Nei giorni scorsi sul blog dell’assessore Abonante
sono apparse alcune brevi, ma significative, considerazioni (redatte in una con
il consigliere regionale Ravetti) riguardo al ruolo, da rinverdire, di Alessandria,
come città in sé e come capoluogo provinciale.
Laddove su questo tema si esercitano spesso digressioni
proiettate al passato, che non torna, o ad un futuro che non arriva,
l’approccio, realistico e dialogico, della nota
è stato avvertito.
Sul fascicolo celebrativo del 150° genetliaco della
“Stampa”, Piero Bottino ha dedicato ben due pagine, della sezione alessandrina,
per riprenderne e svilupparne il leitmotiv: centralità del capoluogo da
recuperare e settori, o ambiti, da privilegiare con investimenti mirati alla
rianimazione dello sviluppo socio-economico.
Centralità – effettiva e non solo burocratica – del
capoluogo. Dalla vecchia e un po’ aulica
descrizione di “provincia federata” – propria dell’Era della
Programmazione – si sarebbe passati, andando a ritroso, alla “balcanizzazione” dei sette Centri zona,
ciascuno con le sue prerogative e gelosie. Invertire il processo, certo, ma da
dove ripartire? Dal “condividere un progetto comune di sviluppo
sociale ed economico” auspicano Abonante e Ravetti, consapevoli
peraltro – suppongo – che sono ormai al lumicino, per desuetudine, grammatica e
sintassi di un discorso del genere.
Il processo di sorda demolizione dei “corpi intermedi”, non
solo socio-politici ma anche territoriali, intervenuto (vedi province) negli
ultimi anni, richiederà forza e determinazione erculee per recuperare un ottica
federativa anziché procedere sullo scivolo, glorioso ma antistorico, dei
“liberi comuni”.
Interessante, in termini di buon senso, la sorta di
pre-condizione ai progetti condivisi evocata dagli autori: procurare di
mantenere in vita e vigore gli indirizzi e le scelte strategiche, almeno quelle
più significative, “oltre la maggioranza pro-tempore”. Alias:
limitare, per buona e civica creanza, la prassi in voga di spianare certe
scelte di un’Amministrazione comunale
nonappena venga ad insediarsi, in clima polemico, quella successiva.
Ambiti e settori – Sulla base delle poche righe
esemplificative dei possibili “obiettivi forti” - da proporre alla discussione e alla
condivisione dell’ennesimo, mitico “tavolo” – non si può ragionevolmente esprimersi, in atto, né per qualità né per
quantità dei medesimi. Sono per l’appunto esempi (a/ Medicina-Ospedale-Università; b/
Ricerca-Ambiente; c/ Cultura e Turismo) avanzati per testare – possibilmente in
clima d’armistizio - un metodo di lavoro: “chiamare i decisori pubblici
intorno ad un tavolo che sappia individuare gli ambiti di sviluppo e la
vocazione o le vocazioni territoriali” da supportare decisamente con le opportune risorse finanziarie ed
organizzative.
Al massimo si può far seguito con alcune osservazioni a
futura memoria. Primo – Prendere per tempo le distanze dal fascino
sempiterno delle “vocazioni territoriali”: normalmente concetto pregno di
immagini quanto vacuo di riscontri reali e, proprio per questo, adattabile ad
infinite circostanze di partenza.. Provare, in controprova, a individuare un
comune o un territorio che non abbiano ancora scoperto, o non stiano già coltivando, una loro
promettente vocazione turistica da
mettere a frutto con interventi pubblici di varia natura. Perfino diversi
“distretti industriali”, che sviluppavano “vocazioni” datate e acclarate, hanno
perso, nei lunghi anni di crisi strisciante, smalto e identità. Secondo –
Pur essendo portati, come Amministratori locali, ad evidenziare il ruolo-guida
della “macchina pubblica” quanto a indirizzi e risorse da mettere in campo,
sarebbe bene rammentare – nei fatti, oltre che in astratto – che esiste ed
opera una consistente “sfera privata” dell’economia che contribuisce
significativamente al totalizzatore dello sviluppo socio-economico e che
manifesta obiettivi ed esigenze decisivi perché i “conti strategico-locali”
tornino poi con qualche successo.
Dario Fornaro