1.
Per affrontare adeguatamente la questione posta in questo articolo
sono necessarie alcune definizioni concettuali preliminari. La
nozione di «generazione» non è univoca. Occorre anzitutto
distinguere tra un’accezione strettamente demografica
da un’accezione di tipo sociologico.
In senso demografico, una generazione è caratterizzata dalla
comunanza di età. In termini tecnici si tratta di un gruppo
di età.
La nozione sociologica di generazione è invece completamente diversa
ed è incentrata intorno alla comune
esperienza
di un gruppo di età.[1] Il requisito strettamente demografico
diventa così soltanto un elemento preliminare che viene
caratterizzato da un’esperienza
comune
condotta, proprio a partire dalla comune età, in un determinato
momento dello sviluppo storico sociale.
In
questo senso, gli individui che sono considerati come appartenenti a
una stessa generazione, accanto alle comuni caratteristiche di tipo
oggettivo, si ritiene debbano soprattutto aver condiviso una qualche
comune
esperienza
e, dunque, siano rimasti caratterizzati
dall’esperienza stessa. Deve dunque trattarsi non di una esperienza
qualunque, ma di un’esperienza capace di modificare
in modo relativamente profondo
coloro che l’hanno condivisa. Le esperienze generazionali sono
quelle che lasciano un marchio indelebile
2.
Mentre le generazioni demografiche esistono
sempre,
poiché sono legate alla natura biologica dell’uomo, le generazioni
sociologiche sono
un costrutto
della memoria e della storia. Le generazioni sociologiche di solito,
proprio perché si tratta di individui che hanno condiviso una comune
esperienza, tendono a sviluppare una loro auto
rappresentazione,
una narrazione intorno alle loro stesse caratteristiche comuni, una
loro propria memoria collettiva generazionale. Esse inoltre, proprio
poiché risultano bene individuabili, grazie alle caratteristiche che
hanno maturato nella loro particolare esperienza, sono anche fatte
oggetto di rappresentazione
esterna,
da parte delle narrazioni di altri (altre generazioni, media,
ideologie e simili).
Data
una qualsiasi generazione in senso demografico, ci si può dunque
domandare quali siano le sue caratteristiche
distintive
rispetto alle altre e, quindi, si può passare a caratterizzare
quella generazione sul piano sociologico e culturale. Gli studiosi
hanno ormai provveduto a organizzare una vera e propria mappa delle
generazioni che si sono succedute nel tempo,[2] almeno a partire dal
secondo dopoguerra. Le generazioni in generale sono dei costrutti,
dei tipi
ideali nel
senso weberiano, e ne hanno tutti i pregi e i difetti. Del resto,
quando si affrontano problemi così complessi non si può fare a meno
di impiegare tipi ideali. Il criterio per accettare o rifiutare un
tipo ideale non può che basarsi sulla sua utilità interpretativa ed
esplicativa.
3.
Ciascuno, nel corso della vita, passa mediamente attraverso tre
generazioni e quindi, mediamente, nella società sono sempre
compresenti, più o meno, tre generazioni. C’è sempre una
generazione centrale,
che vede dietro di sé gli anziani e davanti a sé i giovani. Una
generazione
degli anziani,
che non ha più nessuno alle spalle e che vede davanti a sé almeno
due generazioni, quella centrale e quella dei giovani. E c’è una
generazione
dei giovani
che vede dietro di sé almeno due generazioni, quella dei padri e
quella dei nonni. Questo ritmo
delle generazioni
ha effetti rilevanti sulla politica – anche se questo dato di fatto
non è quasi mai riconosciuto. Molti eventi della politica,
altrimenti incomprensibili, possono trovare una spiegazione proprio
in termini
generazionali.
La spiegazione in termini generazionali è spesso trascurata da chi
tende ad assegnare alla politica una sorta di magica autonomia, come
se i soggetti che si occupano di politica non avessero una dimensione
biosociale legata all’avvicendamento generazionale.
4.
La presenza simultanea di più generazioni istituisce tra loro un
qualche tipo di rapporto, di cooperazione, di concorrenza, di
conflittualità o anche d’indifferenza. Accade piuttosto raramente
che la generazione dei giovani riesca a caratterizzare la politica
della propria epoca. Quando ciò tuttavia succede, si esprime per lo
più in termini conflittuali e di rottura. L’ultimo esempio
consistente è stato quello della generazione dei cosiddetti baby
boomers,
gli attuali nonni, in altre parole, quelli del Sessantotto. «Non
fidarti di nessuno che abbia più di trentaquattro anni» diceva
Jerry Rubin, uno dei leader fondatori dello YIP (Youth
International Party)
nel febbraio del 1968.[3] Ancora più recentemente, seppure in
un’area più circoscritta, possiamo ricordare che le cosiddette
primavere
arabe
furono caratterizzate da una rilevante mobilitazione giovanile.
Spesso tuttavia le rotture giovanili hanno finito con il risultare
velleitarie e inconcludenti, o addirittura disastrose. Si possono
trovare diversi esempi storici. Si possono ricordare il 1848 europeo,
i narodniki
russi, oppure, ahimè, le «Radiose giornate di maggio».
Accade
assai più frequentemente che la politica di un’epoca sia
caratterizzata dalla generazione degli anziani, i quali lasciano poi
progressivamente posto alla generazione intermedia, i quali tuttavia,
quando riescono ad avvicendarsi, sono ormai prossimi a essere anche
loro anziani. E così via. Il nostro Paese, in particolare, è
piuttosto noto per essere stato, negli scorsi decenni, una sorta di
gerontocrazia,
un paese cioè in cui la scena politica è stata in gran parte
occupata dagli anziani, in modo così pervasivo da far pensare a un
vero e proprio piano
di esclusione
da parte degli anziani ai danni dei giovani.[4]
5.
