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Il futuro del centro-sinistra
La politica dei quarantenni
Giuseppe Rinaldi
 1. Per affrontare adeguatamente la questione posta in questo articolo sono necessarie alcune definizioni concettuali preliminari. La nozione di «generazione» non è univoca. Occorre anzitutto distinguere tra un’accezione strettamente demografica da un’accezione di tipo sociologico. In senso demografico, una generazione è caratterizzata dalla comunanza di età. In termini tecnici si tratta di un gruppo di età. La nozione sociologica di generazione è invece completamente diversa ed è incentrata intorno alla comune esperienza di un gruppo di età.[1] Il requisito strettamente demografico diventa così soltanto un elemento preliminare che viene caratterizzato da un’esperienza comune condotta, proprio a partire dalla comune età, in un determinato momento dello sviluppo storico sociale.
In questo senso, gli individui che sono considerati come appartenenti a una stessa generazione, accanto alle comuni caratteristiche di tipo oggettivo, si ritiene debbano soprattutto aver condiviso una qualche comune esperienza e, dunque, siano rimasti caratterizzati dall’esperienza stessa. Deve dunque trattarsi non di una esperienza qualunque, ma di un’esperienza capace di modificare in modo relativamente profondo coloro che l’hanno condivisa. Le esperienze generazionali sono quelle che lasciano un marchio indelebile

2. Mentre le generazioni demografiche esistono sempre, poiché sono legate alla natura biologica dell’uomo, le generazioni sociologiche sono un costrutto della memoria e della storia. Le generazioni sociologiche di solito, proprio perché si tratta di individui che hanno condiviso una comune esperienza, tendono a sviluppare una loro auto rappresentazione, una narrazione intorno alle loro stesse caratteristiche comuni, una loro propria memoria collettiva generazionale. Esse inoltre, proprio poiché risultano bene individuabili, grazie alle caratteristiche che hanno maturato nella loro particolare esperienza, sono anche fatte oggetto di rappresentazione esterna, da parte delle narrazioni di altri (altre generazioni, media, ideologie e simili).
Data una qualsiasi generazione in senso demografico, ci si può dunque domandare quali siano le sue caratteristiche distintive rispetto alle altre e, quindi, si può passare a caratterizzare quella generazione sul piano sociologico e culturale. Gli studiosi hanno ormai provveduto a organizzare una vera e propria mappa delle generazioni che si sono succedute nel tempo,[2] almeno a partire dal secondo dopoguerra. Le generazioni in generale sono dei costrutti, dei tipi ideali nel senso weberiano, e ne hanno tutti i pregi e i difetti. Del resto, quando si affrontano problemi così complessi non si può fare a meno di impiegare tipi ideali. Il criterio per accettare o rifiutare un tipo ideale non può che basarsi sulla sua utilità interpretativa ed esplicativa.

3. Ciascuno, nel corso della vita, passa mediamente attraverso tre generazioni e quindi, mediamente, nella società sono sempre compresenti, più o meno, tre generazioni. C’è sempre una generazione centrale, che vede dietro di sé gli anziani e davanti a sé i giovani. Una generazione degli anziani, che non ha più nessuno alle spalle e che vede davanti a sé almeno due generazioni, quella centrale e quella dei giovani. E c’è una generazione dei giovani che vede dietro di sé almeno due generazioni, quella dei padri e quella dei nonni. Questo ritmo delle generazioni ha effetti rilevanti sulla politica – anche se questo dato di fatto non è quasi mai riconosciuto. Molti eventi della politica, altrimenti incomprensibili, possono trovare una spiegazione proprio in termini generazionali. La spiegazione in termini generazionali è spesso trascurata da chi tende ad assegnare alla politica una sorta di magica autonomia, come se i soggetti che si occupano di politica non avessero una dimensione biosociale legata all’avvicendamento generazionale.

4. La presenza simultanea di più generazioni istituisce tra loro un qualche tipo di rapporto, di cooperazione, di concorrenza, di conflittualità o anche d’indifferenza. Accade piuttosto raramente che la generazione dei giovani riesca a caratterizzare la politica della propria epoca. Quando ciò tuttavia succede, si esprime per lo più in termini conflittuali e di rottura. L’ultimo esempio consistente è stato quello della generazione dei cosiddetti baby boomers, gli attuali nonni, in altre parole, quelli del Sessantotto. «Non fidarti di nessuno che abbia più di trentaquattro anni» diceva Jerry Rubin, uno dei leader fondatori dello YIP (Youth International Party) nel febbraio del 1968.[3] Ancora più recentemente, seppure in un’area più circoscritta, possiamo ricordare che le cosiddette primavere arabe furono caratterizzate da una rilevante mobilitazione giovanile. Spesso tuttavia le rotture giovanili hanno finito con il risultare velleitarie e inconcludenti, o addirittura disastrose. Si possono trovare diversi esempi storici. Si possono ricordare il 1848 europeo, i narodniki russi, oppure, ahimè, le «Radiose giornate di maggio».
Accade assai più frequentemente che la politica di un’epoca sia caratterizzata dalla generazione degli anziani, i quali lasciano poi progressivamente posto alla generazione intermedia, i quali tuttavia, quando riescono ad avvicendarsi, sono ormai prossimi a essere anche loro anziani. E così via. Il nostro Paese, in particolare, è piuttosto noto per essere stato, negli scorsi decenni, una sorta di gerontocrazia, un paese cioè in cui la scena politica è stata in gran parte occupata dagli anziani, in modo così pervasivo da far pensare a un vero e proprio piano di esclusione da parte degli anziani ai danni dei giovani.[4]

