Di scissioni, al di là della falsa modestia, m’intendo
parecchio. Per esperienza di vita e ancor più per i miei studi. Nel gennaio
1964 ne ho compiuto anch’io una importante, contribuendo a dar vita al Partito
Socialista Italiano di Unità Proletaria: un evento cui mi sono sempre sentito
misteriosamente legato, non solo perché fui poi - avendo il mio amico Angiolino
Rossa come Segretario - vicesegretario e cosegretario provinciale alessandrino
dal 1970 al 1972, e perché nel ’69-71 fui membro della segreteria regionale, e
nel ’72 un candidato di bandiera alla Camera; e non solo perché poi fui il
coordinatore della schiera di compagni della provincia di Alessandria confluiti
nel PCI dopo il crollo elettorale del partito nel 1972, ma anche perché il
PSIUP, con tutti i suoi non piccoli limiti, secondo me è stato il maggior
tentativo del dopoguerra di fare un partito “vero”, e non semplicemente un
micropartito o gruppo, che non fosse né socialdemocratico né comunista, né
riformista né stalinista, bensì “socialista” e basta. La caratteristica dei
veri “psiuppini” fu proprio quella di non essere assimilabili né alla
socialdemocrazia né al “komunismo”, che andarono sempre loro stretti, pur
essendo stati costretti dalla storia ad oscillare tra quei due poli più forti,
che li calamitarono per gran parte della loro vita, prima come dopo il PSIUP.
Avevano troppo a cuore il Fine di una
società post-capitalista e l’unità della sinistra socialista e comunista per
poter essere, in qualsiasi senso, socialdemocratici; e la libertà d’opinione
personale, pur accettando il principio di maggioranza, per uniformarsi
convintamente alla volontà degli organismi dirigenti, per poter essere davvero
comunisti. Ma siccome socialdemocratici e comunisti erano i poli dominanti
della sinistra, in Occidente come in Italia, dovettero sempre far buon viso a
cattiva sorte, rispetto al polo “loro”, sempre “più convinti che persuasi”.
Nello PSI la Sinistra
uscita nel ’64 aveva il 30% e l’ala
autonomista di sinistra (lombardiana) le era, nel 1963, prossima. L’uscita
della Sinistra di Vecchietti, Basso e Foa rafforzò l’alleanza tra PSI e DC,
anche se gli scissionisti avevano un gran motivo - il sacrificare o meno
l’unità della sinistra con i comunisti per allearsi con la Democrazia Cristiana
- e, soprattutto, furono una delle
principali forze anticipatrici del Sessantotto, tanto che innumerevoli
contestatori fecero almeno tappa nel PSIUP. Per questi pro e contro, quando
quarant’anni dopo lo scioglimento del PSIUP del 1972 ci siamo trovati a Neive,
in un ristorante del compagno Negro e della compagna sua moglie - come ex
“psiuppardi” del Piemonte - a ricordare l’evento, io scherzosamente brindai “al
partito che non avremmo mai dovuto fondare, e neanche sciogliere”. A parte ciò,
come studioso, curai vaste raccolte di scritti di Bordiga (Feltrinelli, 1975) e
soprattutto di Filippo Turati (Feltrinelli, 1979) e scrissi la biografia
politica del primo segretario del PCI, appunto Amadeo Bordiga (Editori Riuniti,
1976) e più oltre quella di Filippo Turati (Rizzoli, 1984), fondatore dello
PSI: un partito così segnato da scissioni da essere un caso esemplare in
materia. (Persino la sua nascita, nel 1892, sorse da una scissione dei
socialisti dagli anarchici). Inoltre scrissi innumerevoli saggi e articoli su
temi del genere su piccoli e grandi periodici e riviste nazionali o in opere
collettanee, che non richiamo, su Gramsci (soprattutto), Togliatti, Terracini,
Tasca, Longo, Leonetti e altri. Ero (e sono) sempre mosso dal bisogno di una
“vita nuova”, post-capitalista, contro la dominante civiltà borghese; anche se
da un certo punto in poi, dalla fine
degli anni Ottanta del secolo scorso - ma in base a “sospetti” ben più antichi
- mi sono convinto che la vita di tutti e di ciascuno cambi (o non cambi) “in
interiore homine” e “in interiore societate”: per cui quel che occorrerebbe per
superare il capitalismo sarebbe innanzitutto un mutamento molto profondo della
mentalità, conforme ai tratti solidali e
anche spirituali della nostra specie, a dispetto di altri tratti da “animali da
preda” risultati dominanti da molti secoli, ma non fatali. Da ciò è venuto il
mio interesse sempre più forte per la psicologia analitica e per la dimensione
spirituale, e anche religiosa, nella storia. Premessa lunga, che vi prego di
sopportare. Sono ormai vecchio e con me
ci vuole pazienza. Vedrete che un nesso, col discorso più specifico che
c’interessa oggi, emergerà.
