da cui dipende lo stato della fiducia. (A proposito di questa peculiare forma di capitale vale la pena di sottolineare come per conquistarsi la fiducia del prossimo occorra spesso un certo periodo di tempo, mentre per distruggerla basta un attimo.) Ora, anche a prescindere dai primi due fattori (senza dimenticare peraltro che sulla nostra economia grava il fardello del debito pubblico e che l’incidenza sul sistema produttivo di una miriade di micro-imprese non favorisce certo la rapida diffusione delle innovazioni), non è necessario essere degli acuti osservatori per accorgersi che negli ultimi dieci-quindici anni queste due forme di capitale hanno subito nel nostro paese una progressiva dissipazione. Ciò, a causa sia di riforme mancate, sia, soprattutto, di sciagurate riforme attuate, come quelle sul precariato, sulla scuola, sull’Università o, peggio, sulla depenalizzazione di reati fiscali o del falso in bilancio. Stando così le cose, temo che occorrerà parecchio tempo per la loro ricostituzione.       

Per tornare a crescere. Indagini recenti, sia dell’ISTAT che dell’INPS, hanno evidenziato la crescente iniquità nella distribuzione personale dei redditi (un fenomeno non solo italiano, ma particolarmente acuto nel nostro paese), accentuato dai meccanismi che hanno accompagnato l’adozione della moneta unica ai quali si è fatto cenno più sopra. Per rilanciare i consumi delle famiglie non basta la pubblicità o la presenza delle merci negli scaffali dei supermercati: occorre soprattutto la disponibilità di reddito. Posto che la propensione a consumare diminuisce all’aumentare del reddito disponibile, l’attuazione di misure volte ad ottenere una più equa distribuzione dei redditi (accentuando, ad esempio, la progressività del regime fiscale) favorirebbe un aumento dei consumi a parità di reddito. Per quanto attiene invece al potenziale della nostra economia e alla capacità di realizzazione dello stesso, dal momento che non è più possibile né il ricorso alla svalutazione né, tanto meno, all’ausilio della politica monetaria (in quanto di competenza della BCE) non restano che gli strumenti della cosiddetta politica fiscale, da esercitarsi in ogni caso nei limiti imposti dall’appartenenza all’Unione Europea. Per rilanciare la crescita economica non rimane quindi che affidare le residue speranze alla gestione delle entrate (la tassazione) e delle uscite (la spesa pubblica) del bilancio dello stato (la politica fiscale, appunto), nonché la capacità del nostro sistema politico di agire con senso di responsabilità e con una visione di più ampio respiro. In altri termini, di operare per il rafforzamento del potenziale economico e per la ricostituzione del capitale umano e di quello sociale. Ma per fare ciò, occorre abbandonare una concezione della politica economica basata sui principi dominanti del liberismo imperante (sintetizzabile nello slogan «meno stato più mercato»), in favore di una rivisitazione di quei principi liberali di giustizia e di equità che hanno ispirato i grandi economisti e pensatori della scuola anglosassone della prima metà del Novecento. Più efficienza nello stato e più mercato?

11/06/2011 12:00:00
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