5. Insomma, in generale, la bilancia della storia, in termini generazionali, sembra pendere, alternativamente, tra i giovani e gli anziani o, per semplificare, tra il nuovo e il vecchio, con qualche maggior frequenza per quest’ultimo. La generazione degli intermedi, in condizioni normali, sembra per lo più soltanto un momento di passaggio tra i due estremi dell’epoca. Sembra perciò non avere una sua precisa caratterizzazione, sembra destinata a barcamenarsi tra il vecchio che scema e il nuovo che avanza.
Solo in periodi davvero bui, come quello presente, in cui il vecchio pare abbia completamente fallito e il nuovo pare non avere proprio nulla da dire, gli indeterminati intermedi sembrano acquistare una qualche evidenza, sembrano venire alla ribalta, sembrano volersi distanziare nettamente dagli errori dei vecchi e fungere da originale riferimento per i giovani. Andando oltre l’alternativa secca tra vecchio e nuovo, tra anziani e giovani, gli intermedi sembrano talvolta agitare la possibilità di una terza via generazionale. Nei tempi attuali, dunque, sembra proprio essersi aperta l’età della generazione intermedia. Questo fenomeno è diventato sempre più evidente un po’ dappertutto, soprattutto nell’Occidente post Guerra fredda. Anche nel nostro Paese, solo da qualche tempo, si è palesemente affacciata sulla scena politica la generazione intermedia, la generazione che chiameremo – onde non appesantire - dei quarantenni.

6. Per convincersi di questa effettiva svolta silenziosa è sufficiente scorrere i dettagli anagrafici dei leader più importanti che oggi si contendono il campo della politica nel nostro Paese. Matteo Renzi è nato nel 1975 e nel 2016 ha compiuto 41 anni. È diventato maggiorenne nel 1993, cioè nel periodo della fine della Prima e dell’inizio della Seconda repubblica. Le novità politiche all’epoca erano Bossi e Berlusconi. Non ha mai conosciuto i partiti della Prima repubblica nel loro classico dispiegamento, per cui coloro che lo considerano soltanto un erede della cultura democristiana sbagliano nella sostanza. Del mondo della Prima repubblica, Renzi ha visto solo la crisi.
Molti altri nomi di primo piano della politica italiana insistono intorno ai quarant’anni. Come esempio generazionale, Virginia Raggi è nata nel 1978 e nel 2016 ha 38 anni. È diventata maggiorenne nel 1996, quando tutto il Paese assisteva all’avvitamento dei partiti della Prima repubblica e alle prime gesta di Berlusconi. Molti altri politici del M5S hanno dati anagrafici analoghi. Davide Casaleggio, colui che ha ereditato dal babbo la proprietà di un partito, è nato nel 1976 e ha nel 2016 esattamente 40 anni.
Il Presidente attuale del PD, Matteo Orfini, è nato nel 1974 e ha 42 anni, mentre Gianni Cuperlo che ha 55 anni fa quasi la figura di un anziano. Roberto Speranza è nato nel 1979 e nel 2016 ha 37 anni. Matteo Salvini è nato nel 1973 e nel 2016 ha 43 anni. Giorgia Meloni è del 1977 e nel 2016 ha 39 anni. Debora Serracchiani è del 1970 e ha 46 anni. Giuseppe Civati è del 1975 e ha ora 41 anni. Ci sono poi alcuni “quarantenni” che sono relativamente appena un po’ più giovani. Marianna Madia è del 1980 e ha 36 anni. Maria Elena Boschi è del 1981 e ha 35 anni. Luigi di Maio è del 1986 e ha 30 anni, mentre Alessandro Di Battista, nato nel 1978, ha ora 38 anni.

7. Questa davvero tangibile invasione di quarantenni, sembra avere spezzato, in effetti, la legge gerontocratica tipica del nostro Paese. Ciò ha implicato indubbiamente l’emarginazione progressiva degli anziani, anche di anziani non ancora del tutto obsoleti. Tra i messi da parte prematuramente possiamo, ad esempio, annoverare D’Alema, che è del 1949, ha 67 anni ed è ancora arzillo, ma viene dai più considerato ormai come un reduce d’altri tempi. Lo stesso dicasi per Pier Ferdinando Casini che è del 1955 e ha 61 anni. Gianfranco Fini è del 1952 e ha “solo” 64 anni. Rosy Bindi è del 1951 e nel 2016 ha “soltanto” 65 anni. Rutelli è del 1954 e Veltroni del 1955. Si potrebbero fare molti altri esempi. Tutti costoro sembrano ormai “uomini politici d’altri tempi” che non hanno più nulla da dire, prodotti che hanno oltrepassato la data di scadenza e da mandare al macero. Nella Prima repubblica avrebbero avuto ancora vent’anni di vita politica piena.
Da un punto di vista di giustizia distributiva questa invasione di quarantenni è una novità cui non si può far altro che plaudire. Era ora. In altri Paesi, la legge gerontocratica era stata dismessa ben prima che da noi. John Kennedy aveva 44 anni quando fu eletto Presidente, nel lontano 1961. Ci si potrebbe domandare perché, almeno in Occidente, l’invasione dei quarantenni avvenga su vasta scala e diventi visibile proprio adesso. È probabile – emergerà meglio nel proseguimento dell’articolo - che questa tendenza abbastanza generalizzata sia legato a una veramente rapida obsolescenza della generazione dei baby boomers.

