Ho già avuto modo di scrivere un po’ di tempo fa sul sito di Città Futura nel contesto di un articolo riguardante Cioran, ancorchè tangenzialmente, sul rapporto di grande ammirazione che mi legava alla figura di Mino Martinazzoli, ultimo segretario della Democrazia Cristiana (il primo fu De Gasperi) e quindi, suo malgrado, protagonista della fase conclusiva di quel partito.

Avvocato radicato in quel profondo Nord oggi rappresentato da figure aberranti  e contemporaneamente uomo di grande coscienza nazionale, che conosceva bene la storia del Risorgimento ed il contributo dedicato dai patrioti settentrionali, a cominciare dalla sua Brescia e dalla sua Lombardia, all’unità italiana. Fu anche un politico autenticamente cristiano e altrettanto autenticamente laico; un cristianesimo fonte di ispirazione per una politica che trovava le sue radici nel tessuto sociale e nelle sue contraddizioni insolute. Una militanza problematica, non banale, non riducibile alla comoda ma angusta prigione delle certezze indiscutibili e dei valori non negoziabili. In questo costituì un esempio per molti cattolici democratici come lui.

Con la sua scomparsa, in molti hanno provato a tracciarne  un profilo ricordandone le doti di onestà e sobrietà, la raffinatezza intellettuale legata in modo indissolubile ad una cultura fuori dal comune, il gusto per l’iperbole dialettica e  l’ironia. Martinazzoli da Orzinuovi è stato indubbiamente tutto questo e altro ancora. Non fu però mai un vincente, ma solo qualora si misuri la forza delle ragioni dal loro successo, anziché dalla loro caratura («le idee non valgono per quel che rendono, ma per quel che costano» amava infatti ricordare).

Nell’occasione della sua scomparsa vorrei richiamarne la figura attingendo dall’epilogo della sua biografia politica, quasi un testamento, scritto appena un paio d’anni or sono in un linguaggio che a tratti assume un sapore poetico con la collaborazione della giornalista Annachiara Valle e dal titolo appunto “Uno strano democristiano”, anche se in questa “stranezza”, per un sottile gioco di dissimulazione, incontriamo non la difformità ma, all’opposto, l’autenticità di un’ideale politico ispirato ai più alti valori. Mi pare che le sue parole di allora, apparentemente rivolte ai lombardi e in realtà dalla portata molto più ampia e, direi, dedicabili a tutti gli italiani, costituiscano il migliore riassunto di una lezione che, nel crepuscolo morale dell’attuale politica nazionale, va ben al di là dei confini di un ricordo a futura memoria.

«Continuo a pensare che un giorno o l’altro accadrà che i lombardi torneranno a raccattare il loro senno andato sulla luna e cominceranno a pensare che quello che gli tocca di fare, per garantire la loro qualità di vita, non è di pretendere di essere altro dall’Italia, ma invece di essere all’avanguardia dei doveri degli italiani.

Oggi guardo loro da lontano. Sono stato amico di un dolce poeta di Grado, Biagio Marin, che di tanto in tanto ci mandava le sue edizioni e cominciava sempre le sue missive scrivendo «da questa lontananza». E mi capita adesso di ripeterla per me, questa lontananza. Ma continuo a essere convinto che, anche se io non lo vedrò, tornerà un tempo meno inclemente per questo seme della nostra storia che non può essere diventato infecondo. Dovranno passare molte cose. Quello che c’è in campo oggi è più un detrito, un ingombro, che non la promessa di qualcosa. Dovranno arrivare delle generazioni che risentano queste cose come cose nuove. Le risentano, perché la storia va così e non si inventa niente. Sempre il viennese Kraus spiegava una volta che, se qualcuno inventa qualcosa, è perché l’ha letta da qualche parte. La storia cammina così. Allora il problema non è di chi parla, ma di chi ascolta.

Ho l’idea che in quella storia apparentemente chiusa ci siano delle ragioni che durano. E fra le cose che ho avuto la fortuna di imparare da quella storia, vorrei ricordare due concetti che mi sono cari: la mitezza della politica e il limite della politica. Quello del limite è un tema particolarmente importante. Continuo a non avere dubbi che, nel tempo dell’illimitatezza della politica, che pure c’è stato, noi siamo stati quelli resistenti e vittoriosi contro il troppo della politica. Continuo a temere che oggi non contiamo più niente contro il niente della politica. Ma quello che mi conforta è sapere che ho avuto la fortuna di partecipare a un viaggio che rende possibili gli incontri. E quel viaggio non fu mai un viaggio solitario. Adesso, certo, lo è diventato. Perché in verità, alla fine, si viaggia solo per tornare».