In base a tutto ciò, infatti, mi sono formato alcune
convinzioni generali sulle scissioni della sinistra, ed anche sulla rottura in
atto nel Partito Democratico.
Convinzione
generale. I semplici lavoratori e anche i vecchi socialisti (tra cui ricordo
benissimo Sandro Pertini nel salone dello PSI di via Faà di Bruno di
Alessandria a fine ’63, che allora, assolutamente a torto, mi parve “un
trombone”), avevano ragione nel loro apparentemente “facile” chiedere “unità”
contro ogni rottura. Le scissioni sono state tutte dannose. Giustifico ancora
quella del PCI del 1921, ma solo perché era tra quelli che volevano fare
davvero una rivoluzione sociale armata
“come la Russia”
e quelli che, a parte qualche comizio infuocato sulle aie in tempo di elezioni,
non la volevano affatto. Ma anche la scissione del PCI, dopo che per forza o
per amore fu scelta una via costituzionale (dopo la conferenza di Yalta. nel
1944 sulle “sfere d’influenza”, e soprattutto dall’VIII congresso del PCI del
1956 sulla “via italiana al socialismo”), era da azzerare, rifondando con tutta
la sinistra il grande partito socialista che c’era pur stato in Italia, e che
era stato tra i migliori al mondo, dal 1892 al 1920. Dal 1978, dopo
l’assassinio di Moro, avendo compreso che ormai il compromesso storico era
fallito, io difesi proprio tale prospettiva di riunificazione socialista e
democratica della sinistra. Invano. Dieci anni fa fui pure contrario alla
nascita del Partito Democratico per questo: perché mi pareva che il problema
italiano non fosse quello di mettere insieme sinistra democristiana e
comunista, in una specie di partito che realizzasse al proprio interno il
compromesso storico, ma quello di essere socialisti europei in Italia. Oggi
però mi faccio autocritica, poiché non si può avere ragione contro i fatti,
quando questi ritornano di continuo. Evidentemente come un protestante diventa
più facilmente ateo o buddhista che compagno di chiesa dei cattolici, così era
tra comunisti e socialisti. Inoltre quello che a me era parso un ircocervo, un
assurdo animale mitologico, il Partito uscito dai lombi dell’ex PCI e dell’ex
DC, ha retto. E’ durato dieci anni ed è diventato il primo partito italiano, e
Renzi, e solo Renzi, l’ha subito fatto aderire al Partito Socialista Europeo.
Evidentemente un Partito Democratico “alla Obama”, contro tutte le apparenze –
purché abbia in seno la sua sinistra socialista, che c’è persino là – è più
realistico delle ipotesi neosocialiste, che con mio sommo dispiacere si sono
rivelate minestre riscaldate. Bisogna farsene una ragione.