8. Una considerazione banale è che ogni generazione, più o meno consapevolmente, quando fa politica, la fa principalmente avendo come riferimento la propria generazione. Così faceva del resto Jerry Rubin che non guardava oltre i 34 anni. Così hanno fatto in passato i brontosauri del PCI e della DC, e così fanno oggi Matteo Renzi, Luigi di Maio, e tutti gli altri. Non c’è mai una politica che sia completamente trasversale e che non subisca l’effetto dell’ottica generazionale. I politici non possono che essere naturalmente concentrati sulla propria generazione, anche se sono poi costretti a guardare oltre e devono, se non altro per ragioni elettorali, cercare di indovinare e interpretare, con maggiore o minore successo, il punto di vista delle altre generazioni compresenti.
Ciò comporta che i quarantenni di oggi si trovino nella scomoda posizione di riferirsi alla loro stessa generazione (cosa che è già un bel problema - essendo la loro, notoriamente, una generazione assai indeterminata) e di interpretare anche, in qualche modo, le due generazioni più distanti tra loro, quella degli anziani (che oltretutto anagraficamente sono diventati più longevi) e, poi, quella dei più giovani. Quest’opera di “mediazione generazionale” da parte degli intermedi può rivelarsi quanto mai facile quando ci sia una continuità tra le generazioni; oppure può rivelarsi quanto mai difficile quando tra le generazioni ci siano differenze assai marcate. Quest’ultimo, come vedremo, pare essere proprio il caso del nostro Paese.

9. Le diverse generazioni – per quanto tutte insistenti su un terreno culturale vagamente comune - hanno inevitabilmente diverse culture politiche. Se si vuole, per essere più precisi, vivono e interpretano le loro rispettive culture politiche secondo la loro specifica curvatura generazionale. Le curvature generazionali delle varie culture politiche possono tuttavia produrre effetti indesiderati, destinati anche ad avere un peso notevole. E ciò accade, a maggior ragione, soprattutto quando i meccanismi generazionali sono misconosciuti e ignorati.[5]
Questa dipendenza della politica dalle generazioni ha strettamente a che fare con i processi educativi e, soprattutto, con la trasmissione della memoria tra le generazioni.[6] Pur nell’ambito di una stessa cultura politica, le diverse generazioni possono essere profondamente marcate e contraddistinte, e manifestare disomogeneità, incomprensioni o, addirittura, conflitti. Per farla breve, la trasmissione della memoria tra le generazioni – anche nell’ambito di una stessa famiglia di cultura politica - può andare di lusso, oppure può proprio non andare a buon fine. Perciò potremo avere generazioni successive che si trovino tra loro in perfetta armonia, avendo i più giovani ereditato il meglio dei più anziani, oppure generazioni tra le quali si sia determinato un fossato, uno iato, un gapgenerazionale. È banale ammettere che un qualche gap generazionale ci sia sempre: il fatto difficile da ammettere è che ogni gap generazionale sia diverso e che certi gap possono avere un peso storico e politico maggiore di altri.

10. A questo punto possiamo cercare di capire qualcosa di più circa la curvatura generazionale della cultura politica dei nostri attuali quarantenni.[7] Stiamo parlando di coloro che, tempo fa, sono stati definiti dagli studiosi come la «generazione X», dove la “X” stava a indicare una variabile incognita. Erano stati considerati, in altri termini, come la generazione indecifrabile. Alcuni studiosi li hanno qualificati addirittura come la generazione invisibile.[8] Ciò forse perché erano quelli che venivano dopo una generazione che invece era stata assolutamente visibile, ben marcata e ben definita, quella dei cosiddetti boomers, la generazione dei nati dopo la guerra, nel clima della ripresa demografica, della ricostruzione e della Guerra fredda. Genericamente, la generazione del Sessantotto. Era stata questa una generazione che, nel bene o nel male, aveva fatto politica a partire dalla propria prospettiva (come mostra la battuta di Jerry Rubin) e aveva contribuito a caratterizzare la propria epoca, marcando nettamente la distanza con le generazioni precedenti e imponendo, addirittura sulla scena internazionale, il proprio progetto di cambiare il mondo.[9]

11. Nel caso almeno del nostro Paese, non è difficile capire come siano andate le cose. Tra la generazione dei baby boomers e la generazione precedente, quella che talvolta è definita come la generazione della radio, c’era stata una rottura evidente e insanabile. La rottura è ben simboleggiata dalle parole di Jerry Rubin. I boomers sono stati una generazione che ha cercato di costruire da sé il proprio bagaglio culturale e la propria identità nei movimenti e nella partecipazione politica. La generazione del Sessantotto ha cercato di criticare radicalmente la cultura della generazione precedente. Una critica trasversale che aveva investito sia la destra sia la sinistra. La generazione degli attuali anziani è stata – almeno nel nostro Paese - la generazione dell’assalto al cielo,[10] l’ultima generazione ideologica, quella che aveva scoperto che «Il personale è politico». Si è trattato di un processo di auto formazione assai radicale, assai intenso, che tuttavia si è consumato nel breve volgere di pochi anni, per lasciare spazio a un lungo interminabile riflusso.
Nel riflusso, tra gli anni Ottanta e gli anni Novanta ha preso forma la generazione X, i figli di coloro che avevano dato l’assalto al cielo. Il cambiamento brutale di prospettiva, del clima sociale e politico, tra gli anni Settanta e gli anni Ottanta non ha prodotto una rottura generazionale esplicita e rabbiosa com’era stata quella della generazione precedente. Ha piuttosto immesso, tra le due generazioni, un senso reciproco di estraneità. La generazione X, senza produrre alcuna rottura esplicita, ha girato le spalle all’esperienza dei boomers, e ha prodotto una propria auto socializzazione «senza padri né maestri», all’insegna del ritorno nel privato, del rifugio nella quotidianità, dell’abbandono dell’ideologia, della fine della storia, del nichilismo, del relativismo e talvolta anche dell’opportunismo. Per dirla con Hirschman, s’è avuto un netto cambiamento di coinvolgimento dalla public action al private interest.[11] In questo modo, tra la generazione dei baby boomers e la successiva generazione X è venuta a determinarsi in generale una frattura morale e, in particolare, una frattura di cultura politica, di grande rilievo.