Insomma, in generale, la bilancia della storia, in termini
generazionali, sembra pendere, alternativamente, tra i giovani e gli
anziani o, per semplificare, tra il nuovo e il vecchio, con qualche
maggior frequenza per quest’ultimo. La generazione degli intermedi,
in condizioni normali, sembra per lo più soltanto un momento di
passaggio tra i due estremi dell’epoca. Sembra perciò non avere
una sua precisa caratterizzazione, sembra destinata a barcamenarsi
tra il vecchio che scema e il nuovo che avanza.
Solo
in periodi davvero bui, come quello presente, in cui il
vecchio pare abbia completamente fallito
e il nuovo
pare non avere proprio nulla da dire,
gli indeterminati intermedi sembrano acquistare una qualche evidenza,
sembrano venire alla ribalta, sembrano volersi distanziare nettamente
dagli errori dei vecchi e fungere da originale riferimento per i
giovani. Andando oltre l’alternativa secca tra vecchio e nuovo, tra
anziani e giovani, gli intermedi sembrano talvolta agitare la
possibilità di una terza
via
generazionale. Nei tempi attuali, dunque, sembra proprio essersi
aperta l’età
della generazione intermedia.
Questo fenomeno è diventato sempre più evidente un po’
dappertutto, soprattutto nell’Occidente post Guerra fredda. Anche
nel nostro Paese, solo da qualche tempo, si è palesemente affacciata
sulla scena politica la generazione intermedia, la generazione che
chiameremo – onde non appesantire - dei quarantenni.
6.
Per convincersi di questa effettiva svolta silenziosa è sufficiente
scorrere i dettagli anagrafici dei leader più importanti che oggi si
contendono il campo della politica nel nostro Paese. Matteo
Renzi è nato nel 1975 e nel 2016 ha compiuto 41 anni. È diventato
maggiorenne nel 1993, cioè nel periodo della fine della Prima e
dell’inizio della Seconda repubblica. Le novità politiche
all’epoca erano Bossi e Berlusconi. Non ha mai conosciuto i partiti
della Prima repubblica nel loro classico dispiegamento, per cui
coloro che lo considerano soltanto un erede della cultura
democristiana sbagliano nella sostanza. Del mondo della Prima
repubblica, Renzi ha visto solo la crisi.
Molti
altri nomi di primo piano della politica italiana insistono intorno
ai quarant’anni. Come esempio generazionale, Virginia Raggi è nata
nel 1978 e nel 2016 ha 38 anni. È diventata maggiorenne nel 1996,
quando tutto il Paese assisteva all’avvitamento dei partiti della
Prima repubblica e alle prime gesta di Berlusconi. Molti altri
politici del M5S hanno dati anagrafici analoghi. Davide Casaleggio,
colui che ha ereditato dal babbo la proprietà di un partito, è nato
nel 1976 e ha nel 2016 esattamente 40 anni.
Il
Presidente attuale del PD, Matteo Orfini, è nato nel 1974 e ha 42
anni, mentre Gianni Cuperlo che ha 55 anni fa quasi la figura di un
anziano. Roberto Speranza è nato nel 1979 e nel 2016 ha 37 anni.
Matteo Salvini è nato nel 1973 e nel 2016 ha 43 anni. Giorgia Meloni
è del 1977 e nel 2016 ha 39 anni. Debora Serracchiani è del 1970 e
ha 46 anni. Giuseppe Civati è del 1975 e ha ora 41 anni. Ci sono poi
alcuni “quarantenni” che sono relativamente appena un po’ più
giovani. Marianna Madia è del 1980 e ha 36 anni. Maria Elena Boschi
è del 1981 e ha 35 anni. Luigi di Maio è del 1986 e ha 30 anni,
mentre Alessandro Di Battista, nato nel 1978, ha ora 38 anni.
7.
Questa davvero tangibile invasione
di quarantenni,
sembra avere spezzato, in effetti, la legge
gerontocratica
tipica del nostro Paese. Ciò ha implicato indubbiamente
l’emarginazione progressiva degli anziani, anche di anziani non
ancora del tutto obsoleti. Tra i messi da parte prematuramente
possiamo, ad esempio, annoverare D’Alema, che è del 1949, ha 67
anni ed è ancora arzillo, ma viene dai più considerato ormai come
un reduce d’altri tempi. Lo stesso dicasi per Pier Ferdinando
Casini che è del 1955 e ha 61 anni. Gianfranco Fini è del 1952 e ha
“solo” 64 anni. Rosy Bindi è del 1951 e nel 2016 ha “soltanto”
65 anni. Rutelli è del 1954 e Veltroni del 1955. Si potrebbero fare
molti altri esempi. Tutti costoro sembrano ormai “uomini politici
d’altri tempi” che non hanno più nulla da dire, prodotti che
hanno oltrepassato la data di scadenza e da mandare al macero. Nella
Prima repubblica avrebbero avuto ancora vent’anni di vita politica
piena.
Da
un punto di vista di giustizia distributiva questa invasione di
quarantenni è una novità cui non si può far altro che plaudire.
Era ora. In altri Paesi, la legge gerontocratica era stata dismessa
ben prima che da noi. John Kennedy aveva 44 anni quando fu eletto
Presidente, nel lontano 1961. Ci si potrebbe domandare perché,
almeno in Occidente, l’invasione dei quarantenni avvenga su vasta
scala e diventi visibile proprio adesso. È probabile – emergerà
meglio nel proseguimento dell’articolo - che questa tendenza
abbastanza generalizzata sia legato a una veramente rapida
obsolescenza
della generazione dei baby
boomers.
8.