La riunificazione
socialista di tutta la sinistra, in un quadro bipolare puro, non fu possibile
per tante ragioni, legate sia alla frattura profondissima tra “uomo comunista”
e “uomo socialista” mai rimarginatasi dal 1921 in poi (tanto che “al
dunque” in Italia gli ex comunisti trovano sempre, nonostante tanti
“ribattezzamenti” dal 1991
in poi, per non chiamarsi mai “socialisti”), e sia - e
soprattutto, per i comunisti italiani - al carattere fondativo del mito
sovietico, e al legame forte con l’URSS sino al 1981, e “da compagni” sino al
crollo dell’URSS (anche se il sole dell’URSS era diventato, via via, dopo il
1956, per i comunisti italiani, da sole di mezzogiorno un sole al tramonto, e
infine di mezzanotte). Non avendo il PCI mai superato l’antisocialismo
viscerale, e avendo “cominciato” a superare il legame con l’URSS solo dopo il
fallimento del compromesso storico (nel 1981), la DC restò senza alternative di governo dal 1945 al
1994. Anzi, la vera ragione per cui un
sistema elettorale ingovernabile come quello che la proporzionale pura suscita
- scelto per reciproco sospetto di propositi antidemocratici dalla DC e dal PCI
e PSI alla Costituente - funzionò discretamente consentendo pure di fare
importanti riforme, fu il fatto che c’era un partito insostituibile (la DC) da parte del suo opposto
omologo (il PCI), per cui i governi giravano come trottole, ma sempre attorno
alla DC; infatti se il PCI e i suoi affini avessero mandato la DC all’opposizione si sarebbe
determinata non una crisi di governo, ma di sistema, in base alle zone internazionali
d’influenza e ai legami dell’Italia con
l’America. I cittadini lo intuivano (tanto più che gli anticomunisti lo
ricordavano loro di continuo). Ma i primi a saperlo benissimo, pur strillando
come aquile contro la “discriminazione anticomunista”, erano i dirigenti
comunisti stessi, tanto che da Togliatti a Berlinguer, quando si profilava
davvero un minimo di possibilità di governare l’Italia, miravano non già a
scalzare la DC, ma
ad inserirsi in quel suo sistema come partner alla pari, prima con i socialisti
e poi anche in un rapporto diretto con la DC. Per questo poterono dire di sì a un governo
Badoglio (ma in tal caso contro il nazifascismo) e ad un monocolore
democristiano del “fosco” Andreotti, dal 1976 al 1979, nei primi anni
presentato come l’antefatto del compromesso storico. Sulla base di ciò, ossia
degli effetti che avrebbe la proporzionale più o meno pura in un mondo come il
nostro, ritengo che quelli che ancor oggi vorrebbero la proporzionale più o
meno pura, tra cui ci sono pure miei ex colleghi ed amici, siano politici
ciechi: il che dico senza voler offendere minimamente nessuno, perché uno può
essere “senza qualità” sul piano politico e un genio in altri ambiti. Per amore
del solo principio di rappresentanza, che ovviamente con la proporzionale è
massimo, sottovalutano l’istanza, più o meno “pari”, della governabilità, che
in un’età di globalizzazione in cui tutti concorrono con tutti, e i popoli si
spostano facilmente dalle aree di fame e guerra alle altre, e in un Paese con
un debito pubblico alto come l’Everest, e coi populismi di destra alle porte
dall’America alla Francia e Italia, e senza i grandi partiti della prima
Repubblica, è un rischio da cui uno sano di mente dovrebbe guardarsi come dalla
peste.
Per queste ragioni,
comunque, considero lo scacco matto subito dalle riforme costituzionali
“renziane” il 4
dicembre 2016 (per quanto imperfette), e poi la bocciatura di parti
decisive della legge elettorale dell’Italicum da parte della Corte
Costituzionale, come una sciagura nazionale. Questa Corte, con qualche ragione,
ha azzerato il premio di maggioranza al 55% senza determinazione preventiva del
risultato minimo necessario del primo
partito per accedervi, ma non ha previsto un premio al primo partito,
ottenga anche solo il 30%, e ha abolito il ballottaggio, che c’è in tante
democrazie europee oltre che negli enti locali. Ha sì ammesso, in un sistema a
un turno, che la lista che ottiene il 40% abbia il 55%, ma siccome per molti
anni nessuna lista, in un sistema a un turno, giungerà a tanto (anche se spero
di sbagliarmi), il risultato è che se non ci sarà una nuova legge elettorale
diversa da un mero calco della sentenza della Corte, anche applicato al Senato,
tornerà la proporzionale pura. Ciò, secondo tutte le proiezioni, significherà
impossibilità di avere qualunque maggioranza governante dopo le elezioni.