12. Nell’intenzione dei boomers, i figli della nuova generazione dovevano essere gli uomini nuovi, per come sarebbe stato possibile costruirli nel privato, poiché non era stato possibile, a causa delle avverse condizioni storiche, costruirli nel pubblico della politica. Si poteva ingenuamente pensare, in questo quadro, a un gran travaso ai nuovi giovani di quella sovrabbondanza di valori che i padri avevano sperimentato, del rigore intellettuale, dell’etica dell’impegno, dell’intransigenza morale. Si poteva anche pensare al travaso della creatività, dell’intraprendenza, della socialità e del cosmopolitismo. I nuovi giovani, in quanto uomini nuovi, avrebbero potuto essere coloro che avrebbero provveduto, magari con altri più sofisticati mezzi, magari con tempi più lunghi, a realizzare quella compiuta emancipazione degli uomini e delle donne, nella quale i loro genitori avevano creduto e nella quale avevano però fallito.[12]
Allo scopo di riprodurre nel loro privato qualcosa che fosse a loro immagine e somiglianza, a immagine e somiglianza del loro passato impegno pubblico, i boomers diventati genitori hanno dovuto fare i conti con la propria immagine di sé. Hanno dovuto domandarsi quale fosse esattamente quell’immagine che si doveva trasmettere ai figli. Quale fosse il dover essere cui si doveva dare corso. Ebbene, pare proprio che a questo punto – nell’elaborazione di una precisa immagine da trasmettere alla generazione successiva - qualcosa sia venuto meno. Un po’ perché l’immagine doveva essere alquanto logora e irrisolta, e un po’ perché i destinatari l’hanno considerata come qualcosa di estraneo, l’hanno ignorata e snobbata.
Proprio qui si situa – almeno per il nostro Paese - il passaggio dall’autodirezione all’eterodirezione, secondo i termini teorizzati da Riesman.[13] I boomers, infatti, si erano “socializzati”[14] soprattutto tra pari, diffidando delle generazioni precedenti. Nella socializzazione della generazione X hanno continuato a pesare enormemente i pari rispetto ai genitori; ma si trattava di ben altri pari. Non erano più i pari della public action, bensì i pari del private interest. E i genitori hanno lasciato fare, anzi hanno incoraggiato questi processi, perché i loro figli avevano da essere “ben socializzati”. Un’intera generazione di genitori – sentendosi probabilmente poco adeguata - ha lanciato i propri figli nelle braccia dei loro pari, perché si sviluppassero in autonomia. Purtroppo l’autonomia si è risolta soltanto nell’eterodirezione.

13. Qui, per approfondire, bisognerebbe introdurre la complessa fenomenologia del riflusso e dei suoi effetti sulle generazioni, cosa per la quale occorrerebbe un articolo a se stante. Ci limiteremo a citare, per illustrare la questione del particolare gap generazionale che si è venuto a formare in quei frangenti, un particolare punto di vista che è insospettabile di partigianeria generazionale, quello dell’analisi clinica. Gli psicoanalisti, in base alla loro pratica clinica, ci raccontano in modo allarmato e assillante, da due o tre decenni almeno, come la trasmissione dell’immagine dei padri baby boomers ai loro figli della generazione X sia fallita miseramente. E pare che la cosa continui tuttora con la nuova generazione Y. Questa situazione di grande difficoltà nel rapporto tra le generazioni è stata definita come la stagione della assenza del padre, o per dirla con Recalcati, della sua evaporazione.[15] Riflusso, rientro nel privato ed evaporazione del padre sembrano le tappe di un unico processo di reciproca indifferenza intervenuto tra la generazione X e quella precedente. Non un conflitto generazionale ma un vero e proprio muro generazionale.

