"Ritorno al carbone". Trump ci prova ma non è così facile
Il
climatologo Michael Mann (1) ha portato in una recente comunicazione al
“Congresso” degli Stati Uniti una nuova testimonianza di quanto siano forti e
chiari i segnali del cambiamento climatico. Ma di questo il Presidente
Trump proprio non vuol sentire parlare.
Si tratta
sostanzialmente della constatazione che si verrebbero a formare delle “slowing down waves”, praticamente delle
gigantesche ondate di alterazione climatica (in media di una decina di gradi
superiori alla media) che si arriverebbero fino a terra, provocando incendi
immani e alluvioni catastrofiche. Cita al proposito l’ondata di caldo che ha
coinvolto l’Europa nel 2003, i ripetuti danni al permafrost canadese e siberiano e le drammatiche alluvioni in
Pakistan del 2010.
Presso la
“Pennsylvania State University” sono arrivati anche ad identificare un
particolare tipo di “corrente a getto” collegabile agli eventi presi in
considerazione. Aggiungendo che “c’è solo
da aspettarsi una recrudescenza dei fenomeni estremi, sempre più circoscritti e
imprevedibili”. Ma il “Congresso” si è limitato a registrare, trascrivere,
trasmettere negli uffici di competenza e poco più.
Il dott.
Mann, d’altra parte, non ha avuto
problemi a presentare le sue teorie ad una platea estremamente critica (e
sostanzialmente prevenuta) del Comitato
di esperti e politici presieduto dal repubblicano del Texas Lamar Smith. Lo
studioso non ha fatto altro che spiegare il contenuto della pubblicazione
appena edita (27 marzo 2017) sul “Scientific Reports” basata sul confronto
temporale e sull’analisi in dettaglio delle cosiddette “Rossby waves” correnti a getto anche presenti ad altitudini minori,
perfettamente documentate nei loro nuovi percorsi “fascianti” lungo tutto
l’emisfero nord.
Condizione
verificata e confermata dal coautore della pubblicazione co-Stefan Rahmstorf,
scienziato del Potsdam
Institute for Climate Impact Research
In sostanza
si tratta di un ristagno di “gas serra” di varia origine e di composti
eterogenei ma estremamente sensibili ad interazioni e sviluppi repentini.
Funzionando
come un “accumulatore” di calore, queste “onde” portano ad una sempre minore
differenza di temperature fra il polo e i tropici, con una tendenza alla
mitigazione soprattutto delle temperature fredde.
Un altro segnale evidente di
come il clima stia cambiando, ma chi dovrebbe intervenire si gira dall’altra
parte…
Ma che intenzioni ha Donald Trump?
E’
sicuramente vero che una delle motivazioni che hanno portato consenso popolare
all’attuale presidente sia il “voler ridare il lavoro agli americani”, un po’
in tutti i settori. Solo che l’operazione, almeno per il settore energetico si
sta dimostrando più complessa del previsto.
Era
atteso per martedì 28 marzo (e si è esattamente verificato) il passo
fondamentale che dovrebbe mettere la parola fine ai provvedimenti (pur timidi)
del periodo Obama. Questo anche in
presenza di un accentuazione dei fenomeni legati al c.d. “cambiamento climatico”.
A colpi di decreti e di ordinanze Trump ci prova…
Ma gli
economisti che hanno competenza nel campo energetico ritengono che non sia
facile cambiare abitudini e strategie per il mercato statunitense, già alle
prese con scelte precedenti che hanno rilanciato sia il carbone (specie sotto
forma di olio ricavato dagli scisti carboniosi) sia il gas naturale, praticamente al limite delle
possibili utilizzazioni industriali.
Ad
esempio il prof. Robert Stavins, economista della Harvard University ci ricorda che gli USA non dipendono
dall’estero per il carbone in tutte le sue forme… E ce lo dice con una punta di
orgoglio. “E questo è un risultato recente,
dovuto agli ultimi vent’anni di riorientamento dei piani energetici, anche in
vista di un declino della fonte nucleare classica.”(2)
Interessante
cosa è uscito fuori da un recente sondaggio che ha toccato milioni di
consumatori e che in sostanza ci dice due cose: la prima è che praticamente
tutti conoscono il significato e le motivazioni dell’aumento delle temperature,
dell’entità delle nuove concentrazioni dei vari gas-serra (quindi delle
varie motivazioni che stanno portando ad alterazioni climatiche significative).
Tuttavia, e questo è il secondo dato, qualsiasi iniziativa importante avrebbe conseguenze rilevanti per la loro vita di tutti
i giorni, quindi “meglio tirare a campare”.
Cercando
di interpretare questa seconda parte di “sentimento popolare” l’amministrazione
Trump ha deciso di cambiare nettamente gli obiettivi dell’ Environmental Protection Agency (EPA) andando a riscrivere quelli
che erano i tratti costitutivi del Clean
Power Plan, cioè dei “provvedimenti Obama” per far fronte ai cambiamenti
climatici.