Una considerazione banale è che ogni generazione, più o meno
consapevolmente, quando fa politica, la fa principalmente avendo
come riferimento la propria generazione.
Così faceva del resto Jerry Rubin che non guardava oltre i 34 anni.
Così hanno fatto in passato i brontosauri del PCI e della DC, e così
fanno oggi Matteo Renzi, Luigi di Maio, e tutti gli altri. Non c’è
mai una politica che sia completamente trasversale e che non subisca
l’effetto dell’ottica generazionale. I politici non possono che
essere naturalmente concentrati sulla propria generazione, anche se
sono poi costretti a guardare oltre e devono, se non altro per
ragioni elettorali, cercare di indovinare e interpretare, con
maggiore o minore successo, il punto di vista delle altre generazioni
compresenti.
Ciò
comporta che i quarantenni di oggi si trovino nella scomoda posizione
di riferirsi alla
loro stessa generazione
(cosa che è già un bel problema - essendo la loro, notoriamente,
una generazione assai indeterminata) e di interpretare anche, in
qualche modo, le
due generazioni più distanti tra loro,
quella degli anziani (che oltretutto anagraficamente sono diventati
più longevi) e, poi, quella dei più giovani. Quest’opera di
“mediazione generazionale” da parte degli intermedi può
rivelarsi quanto mai facile quando ci sia una continuità tra le
generazioni; oppure può rivelarsi quanto mai difficile quando tra le
generazioni ci siano differenze assai marcate. Quest’ultimo, come
vedremo, pare essere proprio il caso del nostro Paese.
9.
Le diverse generazioni – per quanto tutte insistenti su un terreno
culturale vagamente comune - hanno inevitabilmente diverse
culture politiche.
Se si vuole, per essere più precisi, vivono e interpretano le loro
rispettive culture politiche secondo la loro specifica curvatura
generazionale.
Le curvature generazionali delle varie culture politiche possono
tuttavia produrre effetti indesiderati, destinati anche ad avere un
peso notevole. E ciò accade, a maggior ragione, soprattutto quando i
meccanismi generazionali sono misconosciuti e ignorati.[5]
Questa
dipendenza della politica dalle generazioni ha strettamente a che
fare con i processi educativi e, soprattutto, con la trasmissione
della memoria
tra le generazioni.[6] Pur nell’ambito di una stessa cultura
politica, le diverse generazioni possono essere profondamente marcate
e contraddistinte, e manifestare disomogeneità, incomprensioni o,
addirittura, conflitti. Per farla breve, la trasmissione della
memoria tra le generazioni – anche nell’ambito di una stessa
famiglia di cultura politica - può andare di lusso, oppure può
proprio non
andare a buon fine.
Perciò potremo avere generazioni successive che si trovino tra loro
in perfetta armonia, avendo i più giovani ereditato il meglio dei
più anziani, oppure generazioni tra le quali si sia determinato un
fossato, uno iato, un gapgenerazionale.
È banale ammettere che un qualche gap
generazionale ci sia sempre: il fatto difficile da ammettere è che
ogni gap
generazionale sia diverso
e che certi gap
possono avere un peso storico e politico maggiore di altri.
10.
A questo punto possiamo cercare di capire qualcosa di più circa la
curvatura
generazionale
della cultura politica dei nostri attuali quarantenni.[7] Stiamo
parlando di coloro che, tempo fa, sono stati definiti dagli studiosi
come la «generazione X», dove la “X” stava a indicare una
variabile
incognita.
Erano stati considerati, in altri termini, come la
generazione indecifrabile.
Alcuni studiosi li hanno qualificati addirittura come la generazione
invisibile.[8]
Ciò forse perché erano quelli che venivano dopo una generazione che
invece era stata assolutamente visibile, ben marcata e ben definita,
quella dei cosiddetti boomers,
la generazione dei nati
dopo la guerra,
nel clima della ripresa demografica, della ricostruzione e della
Guerra fredda. Genericamente, la generazione del Sessantotto. Era
stata questa una generazione che, nel bene o nel male, aveva fatto
politica a partire dalla propria prospettiva (come mostra la battuta
di Jerry Rubin) e aveva contribuito a caratterizzare la propria
epoca, marcando nettamente la distanza con le generazioni precedenti
e imponendo, addirittura sulla scena internazionale, il proprio
progetto di cambiare il mondo.[9]
11.
Nel caso almeno del nostro Paese, non è difficile capire come siano
andate le cose. Tra la generazione dei baby
boomers e
la generazione precedente, quella che talvolta è definita come la
generazione
della radio,
c’era stata una rottura evidente e insanabile. La rottura è ben
simboleggiata dalle parole di Jerry Rubin. I boomers
sono stati una generazione che ha cercato di costruire da sé il
proprio bagaglio culturale e la propria identità nei movimenti e
nella partecipazione politica. La generazione del Sessantotto ha
cercato di criticare radicalmente la cultura della generazione
precedente. Una critica trasversale che aveva investito sia la destra
sia la sinistra. La generazione degli attuali anziani è stata –
almeno nel nostro Paese - la generazione dell’assalto
al cielo,[10]
l’ultima
generazione ideologica,
quella che aveva scoperto che «Il personale è politico». Si è
trattato di un processo di auto formazione assai radicale, assai
intenso, che tuttavia si è consumato nel breve volgere di pochi
anni, per lasciare spazio a un lungo
interminabile riflusso.
Nel
riflusso, tra gli anni Ottanta e gli anni Novanta ha preso forma la
generazione X, i figli di coloro che avevano dato l’assalto al
cielo. Il cambiamento brutale di prospettiva, del clima sociale e
politico, tra gli anni Settanta e gli anni Ottanta non ha prodotto
una rottura generazionale esplicita e rabbiosa com’era stata quella
della generazione precedente. Ha piuttosto immesso, tra le due
generazioni, un senso reciproco di estraneità.