14. I boomers che avevano dato l’assalto al cielo, dopo essere stati costretti a ripiegare nel privato, quando si sono trovati di fronte alla responsabilità di elaborare e trasmettere un’immagine matura di sé alla generazione successiva si sono trovati senza avere gran che nelle mani. Non potevano tornare ai modelli educativi anteguerra, quelli della generazione della radio; d’altro canto avevano sperimentato la delusione personale rispetto ai modelli umani elaborati negli ambiti delle varie utopie movimentiste cui avevano partecipato. Così è emerso, senza consapevolezza e deliberazione alcuna, senza pianificazione, una sorta di sincretismo educativo che ha cercato di comporre insieme un mosaico impossibile. Una specie di bricolage domestico, l’uomo nuovo fai da te, fabbricato nella ristretta utopia privata. Questo, forse, è il vero motivo per cui il risultato generazionale prevalente è stato etichettato con l’incognita X.
14.1. Tra i motivi conduttori della nuova educazione c’erano cose come il rifiuto dell’autorità, la valorizzazione dell’autonomia, la liberazione dalla repressione, la libertà sessuale, lo sviluppo della socialità; la pratica dello sport e la pratica delle attività espressive, artistiche e creative; un ecologismo un po’ di maniera, basato su una concezione romantica della natura, a base di Walt Disney, Panda e Puffi. Il tutto naturalmente condito dal medium tipico dell’epoca e cioè dalla televisione.
14.2. Sul terreno della visione del mondo, a tutto ciò si accompagnava poi una considerazione sempre negativa di quello che era stato il terreno bruciante della sconfitta dei padri e cioè dell’economia, del potere e in particolare delle istituzioni e della politica. Il tutto ancora era condito con una concezione altrettanto negativa della tecnica e della scienza, considerate come disumane, fredde e spersonalizzanti. Contro i vari mostri dell’alienazione e della disumanità, che del resto avevano trionfato in campo pubblico, veniva proposto un tenue e vago spiritualismo tutto centrato sull’interiorità e in versione «fai da te». Fu allora che ebbe una diffusione travolgente la cosiddetta cultura della new age, con tanto di tecniche del corpo, arti della meditazione e cura del benessere, il tutto condito di bizzarre e arcaiche credenze. Tra gli aspetti massimamente curati, residuo assolutamente malinteso del socialismo e del comunismo, lo sviluppo delle relazioni sociali e l’obiettivo dell’integrazione sociale o, come si diceva, della “socializzazione”.
14.3. Nonostante la difficoltà a comporre il mosaico dell’uomo nuovo nella salsa dell’utopia privata, la generazione X è stata, in effetti, una generazione su cui i genitori hanno investito molto; molto amata, molto curata e seguita, tenuta al riparo dai traumi e dalle frustrazioni, rimpinzata di tutti i nuovi ritrovati educativi di volta in volta in voga. I figli erano l’investimento per eccellenza e le famiglie rivendicavano il pieno diritto di intervenire nell’educazione dei loro figli. Chi non ricorda i dibattiti accesi sul sacro diritto dei genitori di scegliere il percorso educativo per i figli e la questione del finanziamento della scuola privata. Chi non ricorda le scuole della Lega con il marchio del partito.
14.4. Insieme alla più generale diffidenza verso le istituzioni, alla generazione X fu trasmessa una certa diffidenza per la scuola, che continuava comunque a essere percepita come autoritaria, repressiva e selettiva. La lotta alla selezione scolastica continuò in maniera sotterranea, perché ormai era diventato un luogo comune della pubblica opinione. Grazie a questa tendenza fu completata la demolizione del nostro sistema d’istruzione.[16] Emergeranno così in campo educativo, la libertà, di fatto se non di diritto, di copiare durante i compiti in classe, pochi compiti a casa, vacanza al sabato, interrogazioni programmate, esami facili e promozioni quasi assicurate, riduzioni varie dell’orario scolastico, programmi sempre più banali e striminziti e, soprattutto i progetti. I quarantenni di oggi – scolasticamente parlando - sono i figli degli organi collegiali, della socializzazione, delle attività e dei progetti.
14.5. Questa chiusura nella realizzazione privata comportò la messa al bando, da parte sia dei genitori sia dei figli, della public action, della partecipazione e della politica. Del resto, nello stesso tempo, il sistema politico della Prima repubblica andava in frantumi. Significativamente, senza che alcuno lo abbia deciso esplicitamente, furono progressivamente smantellate le organizzazioni giovanili dei vecchi partiti di massa. O, forse, si svuotarono dall’interno. Messo da parte ogni impegno di carattere pubblico, al massimo per i giovani della generazione X si ebbe una frequentazione del volontariato, nelle sue diverse manifestazioni. I giovani, che dovevano diventare gli uomini nuovi, erano decisamente “ben socializzati” ma completamente spariti dalla scena politica e ci si consolava però col fatto che facevano del volontariato.

15. La memoria trasmessa a questi giovani, che oggi sono quarantenni, non è stata solo la memoria di una sconfitta politica e culturale, ma anche e soprattutto il surrogato consolatorio di una modernizzazione affrettata e mal digerita. La generazione dei boomers non è riuscita a trasmettere gran che di sostanziale perché aveva ben poco tra le mani, soprattutto soffriva per la mancanza di una tradizione autentica. Molti dei genitori provenivano dal mondo contadino o operaio e avevano sperimentato la prima scolarizzazione di massa, la scuola media unica e la liberalizzazione degli accessi all’università. Pochissimi però avevano cinquecento libri in casa.[17] Nonostante l’allargamento notevole del diritto allo studio, nei fatti non ci fu nessuna democratica estensione a tutti della tradizione culturale grande borghese, ci fu solo la diffusione erga omnes di una cultura di massa sempre più onnipervasiva e semplificata, scambiata per cultura sinistrese e progressista, che ha finito per produrre un enorme ceto medio tutto uguale, seriale, pieno di luoghi comuni, insopportabilmente presuntuoso, sempre più povero materialmente e sempre più limitato spiritualmente.

16. Accanto ai limitati orizzonti culturali posseduti, i futuri sessantenni si sono trovati in una situazione assolutamente imbarazzante dal punto di vista del loro bagaglio identitario. Da un lato si sono trovati nei panni di chi non poteva più credere nei valori della propria formazione giovanile, perché questi avevano palesemente fallito, ma anche di chi non riusciva più a identificarsi fino in fondo nei valori della normalizzazione e del ritorno a casa. Alcuni si sono chiusi nella doppia morale e nel ritualismo, altri, con spettacolari salti mortali, hanno cercato di diventare più realisti del re, abbracciando fino in fondo le regole della morale corrente (o dell’immoralità corrente). Questo non riuscire effettivamente a sentirsi a casa propria da nessuna parte, questo spaesamento - per dirla in termini più filosofici, è il marchio morale degli attuali sessantenni, ed è il sentimento che hanno trasmesso, coscientemente o meno, alle generazioni successive. Questo forse è il motivo per cui gli psicoanalisti hanno cominciato a parlare dell’evaporazione del padre, e questa è probabilmente la vera ragione per cui i sessantenni, in fin dei conti, hanno accettato de facto di essere messi da parte anzitempo. Il farsi da parte anzitempo dei sessantenni non sembra tuttavia avere risolto alcun problema, poiché la generazione X, chiamata anch’essa anzitempo alla successione, resta pur sempre la generazione dell’incognita, del private interest e del vuoto.