Con
un gioco di parole da alta scuola Scott Pruitt, nuovo amministratore
dell’E.P.A. ha affermato in una recentissima intervista alla ABC News (3) che “il nostro impegno tenderà ad ottenere risultati effettivi per il lavoro
(pro-jobs) e per l’ambiente (pro-environment) ribadendo la necessità di una
libera iniziativa in campo energetico, non vincolata da condizionamenti o interessi
di parte”
Sta di
fatto che, per il momento, i lavoratori delle miniere di carbone e dell’indotto
dello specifico settore non hanno ancora ottenuto i rientri richiesti nei
luoghi di lavoro. Si dice (ma “si dice” soltanto) che “siano prossime ordinanze di riapertura degli impianti, ora chiusi per
diseconomia o per pericolosità, in modo da rilanciare il settore carbonifero
per almeno dieci anni”. E’ sempre Pruitt ad affermarlo, anche se i dati dei
centri studi dell’industria energetica ci dicono altro: “quel che si poteva
fare è già stato fatto… il resto ci porrebbe di fronte a scelte pericolose o
con conseguenze legali non definibili”.
Bisognerà
comunque tenere conto di un dato di fatto (e sono sempre i documenti dei centri
studi a ricordarcelo): “all’atto delle riaperture ci troveremo di fronte a
tutta una serie di meccanizzazione e computerizzazione delle lavorazioni che
terranno comunque fuori un buon numero di lavoratori”.
Ci
vorrà comunque tempo per questa inversione di tendenza che necessiterà, oltre
che di un indirizzo politico e di una attività amministrativa coerente, di revisioni tecniche e riorganizzazioni
industriali degli impianti, con annessi finanziamenti tutti da reperire. Un bel
rebus per Trump e soci.
E non
basta. La Corte Suprema degli USA ha
condizionato gli stessi provvedimenti legati al “Cleaner Power Plant” obamiano,
ad una interruzione definitiva della filiera energetica basata sul carbone,
indicando nelle energie rinnovabili più affidabili i “punti forti” su cui
puntare.
Nonostante
ciò lo staff del presidente Trump, e a volte lo stesso presidente come è
successo in una recente visita in Kentucky, ribadiscono il loro sostegno ai
minatori carbone impegnandosi al massimo per la riapertura dei loro luoghi di
lavoro tradizionali.
I
numeri, però, non sono dalla parte di Trump: dal 2008 al 2015 gli impiegati nel
settore specifico sono passati da circa 88 mila a soli 66 mila, con una diminuzione netta di circa
il 20%. (*according to Energy Department Statistics).
Si ha
anche la tendenza ad interpretare la presente fase come un momento
di stasi nel mercato del carbone, piuttosto che una qualche conseguenza del
peggioramento della condizione
ambientale generale. Anche questa una impressione più per tacitare le coscienze
che per prendere atto dei fatti.
“Attendiamo con impazienza questi
provvedimenti perchè sappiamo quanto siano essenziali sia per la nostra
sopravvivenza sia per permettere alle famiglie di ritornare al lavoro di sempre” . Queste parole sono di
Robert E. Murray, ‘chief executive’ della Murray Energy. Evidentemente dalla
parte di chi, la speranza, non la vuole perdere.
Anche
se lo stesso Murray mostra qualche preoccupazione rispetto ai tempi reali di
rientro nel ciclo economico specifico, ma “preferisco non pensarci” dice…
Purtroppo
però il decisionismo di Donald Trump si sta manifestando in tutta la sua
efficacia proprio nello smantellare una mezza dozzina di provvedimenti dell’ex
presidente Barack Obama.
Tutti‘executive orders’ che hanno in qualche
modo a che fare con la limitazione dell’effetto
serra e su interventi all’origine.
Cioè nella fase di produzione dell’energia che, evidentemente, per Trump ha
ancora possibilità di manifestarsi in tutti i suoi aspetti più tradizionali.
I
provvedimenti in via di modificazione riguardano la possibilità di riaprire
impianti oggi dismessi e soprattutto i metodi di valutazione dell’impatto
ambientale della filiera “nera”. Interventi meno stringenti rispetto a filtri e
ad analisi di acqua e aria, facilitazioni fiscali e bancarie per le produzioni energetiche
interne, specie se collegate agli apparati industriali degli States.
Gli Stati
Uniti rispetteranno modalità e tempi fissati dal COP21 di Parigi?
Sullo
sfondo restano le prescrizioni della recente COP 21 di Parigi con le stringenti
prescrizioni in termini di cambiamento delle produzioni (specie quelle a
maggior impatto) e con ‘impegni’ sia come singoli Stati sia come “rete” a mantenere i termini del riscaldamento
globale entro 1,5 gradi.
Si ha l’impressione
dell’intenzione di Trump e del suo staff di non tener fede all’impegno di
arrivare una riduzione (per gli Stati Uniti) di un meno 26 per cento delle
emissioni globali (al 2025) rispetto al 2005.
Su
questo è perentorio Michael Oppenheimer della Princeton University che senza
giri di parole ci dice che ”Cercare di
ottenere i risultati indicati dalla Conferenza di Parigi comporta una completa
riconversione della politica economica di uno Stato e che, anche
nell’eventualità di rientro per una nazione, è comunque necessario il
cambiamento su scala generale , dati gli stretti collegamenti, specie
industriali ed economici delle varie entità statali”.