Potremo dunque avere - se dopo lo scacco delle riforme e dell’Italicum questo
parlamento non riuscirà a fare una legge elettorale maggioritaria al 75% come
il Mattarellum (o almeno simile) - l’ingovernabilità più grave dopo le
elezioni. Nel contesto storico e politico di cui si è detto.
Ma torniamo alle
scissioni. Dal 1945 sono state tutte sbagliate. Lo è stata persino quella di
Saragat del 1947, che diede vita a quello che poi si sarebbe chiamato Partito
Socialista Democratico Italiano (di cui Federico Fornaro è un importante
studioso, anche se io non giustifico quello che lui apologizzava).
Astrattamente Saragat aveva mille ragioni di contestare le liste comuni tra i socialisti
e i comunisti stalinisti (volute da Nenni per l’aprile 1948), e la prospettiva
di fusione, anche nominalmente socialista, tra socialisti e comunisti
totalmente stalinisti (voluta dal Segretario, che era allora Lelio Basso, che
per ciò favorì addirittura la rottura di Saragat). Ma Saragat aveva per me
torto marcio in base alle conseguenze prevedibili (per quel che Max Weber
chiama “etica della responsabilità”). I socialisti, primo partito della
sinistra nelle elezioni del 1946 per la Costituente (sia pure di poco), furono in
minoranza, e sempre più in minoranza rispetto ai comunisti, dal 1948 in poi. E così la
sconfitta del Fronte Popolare con liste insieme ai comunisti, volute da Nenni e
Basso, per lo PSI fu epocale e disastrosa. Allora Nenni e Basso furono messi in
minoranza, e lo PSI passò sotto la direzione di sinceri socialisti autonomisti
come Alberto Jacometti e Riccardo Lombardi (giugno 1948). Ma dopo l’uscita dei
riformisti saragattiani dell’anno prima, i socialisti autonomisti erano molto deboli
rispetto ai filocomunisti stalinisti, che già un anno dopo così si ripresero il
partito senza difficoltà (e Nenni ottenne poi l’ambito Premio Stalin,
restituito dopo il 1956). E qui per me
c’è una prima lezione politologica da tesaurizzare: non c’è niente che faccia
più danno a un politico e ad una tendenza politica dell’impazienza. Trovo
politicamente geniale il detto cinese sull’aspettare che il nemico passi sul
ponte. Prima o poi si troverà in grandi difficoltà, ma se tu nel frattempo sei
andato via, lui passerà oltre tranquillamente.
Così è oggi. Gli
avversari di Renzi avevano fatto un gioco pesantissimo: operare in parlamento
non votando indirizzi importantissimi del proprio partito; parlare per anni
alla TV come fossero di un altro partito; e soprattutto organizzare una vera e
propria campagna elettorale contro il proprio partito, in vista del referendum
del 4 dicembre 2016: con la scusa della libertà di coscienza in materia di
Costituzione. Io sono sbalordito dall’ignoranza che c’è in giro. Probabilmente
“chi sapeva” ha trovato più conveniente tacere, e chi non sapeva si è bevuto
tali panzane da asilo infantile. Ogni partito alla Costituente agiva da
partito. La libertà di coscienza era un caso estremo, solitamente autorizzato e
del tutto personale. Se il geniale Togliatti, quando tutto solo decise dalla
sera alla mattina di far votare l’articolo 7 della Costituzione che metteva in
Costituzione i Patti Lateranensi tra il cardinale Gasparri e Benito Mussolini,
avesse dovuto vedersela con la libertà di coscienza, a non votare non sarebbe
stato solo - col suo permesso - Terracini, ma il 95% del Gruppo Comunista. E
così via. E’ probabile che il ruolo dei comitati del no di D’Alema e compagni
sia stato enorme. Senza di loro si poteva perdere 51 a 49, ma non certo 60 a 40. Qualcuno parla di
cinque milioni di no di matrice PD. Dopo la grande vittoria del no si
aspettavano che Renzi se ne andasse, un po’ perché l’aveva detto, e soprattutto
perché i segretari precedenti avevano sempre fatto così quando si erano trovati
in difficoltà. Ma Renzi non ha mollato, così come non aveva mollato le sue
riforme quando Berlusconi si era tirato indietro dal Patto del Nazareno. Il suo
scalpo va conquistato con i voti congressuali. Ma i suoi avversari interni