17. Il fatto nuovo di questi ultimi anni è che, comunque, dalla generazione X sta emergendo un nuovo ceto politico che si appresta a prendere in mano le redini del nostro Paese.[18] I più giovani, quelli della generazione Y, ovviamente dovranno aspettare ancora un bel po’. Un segnale decisivo della svolta sono state le primarie che hanno portato Renzi alla segreteria del PD, grazie alla parola d’ordine della rottamazione, slogan che suonava in termini antipolitici ma che corrispondeva, in realtà, a un progetto ben caratterizzato in termini generazionali – cosa che è stata perfettamente colta dai vari Bersani e D’Alema. Un altro segnale altrettanto decisivo è stato il sorprendente risultato del M5S nelle elezioni del 2013. Risultato che ha portato in Parlamento una nutrita schiera di quarantenni e che, di fatto, ha bloccato la legislatura attraverso il rifiuto di qualsiasi alleanza politica.[19]

18. I quarantenni in politica si stanno trovando ora nella difficile incombenza di dare voce alla propria generazione e, nello stesso tempo, nell’esigenza di interpretare la domanda politica delle altre generazioni. D’altro canto gli elettori li hanno votati poiché, in qualche misura, essi hanno tentato di dare loro una qualche identità. Comunque ormai i quarantenni in politica sono da qualche tempo sotto i nostri occhi e siamo in grado quindi di cominciare a valutarne le prestazioni. Siamo forse anche in grado di valutarne, con cognizione di causa, le prospettive future. Le formazioni politiche che attraggono il maggior numero di quarantenni, sia come militanti che come elettori, sembrano, nell’ordine, il M5S, il PD di Renzi (PDR) e, a destra, la Lega di Salvini e Fratelli d’Italia di Giorgia Meloni. Se questo è vero, possiamo allora cercare di individuare, trascurando la specifica offerta politica di ciascuna formazione, quali siano le caratteristiche comuni del loro agire politico. Quale sia l’immagine della politica che propongono alla loro generazione e, di riflesso, alle altre.
18.1. Queste formazioni hanno senz’altro in comune il fatto di discendere non dalla prospettiva della public action della seconda metà del secolo scorso bensì dalla prospettiva del riflusso nel privato. Sono formazioni che potremmo definire post ideologiche nel senso che hanno rifiutato non solo le ideologie nefaste del Novecento, ma veramente tutte le ideologie. L’adesione di Salvini al nazionalismo etnico, l’adesione di Renzi alla liberal democrazia, non hanno nulla di ideologico, sono soltanto una lista di ricette pratiche. E lo stesso vale per il M5S. Pongono tutte una antitesi tra il vecchio e il nuovo e, all’interno del vecchio, viene collocata la vecchia politica che corrisponde a quella espressa dalla generazione precedente. Sono tutte formazioni, per un motivo o per l’altro, antipolitiche e anti istituzionali.[20] Non si considerano eredi di alcun progetto storico di lungo corso (appunto, le ideologie sono finite) e puntano tutto sull’attivismo frenetico e sul conseguimento di risultati in tempi stretti. Non hanno intellettuali, non hanno filosofi di riferimento, non hanno sacri testi di fondazione o documenti ponderosi. Sul piano della comunicazione ragionano e scrivono a colpi di tweet, battute, insulti. Sul piano culturale sono perfettamente post gutemberghiani e tipici membri del villaggio globale alla McLuhan o tipici esempi del ritorno dell’oralità secondaria alla Ong. Nella Prima repubblica i politici si assomigliano alquanto fra loro e come gruppo differivano alquanto dai loro elettori. Ora i politici fanno di tutto per assomigliare morfologicamente ai propri elettori di riferimento.
18.2. Tutto ciò fa si che lo spazio politico, per loro, non sia più configurato dalle tradizionali polarità di destra e sinistra, bensì sia uno spazio politico fluido fatto di opposizioni di carattere pratico. Entro questo spazio sono così possibili le più strane alleanze e soprattutto sono possibili le alleanze contro, che sono la grande novità degli ultimi tempi. Una parte consistente delle opposizioni che compaiono nel nuovo spazio politico sono proprio di tipo generazionale: così è per l’opposizione tra M5S e il resto del mondo, così è per l’opposizione, dentro il PD, tra i renziani e il resto del mondo. In questo nuovo spazio politico fluido e multipolare, le contrapposizioni forti, le fratture, sono soprattutto di tipo morale e hanno una scarsa base di tipo economico sociale (cosa che era invece un elemento importante nella strutturazione dello spazio politico tradizionale tra destra e sinistra). Questo, tra l’altro, è il motivo per cui certe fratture, come quelle tra il M5S e il resto del mondo, o quelle all’interno del PD che hanno portato alla recente scissione, non sono assolutamente capite da chi non ne è coinvolto e sono attribuite alla follia.
18.3. La politica dunque – con questi presupposti – viene ridotta a tecnica, alla confezione ed esecuzione di un programma di «poche cose da fare subito» che rappresentano l’offerta politica, in merito alla quale gli elettori vogliono passare all’incasso il più presto possibile. Solitamente si tratta di punti programmatici che soddisfano vari interessi privati di grandi fasce di elettori (ottanta euro, bonus vari, meno tasse, sovranità monetaria, via gli immigrati, protezionismo e così via). Il politico ha solo da mantenere esattamente quello che ha promesso. Per il M5S addirittura deve fare solo quello che ha promesso. Per fare qualcos’altro deve chiedere il permesso alla piattaforma social degli iscritti. È davvero curioso che una generazione che è stata educata alla diffidenza nei confronti della tecnica non sappia fare altro che ridurre la politica a tecnica. Evidentemente altro proprio non c’è.
18.4. Non solo. La politica viene ridotta a retorica. Non più la logica talvolta assai complessa delle «grandi narrazioni» - si pensi alle sottigliezze del pensiero marxista o anche delle teorie del repubblicanesimo o della democrazia - ma la retorica dei tweet, la retorica dell’esprit de l’escalier, per cui vince chi ha la battuta pronta, l’insulto più veloce. Una retorica spicciola che fa leva sulle emozioni, soprattutto sulla paura, e sull’indignazione momentanea contro il nemico del momento. Una politica che – essendo davvero poco gutemberghiana – costruisce, sul momento, la verità che serve, quella che deve essere propinata in una determinata circostanza a una certa fascia d’interlocutori. La politica dei quarantenni sta diventando così la politica delle bufale, la politica della post – verità. Dopo decenni di nichilismo e di relativismo, di “addio alla verità”[21] finalmente post verità e post politica stanno trovando una sintesi virtuosa.
18.5. La nuova politica dei quarantenni – ultimo ma non ultimo - sembra avere consacrato ormai definitivamente la fine della nozione stessa di organizzazione nel campo politico. La socialità “creativa” dei quarantenni, che è assolutamente informale e anarcoide, non è in grado di sostenere alcuna incombenza organizzativa, alcun ascetismo burocratico. Si ha sempre più la confusione più totale tra movimento e partito (si veda il M5S) e l’agire politico si sostanza di gruppi fluidi che si raccolgono intorno a un leader, più o meno come i fan di un idolo pop. Questo fa sì che le formazioni politiche – governate da giochi sempre più informali – siano sempre meno democratiche internamente, nonostante le retoriche ultra democratiche dei voti on line o delle primarie. Così proliferano le correnti, i cerchi magici, i «quattro amici al bar», o gli interventi dei commissari politici quando ci sono dei casini da risolvere.