Un
comportamento doppiamente riprovevole, quello della nuova amministrazione
Trump, perchè oltre ad aggravare la situazione di inquinamento globale,
disincentiva gli Stati (o le aziende) ad avviare percorsi di rinnovamento
costosi ma fondamentali per il riequilibrio ambientale. Ma per il momento il nostro Trump tira dritto…
Ma i grandi
investitori la pensano diversamente…
“Chiaro che una rimessa in discussion del COP21 parigino si porterà
dietro un raffreddamento delle procedure di cambiamento da parte di China e
Unione Europea” . Queste sono le parole di Alister Doyle corrispondente
dell’agenzia Reuters dall’Europa.
E ribadisce, nel caso
non fosse chiaro il concetto che “nel
pacchetto di interventi proposti dalla nuova amministrazione sono presenti una serie di provvedimenti tesi a rendere più facile
per le compagnie produrre negli States;”
Ma perché nell’entourage
del Presidente prevale la considerazione che sarebbe meglio soprassedere
rispetto agli impegni presi dall’amministrazione precedente alla COP21?. La
risposta è in uno dei tanti studi presentati a suffragio di idee altrimenti
poco comprensibili.
Fra i molti esempi ne
scegliamo uno: “il vero “tallone d’Achille”
dell’Accordo di Parigi sta nel fatto che è interamente costruito sul “consenso””.
Questo viene ribadito da Johan Rockstrom, direttore del “Stockholm Resilience
Center at Stockholm University”. Pertanto, in mancanza di vincoli o patti di
particolare peso, gli Americani – oggi – si sentono liberi di muoversi a
piacimento.
E pensare che il “Paris
Agreement” è stato ideato con pochissimi
obblighi proprio per incentivare il “cambiamento”. Lascia alle varie Nazioni modalità e tempi di
intervento senza nemmeno prevedere particolari e stringenti penalità in caso di
inadempienza. E questo che è un pregio evidente, se “reinterpretato” diventa
una debolezza.
E sono proprio i rappresentanti
dei Paesi più a rischio – come per esempio le Maldive – a richiedere un pronto
riscontro agli impegni di Parigi “Prima
si interviene , meglio è” dice, infatti, Thoriq Ibrahim (4) pensando ai rischi di sommersione a cui vanno
incontro le sue isole dell’Oceano Indiano. Parole già sentite da altri… ma – a quanto
pare – dette al vento.
Per la verità le voci contrarie
all’eventuale disimpegno americano sono molte, vanno dalla Norvegia, alla
Germania, alla stessa Italia e riguardano più di duecento Nazioni che si sono
già impegnata in modo virtuoso. Chi però andrà a cambiare sul serio le carte in
tavola, riportando l’amministrazione Trump alla ragione, sarà Stephanie
Pfeifer, presidente dell’ “Institutional
Investors Group on Climate Change” un forum di super investitori con un
pacchetto di 18.000 miliardi di dollari a disposizione. E, ricorda la Pfeifer, “le
scelte sono già state fatte, e riguardano il comparto delle rinnovabili”.
Almeno è quanto si aspettano gli analisti più accreditati.
Secondo gli “accordi di
Parigi” portati a termini da Barack Obama gli obiettivi sono chiari: circa il 26/28
per cento in meno di emissioni rispetto al 2005 entro e comunque non oltre il
2025. “In modo da poter fronteggiare in
futuro alluvioni, improvvise siccità, onde di calore e super tornados” . Parole
di nuovo pronunciate dalla dott.ssa Pfeifer.(5)
Invece, come si può
capire, con le correzioni ad diminuendum
dell’amministrazione Trump, non si potrà avere che un effetto molto minore
rispetto agli obiettivi previsti. E la sua attenzione alla modifica all’art. 4
dell’accordo è da interpretare tutta in questa luce: non rifiuto, ma tempi
differenti e, soprattutto, l’impegno a non reiterare gli sforzi “depressivi” dell’economia
legata ai “fossili” perché, secondo Trump, a quel punto ci si avventurerebbe in
una strada senza ritorno. Ma quasi ventimila miliardi di dollari possono far
cambiare idea a tutti…anche a Trump.
…
.1. BOB
BERWYN. Change-Fueled Jet Stream Linked to Brutal Floods and Heatwaves,
(A slowdown in planetary winds
triggered recent episodes of extreme weather, according to research by
climatologist Michael Mann). INSIDECLIMATE
NEWs. 27.03.2017
.2. CORAL DAVENPORT.
Planned Rollback of Climate
Rules Unlikely to Achieve All Trump’s Goals . NYT . 27.03.2017
.3. ABC
News (*'This Week' Transcript 3-26-17: Sen. Chuck Schumer, Rep. Mark Meadows,
Roger Stone, and Scott Pruitt). 26.03.2017
.4. Neo
Presidente dell’Arcipelago delle Maldives
.5. ALISTER DOYLE Reuters Threatened
U.S. pullout might help, not hobble, global climate pact . OSLO. Reuters. 22.03.2017