sapevano che in tal caso molti compagni ed elettori avrebbero chiesto loro
conto della campagna referendaria perduta. Renzi, per la verità, ha cercato di
voltar pagina senza rese dei conti, ma si trattava e tratta di cosa molto
difficile a farsi (anche per lui da “vorrei e non vorrei”). Lo era ed è
(difficile) per gli altri e anche per lui ed i suoi. Era difficile per gli
avversari interni perché avevano fatto tutto il “casino” che avevano fatto, in
gran parte per toglierselo “dai cabagigi” a furor di popolo; lo era per lui ed
i suoi perché l’idea di coprire di fiori chi aveva fatto fallire, o era stato
molto importante nel far fallire, il disegno politico fondamentale della vita
politica di Renzi e compagni, era ed è molto complicata. Renzi è sì riuscito,
tirando anche contro voglia il freno a mano dell’autobus che guidava, ad
evitare, ragionevolmente, climi da Ockay Corral, ma non ha saputo fare di più.
In ciò probabilmente c’è un limite suo e ancor più dei suoi amici. Forse non
capiscono - ma alcuni tra i suoi, per me più bravi di lui in tutto, come
Delrio, l’hanno capito - che “La politica non si fa con i rancori personali”
(la frase è di Nenni). In certi casi per
evitare un male maggiore bisogna saper porgere l’altra guancia o il ramo
d’ulivo (magari aspettando di rifarsi in seguito con un randellino dietro la
schiena, o più saggiamente girando pagina e chi s’è visto s’è visto, perché
anche in politica “chi ha avuto ha avuto, chi ha dato ha dato”). Ma la politica
marcia sulle gambe degli uomini. Le battaglie culminate nel 4 dicembre hanno
lasciato ferite aperte o purulente che rendono difficile “trattare” con chi si
vuole “castigare” per averla fatta troppo grossa, anche se un superiore bene
collettivo lo imporrebbe. Avrebbe dovuto esserci una tessitura di rapporti, il
che però era troppo anche per il cristiano Renzi, che è pur sempre il
discendente di mille anni di lotte fiorentine tra le fazioni (oltre che un
leader giovane).
Ma se questi sono i
vuoti ascrivibili a Renzi, quelli dei suoi avversari (in realtà “nemici”), sono
voragini.
Persino
tralasciando la campagna elettorale contro la riforma decisiva del proprio
partito. In primo luogo stanno facendo la scissione più folle della storia
della sinistra italiana. Tutte le altre scissioni importanti avevano almeno
motivazioni grandi come case. Nel 1947 i riformisti socialisti dovevano
accettare l’unità con comunisti totalmente ed entusiasticamente stalinisti
oppure rifiutarla. Nel 1963 i socialisti di sinistra, dopo un’unità d’azione
tra PSI e PCI che pur con qualche crisi di mezzo durava dal 1935, dovevano
decidere se accettare di governare con la
DC contro il PCI oppure no. Persino la scissione dal Partito
Democratico di Sinistra nascente nel 1991 di Rifondazione Comunista era una
cosa seria, perché staccarsi dalla matrice comunista dopo settant’anni, invece
di provare a rivitalizzarla, non era certo una bagatella. E potrei seguitare.
Ma qui qual è l’oggetto del contendere? Il motivo più forte è stato il percorso
congressuale e la durata del governo Gentiloni sino al 2018. Sul secondo tema
sono state date rassicurazioni. Ora io tralascio le oscillazioni continue della
“sinistra” del PD (qui ricordate molto efficacemente, dall’amico Giancarlo
Patrucco il 22 febbraio in “Vengo anch’io, no tu no”). Ma posto che il congresso
è aperto, è ragionevole che esso duri anche mentre sono in corso le
amministrative di giugno (come chiesto ancora il 21 febbraio da Cuperlo nella
Direzione del PD?) Si possono fare sei mesi di congresso? E un partito può
affrontare una difficile campagna elettorale amministrativa senza segretario
nella pienezza delle sue funzioni, e con le divisioni di corrente che
fatalmente si proietterebbero tra candidati in campagna elettorale? E “gente di
mondo” può credere che l’eventuale risultato negativo, a congresso aperto, non
sarebbe usato contro il segretario uscente candidato?