19. Certo, alcune di queste caratteristiche non sono nuove. Tuttavia tutti questi tratti caratteristici emergono prepotentemente dalla politica corrente, proprio dove ormai hanno ampio spazio i quarantenni. Se queste caratteristiche non fossero nel DNA politico dei quarantenni, le avrebbero probabilmente rifiutate, come hanno ignorato o rifiutato molti aspetti della generazione precedente. Se dovessimo darne una valutazione sintetica – che speriamo sia provvisoria e non definitiva – potremmo affermare, senza tema di essere smentiti, che la nuova politica dei quarantenni oggi in Italia si sostanzia di tre populismi emergenti, quello del M5S, del PD renziano e della destra (Lega e Fratelli d’Italia). Tre componenti politiche certo poco compatibili tra loro ma con tratti comuni notevolissimi. Ci si potrebbe stupire di questo esito da «molto rumore per nulla». L’analisi che abbiamo compiuto secondo una prospettiva generazionale ci aiuta a capire il perché e il per come siamo arrivati a questo punto. La generazione dei boomers aveva esasperato la centralità della politica, fino a distruggere per contraccolpo la politica stessa come impegno pubblico e fino a determinare un orientamento verso la totale privatizzazione. Fino a dar luogo proprio a quel particolare ambiente vuoto di politica (l’Italia di Berlusconi, se si vuole) in cui è cresciuta la generazione X. Cresciuta appunto nel vuoto del private interest, la politica della generazione X non può che essere una politica ridotta alle sue forme elementari, delle quali proprio il populismo è una delle espressioni più tipiche. Non il ritorno di vecchi populismi da un lontano passato, dunque, ma un nuovo originale populismo dei nuovi politici quarantenni che interpreta perfettamente gli umori e le caratteristiche degli elettori di quella generazione. Una politica grezza, immatura, retorica, autoreferenziale, dagli schieramenti vaghi e indistinti, appiattita sul presente, priva di una tradizione, priva di prospettiva, piena di figurine sbiadite che sembrano un’immagine decisamente in peggio rispetto a quelle, già non proprio smaglianti, della generazione precedente.

Giuseppe Rinaldi
27/02/2017




OPERE CITATE

1999 Diamanti, Ilvo (a cura di)
La generazione invisibile, Il Sole 24 ORE, Milano.

1982 Hirschman, Albert. O.
Shifting Involvements. Private Interest and Public Action, Princeton University Press, Princeton. Tr. it.: Felicità privata e felicità pubblica, Il Mulino, Bologna, 1983.

1952 Mannheim, Karl
The Sociological Problem of Generations, in Mannheim, Karl (a cura di), Essays on Sociology of Knowledge, Routledge & Kegan Paul, London. [1923]

2011 Recalcati, Massimo
Cosa resta del padre? La paternità nell’epoca ipermoderna, Raffaello Cortina, Milano.

2013 Recalcati, Massimo
Patria senza padri. Psicopatologia della politica italiana (A cura di Christian Raimo), Minimum Fax, Roma.

1999 Rinaldi, Giuseppe
Il Sessantotto nella situazione internazionale, in Arnoldi, Mario & Rinaldi, Giuseppe (a cura di), Trent’anni dopo. Due saggi sul Sessantotto, Edizioni dell’Orso, Alessandria.

2008 Rinaldi, Giuseppe
Storia e Memoria, in Ziruolo, Luciana (a cura di), I Luoghi, la Storia, la Memoria, Le Mani, Genova.

2009 Vattimo, Gianni
Addio alla verità, Meltemi, Roma.

2002 Wright, Steve
Storming Heaven, Pluto Press, London. Tr. it.: L’assalto al cielo. Per una storia dell’operaismo, Edizioni Alegre, Roma, 2008.