La generazione X, senza produrre alcuna rottura esplicita, ha girato
le spalle all’esperienza dei boomers,
e ha prodotto una propria auto socializzazione «senza padri né
maestri», all’insegna del ritorno nel privato, del rifugio nella
quotidianità, dell’abbandono dell’ideologia, della fine della
storia, del nichilismo, del relativismo e talvolta anche
dell’opportunismo. Per dirla con Hirschman, s’è avuto un netto
cambiamento
di coinvolgimento
dalla public
action al
private
interest.[11]
In questo modo, tra la generazione dei baby
boomers e
la successiva generazione X è venuta a determinarsi in generale una
frattura
morale e,
in particolare, una frattura di cultura
politica,
di grande rilievo.
12.
Nell’intenzione dei boomers,
i figli della nuova generazione dovevano essere gli uomini
nuovi, per
come sarebbe stato possibile costruirli nel privato,
poiché non era stato possibile, a causa delle avverse condizioni
storiche, costruirli nel pubblico
della politica. Si poteva ingenuamente pensare, in questo quadro, a
un gran travaso ai nuovi giovani di quella sovrabbondanza
di valori
che i padri avevano sperimentato, del rigore intellettuale,
dell’etica dell’impegno, dell’intransigenza morale. Si poteva
anche pensare al travaso della creatività, dell’intraprendenza,
della socialità e del cosmopolitismo. I nuovi giovani, in quanto
uomini nuovi, avrebbero potuto essere coloro che avrebbero
provveduto, magari con altri più sofisticati mezzi, magari con tempi
più lunghi, a realizzare quella compiuta emancipazione
degli uomini e delle donne, nella quale i loro genitori avevano
creduto e nella quale avevano però fallito.[12]
Allo
scopo di riprodurre nel loro privato qualcosa che fosse a
loro immagine e somiglianza,
a immagine e somiglianza del loro passato impegno pubblico, i boomers
diventati genitori hanno dovuto fare i conti con la propria immagine
di sé. Hanno dovuto domandarsi quale fosse esattamente
quell’immagine che si doveva trasmettere ai figli. Quale fosse il
dover
essere cui
si doveva dare corso. Ebbene, pare proprio che a questo punto –
nell’elaborazione di una precisa immagine da trasmettere alla
generazione successiva - qualcosa sia venuto meno. Un po’ perché
l’immagine doveva essere alquanto logora e irrisolta, e un po’
perché i destinatari l’hanno considerata come qualcosa
di estraneo,
l’hanno ignorata e snobbata.
Proprio
qui si situa – almeno per il nostro Paese - il passaggio
dall’autodirezione all’eterodirezione, secondo i termini
teorizzati da Riesman.[13] I boomers,
infatti, si erano “socializzati”[14] soprattutto tra
pari,
diffidando delle generazioni precedenti. Nella socializzazione della
generazione X hanno continuato a pesare enormemente i
pari
rispetto ai genitori; ma si trattava di ben
altri pari.
Non erano più i pari della public
action,
bensì i pari del private
interest.
E i genitori hanno lasciato fare, anzi hanno incoraggiato questi
processi, perché i loro figli avevano da essere “ben
socializzati”.
Un’intera generazione di genitori – sentendosi probabilmente poco
adeguata - ha lanciato i propri figli nelle
braccia dei loro pari,
perché si sviluppassero in autonomia. Purtroppo l’autonomia si è
risolta soltanto nell’eterodirezione.
13. Qui, per approfondire,
bisognerebbe introdurre la complessa fenomenologia del riflusso
e dei suoi effetti sulle generazioni, cosa per la quale occorrerebbe
un articolo a se stante. Ci limiteremo a citare, per illustrare la
questione del particolare gap
generazionale che si è venuto a formare in quei frangenti, un
particolare punto di vista che è insospettabile di partigianeria
generazionale, quello dell’analisi clinica. Gli psicoanalisti, in
base alla loro pratica clinica, ci raccontano in modo allarmato e
assillante, da due o tre decenni almeno, come la trasmissione
dell’immagine dei padri baby
boomers ai
loro figli della generazione X sia fallita miseramente. E pare che la
cosa continui tuttora con la nuova generazione Y. Questa situazione
di grande difficoltà nel rapporto tra le generazioni è stata
definita come la stagione della assenza
del padre,
o per dirla con Recalcati, della sua evaporazione.[15]
Riflusso, rientro nel privato ed evaporazione del padre sembrano le
tappe di un unico processo di reciproca indifferenza intervenuto tra
la generazione X e quella precedente. Non un conflitto generazionale
ma un vero e proprio muro
generazionale.
14.
I boomers
che avevano dato l’assalto al cielo, dopo essere stati costretti a
ripiegare nel privato, quando si sono trovati di fronte alla
responsabilità di elaborare e trasmettere un’immagine matura di sé
alla generazione successiva si sono trovati senza avere gran che
nelle mani. Non potevano tornare ai modelli educativi anteguerra,
quelli della generazione
della radio;
d’altro canto avevano sperimentato la delusione personale rispetto
ai modelli umani elaborati negli ambiti delle varie utopie
movimentiste cui avevano partecipato. Così è emerso, senza
consapevolezza e deliberazione alcuna, senza pianificazione, una
sorta di sincretismo
educativo
che ha cercato di comporre insieme un
mosaico impossibile.
Una specie di bricolage
domestico,
l’uomo nuovo fai
da te,
fabbricato nella ristretta utopia
privata.
Questo, forse, è il vero motivo per cui il risultato generazionale
prevalente è stato etichettato con l’incognita X.
14.1.