Comprendendo che
gli argomenti sono deboli, l’oratore per conto della minoranza all’ultima
Assemblea del PD del 19 febbraio, Guglielmo Epifani, ha citato grandi temi di
dissenso su articolo 18, scuola e riforme costituzionali. Lasciamo anche stare
il fatto che i parlamentari di quella corrente, Epifani compreso, avevano
votato in Parlamento quasi tutte le cose contestate, ma come non vedere che
sono temi retrospettivi? Non è che nel 1947 Saragat abbia rotto con Nenni
perché era stato con gli stalinisti, o che la sinistra “psiupparda” nel 1964
abbia rotto lo PSI perché Nenni era stato con la DC. Si guarda al futuro e
se mai si pongono paletti per esso. Altrimenti è follia.
Di solito, poi, una
minoranza usa il congresso almeno per compattare i propri aderenti (lo fece
persino Bordiga). Invece si fa una scissione a freddo, sui tempi
congressuali e prima di elezioni. -
Senza neanche favorire “prima” un confronto a muso duro nei Circoli, in ogni
modo. Risultato: alcuni “capi” e pochi parlamentari se ne vanno. Punto. Non
parliamo delle liste. Persino presentare liste proprie alle amministrative non
è facile come sembra. E neppure presentarle alle politiche, con una rete di
attivisti risibile. Contano di avere un buon successo alle politiche, ma l’area
è molto affollata e divisa. C’è già Sinistra Italiana, neonata, che rifiuta il
dialogo col PD di Renzi (leader che anche grazie all’uscita di Bersani,
Speranza e D’Alema resterà il segretario del PD a forte maggioranza); e c’è il
“Campo progressista” dell’ottimo Pisapia, che dialoga col PD anche di Renzi.
Quanto all’aiutare Gentiloni a durare sino al 2018, l’idea che potrà farlo
meglio una minoranza di sinistra che sta fondendosi con parlamentari di
Sinistra e Libertà e dovrà comunque dialogare con gli avversari di sinistra,
politici e sindacali, del governo, e in un clima di recriminazioni inevitabili
tra “usciti” e “rimasti”, è addirittura balzana.
Tutto questo viene
fatto in una fase storica in cui la sinistra perde colpi in tutto il mondo, il
populismo dei 5 Stelle è e soprattutto - dopo la rottura e l’ovvio
indebolimento elettorale che da ciò verrà al PD - il primo partito. E accade
nel Partito del Partito Socialista Europeo che era il meno in crisi e il più
forte della compagnia, e mentre a Roma il M5S vive una fase di tremende
difficoltà. Sembra un incubo: un vero suicidio. Non ho nessuna animosità verso
nessuno. Mi considero un amico di Federico Fornaro. Penso che Roberto Speranza
sia un giovane molto in gamba, che ora non è minimamente leader ma che potrà
benissimo diventarlo, e al meglio, in futuro (ma senza PD “andò va?”). Sono
anche convinto che Bersani sia una bravissima persona, un ottimo compagno e che
sia stato un ottimo ministro. Enrico Rossi mi pare un vecchio ingraiano serio,
niente affatto leader. E penso che Emiliano, nonostante la comunicativa e la
simpatia che ispira, sia un umorale, che in tre giorni ha fatto discorsi così
opposti da essere un caso patologico, anche se apprezzo moltissimo il fatto che
sull’orlo del precipizio abbia avuto sufficiente buon senso da fermarsi, per
sfidare Renzi dall’interno. Ma penso che il punto debole di quest’area sia
sulla leadership di partito, di cui questi esponenti sono la negazione vivente.
