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Comune e attualità alessandrina
Il Congresso della Discordia
Mauro Calise
 Il congresso della discordia

di Mauro Calise

 

Le tanto attese motivazioni della Consulta sull’Italicum non cambiano – né avrebbero potuto – lo scenario di guerra aperta tra i partiti e, soprattutto, all’interno dei partiti. Sgombrato il campo dal ballottaggio, ciò che resta del dispositivo elettorale è «immediatamente applicabile». E per quanto resti auspicabile che, nelle due camere, si producano maggioranze omogenee, è proprio questa la quadratura del cerchio che nessuno sa come realizzare. Al punto che l’unico rimedio era stato abolire il Senato. Fallita questa possibilità, rassegnamoci. E non prendiamoci in giro. Il turbinio di proposte in campo servono solo a fare melina. Questo accordo non si troverà mai. Da come si sono espressi i partiti – e le correnti all’interno dei partiti – non c’è una maggioranza trasversale per approdare a una nuova normativa. E, sotto sotto, ciò che resta dell’Italicum non dispiace ai segretari in carica, che disporrebbero così di un’arma per provare a disciplinare – almeno un poco – i loro rissosissimi parlamentari. Quindi, finiremo con l’andare al voto con la – pessima – legge che ci ritroviamo. E, quasi certamente, non ci andremo prima della scadenza della legislatura. La vera novità di questi giorni è che Renzi ne sta prendendo atto. E sta mettendo mano a un piano B.

Si sa che l’ex-premier avrebbe avuto tutto da guadagnare nell’andare al più presto alle urne. Con la legge elettorale attuale, aveva ancora un discreto controllo sulle candidature. E, cosa forse anche più importante, poteva sperare di contare ancora in buona misura su quel blocco del 40% che lo aveva seguito al referendum. Si, non erano tutti voti Pd. Ma che fossero voti al renzismo nessuno lo aveva messo in dubbio. E il Niet tretagono al voto subito venuto da tante parti del Pd aveva – ed ha – proprio questo obiettivo. Evitare che si rinsaldasse il segretario con un buon risultato elettorale. Renzi all’inizio ha pensato di potercela fare lo stesso. Ma quando ha visto che alla contrarietà del Capo dello stato si sommava, neanche tanto sottovoce, quella di alcuni capi-corrente della sua stessa maggioranza, si è rassegnato a cambiare strategia. Visto che al voto non si riesce a andare, ha bisogno di un evento di mobilitazione con il quale tornare sulla scena. E il Congresso è l’occasione migliore.

Certo, è anche un’occasione perchè i suoi oppositori interni provino a fargli la pelle. Al punto che perfino D’Alema ha fatto un brusco dietrofront. Aveva appena fatto il pre-lancio del suo partitino scissionista quando l’ipotesi che il congresso si celebri prima delle elezioni gli ha fatto – quasi – cambiare idea. E certo, non per amore del dibattito.

Altro che discussione interna. La testa del segretario. E’ questa l’unica posta in gioco del Congresso. Ma per vincere questa battaglia, la minoranza avrebbe bisogno di allearsi con una fetta consistente della maggioranza. Facendo un clamoroso ribaltone. Sulla carta, non è impossibile. Ma occorrerebbe tempo, molto tempo. E invece, se partisse subito la sfida con le candidature in campo aperto, c’è qualcuno tra i big disposto oggi a rischiare di scendere in pista di contro a Matteo Renzi? Tutti i sondaggi sembrano concordi nel confermare che, tra gli elettori Pd, Renzi conserva una maggioranza schiacciante. Ed anche tra i militanti non si vedono – al momento – crepe in cui potrebbe provare a infilarsi uno sfidante.

Dunque, ricapitolando. Niente urne a giugno, niente nuova legge elettorale, congresso Pd prima possibile. E’ questo lo scenario più probabile? Forse, ma senza farsi illusioni sulla sopravvivenza del Pd. Almeno nella sua forma attuale. Se dovesse uscire sconfitta dal congresso, la minoranza non accetterà il verdetto. E da Emiliano a D’Alema, passando per i bersaniani, troveranno milleeuno pretesti per protestare e sbattere la porta. Tanto, con ciò che resta dell’Italicum, una lista del 3 per cento riuscirebbero probabilmente a farla. Forse anche un paio. Mettendo in salvo le proprie poltrone. E a quel punto il Pd comincerebbe a rassomigliare all’etichetta un po’ frettolosa – ma azzeccata - che Ilvo Diamanti gli ha affibiato. Il PdR. Il partito di Renzi. Il suo partito personale.

                    

“Il Mattino”, 11 febbraio 2017

 

13/02/2017 11:53:28
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