Tra i motivi conduttori della nuova
educazione
c’erano cose come il rifiuto dell’autorità, la valorizzazione
dell’autonomia, la liberazione dalla repressione, la libertà
sessuale, lo sviluppo della socialità; la pratica dello sport e la
pratica delle attività espressive, artistiche e creative; un
ecologismo un po’ di maniera, basato su una concezione romantica
della natura, a base di Walt Disney, Panda e Puffi. Il tutto
naturalmente condito dal medium
tipico dell’epoca e cioè dalla televisione.
14.2.
Sul terreno della visione del mondo, a tutto ciò si accompagnava poi
una considerazione sempre negativa di quello che era stato il terreno
bruciante della sconfitta dei padri e cioè dell’economia, del
potere e in particolare delle istituzioni e della politica. Il tutto
ancora era condito con una concezione altrettanto negativa della
tecnica e della scienza, considerate come disumane, fredde e
spersonalizzanti. Contro i vari mostri dell’alienazione e della
disumanità, che del resto avevano trionfato in campo pubblico,
veniva proposto un tenue e vago spiritualismo tutto centrato
sull’interiorità e in versione «fai da te». Fu allora che ebbe
una diffusione travolgente la cosiddetta cultura della new
age, con
tanto di tecniche del corpo, arti della meditazione e cura del
benessere, il tutto condito di bizzarre e arcaiche credenze. Tra gli
aspetti massimamente curati, residuo assolutamente malinteso del
socialismo e del comunismo, lo sviluppo delle relazioni sociali e
l’obiettivo dell’integrazione
sociale o,
come si diceva, della “socializzazione”.
14.3.
Nonostante la difficoltà a comporre il mosaico dell’uomo nuovo
nella salsa dell’utopia privata, la generazione X è stata, in
effetti, una generazione su cui i genitori hanno investito molto;
molto amata, molto curata e seguita, tenuta al riparo dai traumi e
dalle frustrazioni, rimpinzata di tutti i nuovi ritrovati educativi
di volta in volta in voga. I figli erano l’investimento per
eccellenza e le famiglie rivendicavano il pieno diritto di
intervenire nell’educazione dei loro figli. Chi non ricorda i
dibattiti accesi sul sacro diritto dei genitori di scegliere il
percorso educativo per i figli e la questione del finanziamento della
scuola privata. Chi non ricorda le scuole della Lega con il marchio
del partito.
14.4.
Insieme alla più generale diffidenza
verso le istituzioni,
alla generazione X fu trasmessa una certa diffidenza per la scuola,
che continuava comunque a essere percepita come autoritaria,
repressiva e selettiva. La lotta alla selezione scolastica continuò
in maniera sotterranea, perché ormai era diventato un luogo comune
della pubblica opinione. Grazie a questa tendenza fu completata la
demolizione del nostro sistema d’istruzione.[16] Emergeranno così
in campo educativo, la libertà, di fatto se non di diritto, di
copiare durante i compiti in classe, pochi compiti a casa, vacanza al
sabato, interrogazioni programmate, esami facili e promozioni quasi
assicurate, riduzioni varie dell’orario scolastico, programmi
sempre più banali e striminziti e, soprattutto i
progetti.
I quarantenni di oggi – scolasticamente parlando - sono i
figli degli organi collegiali,
della socializzazione,
delle attività
e dei progetti.
14.5.
Questa chiusura nella realizzazione privata comportò la messa al
bando, da parte sia dei genitori sia dei figli, della public
action,
della partecipazione e della politica. Del resto, nello stesso tempo,
il sistema politico della Prima repubblica andava in frantumi.
Significativamente, senza che alcuno lo abbia deciso esplicitamente,
furono progressivamente smantellate le organizzazioni giovanili dei
vecchi partiti di massa. O, forse, si svuotarono dall’interno.
Messo da parte ogni impegno di carattere pubblico, al massimo per i
giovani della generazione X si ebbe una frequentazione del
volontariato,
nelle sue diverse manifestazioni. I giovani, che dovevano diventare
gli uomini nuovi, erano decisamente “ben socializzati” ma
completamente spariti dalla scena politica e ci si consolava però
col fatto che facevano
del volontariato.
15.
La memoria trasmessa a questi giovani, che oggi sono quarantenni, non
è stata solo la memoria di una sconfitta politica e culturale, ma
anche e soprattutto il
surrogato consolatorio di una modernizzazione affrettata e mal
digerita.
La generazione dei boomers
non è riuscita a trasmettere gran che di sostanziale perché aveva
ben poco tra le mani, soprattutto soffriva per la mancanza
di una tradizione
autentica. Molti dei genitori provenivano dal mondo contadino o
operaio e avevano sperimentato la prima scolarizzazione di massa, la
scuola
media unica
e la liberalizzazione
degli accessi all’università.
Pochissimi però avevano cinquecento libri in casa.[17] Nonostante
l’allargamento notevole del diritto allo studio, nei fatti non ci
fu nessuna democratica estensione
a tutti
della tradizione culturale grande borghese, ci fu solo la diffusione
erga omnes
di una cultura
di massa
sempre più onnipervasiva e semplificata, scambiata per cultura
sinistrese e progressista, che ha finito per produrre un enorme ceto
medio
tutto uguale, seriale, pieno di luoghi comuni, insopportabilmente
presuntuoso, sempre più povero
materialmente
e sempre più limitato
spiritualmente.
16.
