Teniamoci sul leggero, mettiamola sull’elzeviro, a
cominciare dal titolo.
Movente: serata del 2 febbraio, salone affollato del
“Buoi Rossi”, conferenza-dibattito di Massimo Cacciari, invitato
dall’Associazione Arcipelago per trattare il tema di drammatica attualità “Quale società, quale
democrazia”.
Accadimento: in un’ora e
mezza di vivaci conversari non è risuonata una sola volta la parola
“globalizzazione” che fino a poc’anzi, dati personaggio e argomento, avrebbe
spopolato per vastità e intensità di riferimenti. Il decorso dei ragionamenti
(crisi economica perdurante e diffusa: tarlo micidiale della democrazia
occidentale) la spingevano ripetutamente in scena, ma, niente da fare, non si è
presentata.
Può essere un puro caso,
un’anomalia statistica, ma altre concomitanze possono indurre il sospetto che,
nell’ultimo scorcio d’anno, l’assillante richiamo alla globalizzazione sia
diventato di botto un arnese socio-economico logorato dall’uso, ingombrante,
inefficiente e perfino antipatico. Del tipo: diceva tutto e ora quasi niente,
pura immagine confusa e controversa. Già rassicurante – a parte qualche
tollerabile “effetto collaterale” – nel senso che i benefici avrebbero
investito, in varia misura, tutti paesi inseriti nel processo mondiale di
crescita. Preoccupante ora che l’insicurezza – dei fini e dei mezzi – zampilla
da tutte le parti.
Probabile addio al bel gioco,
o confronto, nel quale (win-win / vinci-vinci) tutti i partecipanti traggono
vantaggio e nessuno “va in rosso”. Trapela ormai il ritorno alla dura normalità
dei giochi o confronti nei quali alla fine c’è chi vince (tanto o poco) e c’è
chi perde (tanto o poco), secondo il totalizzatore dei costi-benefici.
Facile, quindi, che d’ora in
poi il tentativo di soverchiare ogni perplessità con il classico “è la
globalizzazione, bellezza!” finisca, tra nuova moda e necessità, a pomodori e
invettive. Il ribaltone semantico era già da qualche tempo alle porte, ma è
indubbio che l’arrivo del fulvo cinghialone alla Casa Bianca, abbia accelerato
il cambiamento di passo e di vocabolario.
Come Paese, dal canto nostro,
abbiamo fatto l’impossibile per misconoscere o minimizzare il portato meno
rassicurante, o addirittura debilitante, della
globalizzazione. Scopando sotto il tappeto delle riforme, sempre
magnifiche e progressive, sintomi e dati del perdurante disagio strutturale, a
cominciare dall’indigesta “produttività di sistema”.
Per buona grazia lo Stellone
d’Italia ci protegge e ci rallegra:
abbiamo sempre un’elezione generale o locale, ovvero un referendum, dietro
l’angolo per distrarci con frizzi e lazzi di giornata.
Dario Fornaro