I vari post cui si fa riferimento nel testo si trovano sul blog dell’Autore.



NOTE

[1] Questa definizione è stata prodotta da Karl Mannheim, in un articolo del 1923. Cfr. Mannheim 1952.
[2] Poiché in quest’articolo farò spesso riferimento alle diverse generazioni, credo sia opportuno premettere un prospetto con i riferimenti cronologici e sociologici comunemente adottati dagli studiosi. Si tratta di riferimenti puramente indicativi, poiché i confini tra le generazioni sono effettivamente piuttosto sfrangiati e indeterminati. A) La generazione dei tradizionalisti, detti anche generazione della radio, è costituita di coloro che sono nati tra il 1928 e il 1945. Per quanto riguarda i loro caratteri distintivi, sono molto legati ai loro ambiti nazionali, per cui è difficile generalizzare. B) Poi abbiamo la generazione dei cosiddetti baby boomers, cioè la generazione del boom delle nascite dopo la fine della guerra, cui appartengono coloro che sono nati approssimativamente tra il 1945 e il 1964, anche se qualcuno preferisce adottare la periodizzazione 1943 – 1960. È la generazione di coloro che sono nati dopo la fine della guerra e che della guerra hanno sentito solo parlare. Per molti Paesi, soprattutto europei, è la generazione dei nati nel periodo della ricostruzione. In molti Paesi è la generazione che è stata coinvolta nei movimenti del Sessantotto. C) La generazione successiva è la cosiddetta generazione X, così chiamata perché dotata di caratteri piuttosto indefiniti, tanto da costituire un’incognita, un grande punto interrogativo. Cronologicamente è costituita dai nati tra il 1963 (o 1960) e il 1980. Sono coloro che sono nati durante o dopo il boom economico postbellico. Rispetto al Sessantotto, costituiscono la generazione del riflusso dei movimenti e del ritorno al privato. D) I figli della generazione X costituiscono la generazione Y (cioè, alla lettera quelli venuti “dopo la X”); si tratta di coloro che sono nati tra il 1982 (1980) e il 2001 (o 2000). È significativo che il termine “generazione Y” pare sia comparso per la prima volta nel 1993. Sono conosciuti anche come millenials, cioè la generazione del nuovo millennio, o anche come net generation. E) Attualmente è in via di formazione la generazione Z, di coloro che sono nati a partire dal 2000 in avanti, che al più hanno ora 16-17 anni. Non ancora maggiorenni, sono oggi studiati soprattutto in quanto consumatori.
[3] Nel 1968 Jerry Rubin aveva 30 anni.
[4] Sono state elaborate varie teorie in questo senso.
[5] La sociologia delle generazioni è stata inaugurata da Karl Mannheim nel lontano 1923 con un articolo di carattere metodologico che aveva per oggetto la possibilità di una sociologia delle generazioni. Cfr. Mannheim 1952. Dopo Mannheim la sociologia delle generazioni ha continuato a svilupparsi, ma è sempre rimasto un capitolo di secondo piano.
[6] Cfr. il mio saggio Storia e memoria. Cfr. Rinaldi 2008.
[7] Naturalmente, quando si parla di generazioni, le questioni che si pongono sono alquanto diverse, a seconda del tipo di società (America, Europa, Occidente, Oriente, paesi sviluppati o non sviluppati, e così via), per cui occorrerebbe fare molte considerazioni particolari. Secondariamente, si porrebbero vari problemi di ordine metodologico relativi all’individuazione delle diverse generazioni e alla loro omogeneità interna.
[8] Cfr. Diamanti 1999.
[9] Nel mio saggio sul Sessantotto nella situazione internazionale ho interpretato il Sessantotto come una sorta di resistenza alla Guerra fredda. Cfr. Rinaldi 1999.
[10] Il motto è riferito a Wright 2002.
[11] Cfr. Hirschman 1982.
[12] Sulla valutazione del Sessantotto, vedi il mio saggio Rinaldi 1999.
[13] Cfr. il mio post L’individuo ben socializzato.
[14] Uso qui il termine come veniva usato – seppur scorrettamente – nel periodo in questione.
[15] Cfr., ad esempio, Recalcati 2011 e Recalcati 2013.
[16] Mentre scriviamo, i giornali stanno dando ampio spazio (5/2/2017) a un documento firmato da centinaia di professori universitari che invoca dalla politica provvedimenti urgenti perché i giovani che giungono all’università non conoscono in modo sufficiente la lingua italiana.
[17] Cfr. il mio post I più furbi di tutti.
[18] Il men che si possa dire è che i quarantenni – dati i loro trascorsi generazionali di tipo privatistico – siano piuttosto nuovi alla politica. Nuovi non vuol dire, di per sé, inadatti. Può essere benissimo che chi è nuovo possa gettare nell’agone nuove energie, nuove prospettive, una nuova etica, nuovi punti di vista. Può essere benissimo che chi è nuovo possa – come dice il termine – innovare positivamente. Può darsi ancora che chi è nuovo, nel senso che ha rotto con l’eredità politica della generazione precedente, possa svincolarsi da pesanti e soffocanti zavorre e possa, quindi, fare decisamente meglio.
[19] Si veda una rassegna di questi avvenimenti nel mio recente articolo intitolato Cronache marziane.
[20] Si potrebbe obiettare affermando che le politiche di Renzi non paiono proprio anti istituzionali. In parte può esser vero, ma se si pensa a come i renziani hanno affrontato la questione delle riforme istituzionali non si può che riconoscere loro una certa spregiudicatezza nei confronti delle istituzioni.
[21] Il riferimento va ovviamente a Vattimo 2009.

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