Accanto ai limitati orizzonti culturali posseduti, i futuri
sessantenni si sono trovati in una situazione assolutamente
imbarazzante dal punto di vista del loro bagaglio identitario. Da un
lato si sono trovati nei panni di chi non poteva più credere nei
valori della propria formazione giovanile, perché questi avevano
palesemente fallito, ma anche di chi non riusciva più a
identificarsi fino in fondo nei valori della normalizzazione e del
ritorno a casa. Alcuni si sono chiusi nella doppia morale e nel
ritualismo, altri, con spettacolari salti mortali, hanno cercato di
diventare più realisti del re, abbracciando fino in fondo le regole
della morale corrente (o dell’immoralità corrente). Questo non
riuscire effettivamente a sentirsi a casa propria da nessuna parte,
questo spaesamento
- per dirla in termini più filosofici, è il marchio morale degli
attuali sessantenni, ed è il sentimento che hanno trasmesso,
coscientemente o meno, alle generazioni successive. Questo forse è
il motivo per cui gli psicoanalisti hanno cominciato a parlare
dell’evaporazione
del padre,
e questa è probabilmente la vera ragione per cui i sessantenni, in
fin dei conti, hanno accettato de
facto di
essere messi
da parte anzitempo.
Il farsi da parte anzitempo dei sessantenni non sembra tuttavia avere
risolto alcun problema, poiché la generazione X, chiamata anch’essa
anzitempo alla successione, resta pur sempre la generazione
dell’incognita, del private
interest e
del vuoto.
17.
Il fatto nuovo di questi ultimi anni è che, comunque, dalla
generazione X sta emergendo un nuovo
ceto politico
che si appresta a prendere in mano le redini del nostro Paese.[18] I
più giovani, quelli della generazione Y, ovviamente dovranno
aspettare ancora un bel po’. Un segnale decisivo della svolta sono
state le primarie che hanno portato Renzi alla segreteria del PD,
grazie alla parola d’ordine della rottamazione,
slogan che suonava in termini antipolitici ma che corrispondeva, in
realtà, a un progetto ben caratterizzato in termini generazionali –
cosa che è stata perfettamente colta dai vari Bersani e D’Alema.
Un altro segnale altrettanto decisivo è stato il sorprendente
risultato del M5S nelle elezioni del 2013. Risultato che ha portato
in Parlamento una nutrita schiera di quarantenni e che, di fatto, ha
bloccato la legislatura attraverso il rifiuto di qualsiasi alleanza
politica.[19]
18.
I quarantenni in politica si stanno trovando ora nella difficile
incombenza di dare voce alla propria generazione e, nello stesso
tempo, nell’esigenza di interpretare la domanda politica delle
altre generazioni. D’altro canto gli elettori li hanno votati
poiché, in qualche misura, essi hanno tentato di dare loro una
qualche identità. Comunque ormai i quarantenni in politica sono da
qualche tempo sotto i nostri occhi e siamo in grado quindi di
cominciare a valutarne le prestazioni. Siamo forse anche in grado di
valutarne, con cognizione di causa, le prospettive future. Le
formazioni politiche che attraggono il maggior numero di quarantenni,
sia come militanti che come elettori, sembrano, nell’ordine, il
M5S, il PD di Renzi (PDR) e, a destra, la Lega di Salvini e Fratelli
d’Italia di Giorgia Meloni. Se questo è vero, possiamo allora
cercare di individuare, trascurando la specifica offerta politica di
ciascuna formazione, quali siano le caratteristiche comuni del loro
agire politico. Quale sia l’immagine della politica che propongono
alla loro generazione e, di riflesso, alle altre.
18.1.
Queste formazioni hanno senz’altro in comune il fatto di discendere
non dalla prospettiva della public
action
della seconda metà del secolo scorso bensì dalla prospettiva del
riflusso
nel privato.
Sono formazioni che potremmo definire post
ideologiche
nel senso che hanno rifiutato non solo le ideologie nefaste del
Novecento, ma veramente tutte
le ideologie. L’adesione di Salvini al nazionalismo etnico,
l’adesione di Renzi alla liberal democrazia, non hanno nulla di
ideologico, sono soltanto una lista di ricette
pratiche.
E lo stesso vale per il M5S. Pongono tutte una antitesi tra il
vecchio e il nuovo e, all’interno del vecchio, viene collocata la
vecchia politica
che corrisponde a quella espressa dalla generazione precedente. Sono
tutte formazioni, per un motivo o per l’altro, antipolitiche
e anti
istituzionali.[20]
Non si considerano eredi di alcun progetto storico di lungo corso
(appunto, le ideologie sono finite) e puntano tutto sull’attivismo
frenetico e sul conseguimento di risultati in tempi stretti. Non
hanno intellettuali, non hanno filosofi di riferimento, non hanno
sacri testi di fondazione o documenti ponderosi. Sul piano della
comunicazione ragionano e scrivono a colpi di tweet,
battute, insulti. Sul piano culturale sono perfettamente post
gutemberghiani e tipici membri del villaggio
globale
alla McLuhan o tipici esempi del ritorno dell’oralità
secondaria alla
Ong. Nella Prima repubblica i politici si assomigliano alquanto fra
loro e come gruppo differivano alquanto dai loro elettori. Ora i
politici fanno di tutto per assomigliare morfologicamente ai propri
elettori di riferimento.
18.2.
Tutto ciò fa si che lo spazio politico, per loro, non sia più
configurato dalle tradizionali polarità di destra e sinistra, bensì
sia uno spazio
politico fluido
fatto di opposizioni di carattere pratico. Entro questo spazio sono
così possibili le
più strane alleanze
e soprattutto sono possibili le alleanze
contro,
che sono la grande novità degli ultimi tempi. Una parte consistente
delle opposizioni che compaiono nel nuovo spazio politico sono
proprio di tipo generazionale: così è per l’opposizione tra M5S e
il resto del mondo, così è per l’opposizione, dentro il PD, tra i
renziani e il resto del mondo. In questo nuovo spazio politico fluido
e multipolare, le contrapposizioni forti, le fratture, sono
soprattutto di
tipo morale
e hanno una scarsa base di tipo economico sociale (cosa che era
invece un elemento importante nella strutturazione dello spazio
politico tradizionale tra destra e sinistra). Questo, tra l’altro,
è il motivo per cui certe fratture, come quelle tra il M5S e il
resto del mondo, o quelle all’interno del PD che hanno portato alla
recente scissione, non sono assolutamente capite da chi non ne è
coinvolto e sono attribuite alla follia.