Sono bravissimi compagni e buoni statisti e pubblici amministratori, ma come
politiques sono un disastro, e l’hanno dimostrato e dimostrano. Salvo D’Alema,
naturalmente, che però è ormai un leader stagionato e di un altro tempo, oltre
che uno accecato dall’odio politico per Renzi, che per ciò stesso finisce per
legittimare come capo partito.
I grandissimi
limiti come leader politici, i capi scissionisti li avevano già dimostrati nel
2013, per come avevano gestito la faccenda dell’elezione del presidente della
repubblica; poi con la mancata votazione del Mattarellum a inizio legislatura;
poi con la mancata scelta di elezioni al più presto e quindi con l’accettazione
di un governo Letta con Berlusconi. Poi li hanno dimostrati rompendo il PD non
già “a caldo”, su questioni di portata storica, tipo Jobs Act o le riforme
costituzionali, ma sulle procedure congressuali. Non hanno neanche provato a
delineare nell’Assemblea in vista del congresso del PD un programma vero
alternativo su cui misurarsi “contro Renzi” (prendere o lasciare). E hanno
lasciato i loro amici di periferia nella condizione assurda di non potersi
neanche misurare nelle assemblee del PD (se vogliono stare con loro
scissionisti): il che probabilmente ridurrà la rottura a una faccenda di pochi
capi. Tuttavia siccome alcuni tra loro, come Bersani e D’Alema, sono carichi di
storia, il danno che faranno al PD e alla sinistra non sarà piccolo. Grazie a
loro, anche se i leader del PD non possono dirlo, il M5S è già primo partito.
In Italia un grande partito che perda il 4 o 5% passa subito nella categoria
“sottostante”. Da decenni in Italia si vince o perde per meno di un milione di
voti.
L’Italia in questa
condizione dovrà darsi una nuova legge elettorale. Sembra che i reciproci veti
e interessi lo rendano molto difficile. Se si tornerà - come da sentenza
“applicabile” della Consulta - alla proporzionale pura, secondo me sarà un
disastro. Considero la nuova legge elettorale come l’ultima spiaggia. Se si
mancherà anche quell’appuntamento, ossia se non si salverà almeno un assetto
prevalentemente o almeno più o meno maggioritario, a mio parere ci troveremo in
una condizione pazzesca, specie se Marine Le Pen dovesse vincere in Francia e
quindi l’Unione Europea, e l’ombrello
della sua Banca Centrale, dovessero venir meno. La Grecia potrebbe essere
molto vicina. Questi scissionisti mi sembrano come quei tali che per fare un
garage fanno cadere il muro maestro della casa. Il PD è il muro maestro. Subito
dopo c’è Grillo al potere. E il M5S non ha neanche un personale politico
proponibile per guidare un Paese. Come fa gente di sinistra a non capirlo? E’
intelligente rendere più debole il PD?
Ma la colpa è di
Renzi (si dice). – “Ammesso e non concetto”, come diceva Totò, voi che fate
contro il preteso colpevole? Se temete che il PD diventi come la DC, togliete la sinistra perché
resti solo il centro? E poi chi v’impedisce (o impediva) di sfidare Renzi? Non
avete visto quel che è capitato a Fassina, a Cofferati, a Civati fuori dal PD?
E se il PD di Renzi non andrà bene alle amministrative, chi potrà chiedergli il
conto? – Quanto siete astuti.
Insomma, gira e rigira in
Italia la sinistra ha un solo nemico vero: se stessa. E’ specialista
nell'autodistruggersi, anche quando è il primo partito o lo stava diventando
(anzi, soprattutto allora). Gli “altri” poi passano all'incasso. Renzi, nella
sua ultima relazione all’Assemblea di tre giorni fa, parafrasando Pascal - non
notato - ha detto che “la scissione ha delle ragioni che la ragione non comprende”.
In effetti c’è troppa follia in giro. Ma soprattutto, forse a causa di una
sorta di vecchiezza triste, un po’ da depressi, negli scissionisti prevale
un’incredibile tendenza al suicidio. Se di mezzo non ci fossero sia il futuro
della sinistra che del Paese, potremmo pure infischiarcene. Ma purtroppo gli effetti potrebbero essere nefasti per
tutti. Ma ha senso?