18.3.
La politica dunque – con questi presupposti – viene ridotta
a tecnica,
alla confezione ed esecuzione di un programma di «poche cose da fare
subito» che rappresentano l’offerta politica, in merito alla quale
gli elettori vogliono passare all’incasso il più presto possibile.
Solitamente si tratta di punti programmatici che soddisfano vari
interessi privati di grandi fasce di elettori (ottanta euro, bonus
vari, meno tasse, sovranità monetaria, via gli immigrati,
protezionismo e così via). Il politico ha solo da mantenere
esattamente quello che ha promesso. Per il M5S addirittura deve
fare solo quello che ha promesso.
Per fare qualcos’altro deve chiedere il permesso alla piattaforma
social
degli iscritti. È davvero curioso che una generazione che è stata
educata alla diffidenza nei confronti della tecnica non sappia fare
altro che ridurre la politica a tecnica. Evidentemente altro proprio
non c’è.
18.4.
Non solo. La politica viene ridotta a retorica.
Non più la logica talvolta assai complessa delle «grandi
narrazioni» - si pensi alle sottigliezze del pensiero marxista o
anche delle teorie del repubblicanesimo o della democrazia - ma la
retorica dei tweet,
la retorica dell’esprit
de l’escalier,
per cui vince chi ha la battuta pronta, l’insulto più veloce. Una
retorica spicciola che fa leva sulle emozioni, soprattutto sulla
paura, e sull’indignazione momentanea contro il nemico del momento.
Una politica che – essendo davvero poco gutemberghiana –
costruisce, sul momento, la verità che serve, quella che deve essere
propinata in una determinata circostanza a una certa fascia
d’interlocutori. La politica dei quarantenni sta diventando così
la politica delle bufale,
la politica della post
– verità.
Dopo decenni di nichilismo e di relativismo, di “addio alla
verità”[21] finalmente post verità e post politica stanno
trovando una sintesi virtuosa.
18.5.
La nuova politica dei quarantenni – ultimo ma non ultimo - sembra
avere consacrato ormai definitivamente la fine della nozione stessa
di organizzazione
nel campo politico. La socialità “creativa” dei quarantenni, che
è assolutamente informale e anarcoide, non è in grado di sostenere
alcuna incombenza organizzativa, alcun ascetismo burocratico. Si ha
sempre più la confusione più totale tra movimento
e partito
(si veda il M5S) e l’agire politico si sostanza di gruppi fluidi
che si raccolgono intorno a un leader,
più o meno come i fan
di un idolo pop.
Questo fa sì che le formazioni politiche – governate da giochi
sempre più informali – siano sempre meno democratiche
internamente, nonostante le retoriche ultra democratiche dei voti on
line o
delle primarie.
Così proliferano le correnti,
i cerchi
magici, i
«quattro amici al bar», o gli interventi dei commissari
politici
quando ci sono dei casini da risolvere.
19.
Certo, alcune di queste caratteristiche non sono nuove. Tuttavia
tutti questi tratti caratteristici emergono prepotentemente dalla
politica corrente, proprio dove ormai hanno ampio spazio i
quarantenni. Se queste caratteristiche non fossero nel DNA politico
dei quarantenni, le avrebbero probabilmente rifiutate, come hanno
ignorato o rifiutato molti aspetti della generazione precedente. Se
dovessimo darne una valutazione sintetica – che speriamo sia
provvisoria e non definitiva – potremmo affermare, senza tema di
essere smentiti, che la nuova
politica dei quarantenni oggi in Italia si sostanzia di tre
populismi emergenti,
quello del M5S, del PD renziano e della destra (Lega e Fratelli
d’Italia). Tre componenti politiche certo poco compatibili tra loro
ma con tratti
comuni
notevolissimi. Ci si potrebbe stupire di questo esito da «molto
rumore per nulla». L’analisi che abbiamo compiuto secondo una
prospettiva generazionale ci aiuta a capire il perché e il per come
siamo arrivati a questo punto. La generazione dei
boomers
aveva esasperato la centralità della politica, fino a distruggere
per contraccolpo la politica stessa come impegno pubblico e fino a
determinare un orientamento verso la totale privatizzazione. Fino a
dar luogo proprio a quel particolare ambiente
vuoto di politica
(l’Italia di Berlusconi, se si vuole) in cui è cresciuta la
generazione X. Cresciuta appunto nel vuoto del private
interest,
la politica della generazione X non può che essere una politica
ridotta alle sue forme elementari,
delle quali proprio il
populismo
è una delle espressioni più tipiche. Non il ritorno di vecchi
populismi da un lontano passato, dunque, ma un
nuovo originale populismo dei nuovi politici quarantenni
che interpreta perfettamente gli umori e le caratteristiche degli
elettori di quella generazione. Una politica grezza, immatura,
retorica, autoreferenziale, dagli schieramenti vaghi e indistinti,
appiattita sul presente, priva di una tradizione, priva di
prospettiva, piena di figurine sbiadite che sembrano un’immagine
decisamente in peggio rispetto a quelle, già non proprio smaglianti,
della generazione precedente.
Giuseppe
Rinaldi
27/02/2017
OPERE
CITATE
1999
Diamanti, Ilvo (a cura di)
La
generazione invisibile,
Il Sole 24 ORE, Milano.
1982
Hirschman, Albert. O.
Shifting
Involvements. Private Interest and Public Action,
Princeton University Press, Princeton. Tr.
it.: Felicità
privata e felicità pubblica,
Il Mulino, Bologna, 1983.
1952
Mannheim, Karl
The
Sociological Problem of Generations,
in Mannheim, Karl (a cura di), Essays
on Sociology of Knowledge,
Routledge & Kegan Paul, London. [1923]
2011
Recalcati, Massimo
Cosa
resta del padre? La paternità nell’epoca ipermoderna,
Raffaello Cortina, Milano.
2013
Recalcati, Massimo
Patria
senza padri. Psicopatologia della politica italiana
(A cura di Christian Raimo), Minimum Fax, Roma.
1999
Rinaldi, Giuseppe
Il
Sessantotto nella situazione internazionale,
in Arnoldi, Mario & Rinaldi, Giuseppe (a cura di), Trent’anni
dopo. Due saggi sul Sessantotto,
Edizioni dell’Orso, Alessandria.
2008
Rinaldi, Giuseppe
Storia
e Memoria,
in Ziruolo, Luciana (a cura di), I
Luoghi, la Storia, la Memoria,
Le Mani, Genova.
2009
Vattimo, Gianni
Addio
alla verità,
Meltemi, Roma.
2002
Wright, Steve
Storming
Heaven,
Pluto Press, London. Tr.
it.: L’assalto
al cielo. Per una storia dell’operaismo,
Edizioni Alegre, Roma, 2008.
I
vari post
cui si fa riferimento nel testo si trovano sul blog
dell’Autore.
NOTE
[1]
Questa definizione è stata prodotta da Karl Mannheim, in un articolo
del 1923. Cfr. Mannheim 1952.
[2]
Poiché in quest’articolo farò spesso riferimento alle diverse
generazioni, credo sia opportuno premettere un prospetto con i
riferimenti cronologici e sociologici comunemente adottati dagli
studiosi. Si tratta di riferimenti puramente indicativi, poiché i
confini tra le generazioni sono effettivamente piuttosto sfrangiati e
indeterminati. A) La generazione dei tradizionalisti,
detti anche generazione
della radio,
è costituita di coloro che sono nati tra il 1928 e il 1945. Per
quanto riguarda i loro caratteri distintivi, sono molto legati ai
loro ambiti nazionali, per cui è difficile generalizzare. B) Poi
abbiamo la generazione dei cosiddetti baby
boomers,
cioè la generazione del boom
delle nascite dopo la fine della guerra, cui appartengono coloro che
sono nati approssimativamente tra il 1945 e il 1964, anche se
qualcuno preferisce adottare la periodizzazione 1943 – 1960. È la
generazione di coloro che sono nati dopo la fine della guerra e che
della guerra hanno sentito solo parlare. Per molti Paesi, soprattutto
europei, è la generazione dei nati nel periodo della ricostruzione.
In molti Paesi è la generazione che è stata coinvolta nei movimenti
del Sessantotto. C) La generazione successiva è la cosiddetta
generazione
X,
così chiamata perché dotata di caratteri piuttosto indefiniti,
tanto da costituire un’incognita, un grande punto interrogativo.
Cronologicamente è costituita dai nati tra il 1963 (o 1960) e il
1980. Sono coloro che sono nati durante o dopo il boom
economico
postbellico. Rispetto al Sessantotto, costituiscono la generazione
del riflusso dei movimenti e del ritorno al privato. D) I figli della
generazione X costituiscono la generazione
Y
(cioè, alla lettera quelli venuti “dopo la X”); si tratta di
coloro che sono nati tra il 1982 (1980) e il 2001 (o 2000). È
significativo che il termine “generazione Y” pare sia comparso
per la prima volta nel 1993. Sono conosciuti anche come millenials,
cioè la generazione del nuovo millennio, o anche come net
generation.
E) Attualmente è in via di formazione la generazione
Z,
di coloro che sono nati a partire dal 2000 in avanti, che al più
hanno ora 16-17 anni. Non ancora maggiorenni, sono oggi studiati
soprattutto in quanto consumatori.
[3]
Nel 1968 Jerry Rubin aveva 30 anni.
[4]
Sono state elaborate varie teorie in questo senso.
[5]
La sociologia delle generazioni è stata inaugurata da Karl Mannheim
nel lontano 1923 con un articolo di carattere metodologico che aveva
per oggetto la possibilità di una sociologia delle generazioni. Cfr.
Mannheim 1952. Dopo Mannheim la sociologia delle generazioni ha
continuato a svilupparsi, ma è sempre rimasto un capitolo di secondo
piano.
[6]
Cfr. il mio saggio Storia
e memoria.
Cfr. Rinaldi 2008.
[7]
Naturalmente, quando si parla di generazioni, le questioni che si
pongono sono alquanto diverse, a seconda del tipo di società
(America, Europa, Occidente, Oriente, paesi sviluppati o non
sviluppati, e così via), per cui occorrerebbe fare molte
considerazioni particolari. Secondariamente, si porrebbero vari
problemi di ordine metodologico relativi all’individuazione delle
diverse generazioni e alla loro omogeneità interna.
[8]
Cfr. Diamanti 1999.
[9]
Nel mio saggio sul Sessantotto
nella situazione internazionale
ho interpretato il Sessantotto come una sorta di resistenza
alla Guerra fredda.
Cfr. Rinaldi 1999.
[10]
Il motto è riferito a Wright 2002.
[11]
Cfr. Hirschman 1982.
[12]
Sulla valutazione del Sessantotto, vedi il mio saggio Rinaldi 1999.
[13]
Cfr. il mio post L’individuo
ben socializzato.
[14]
Uso qui il termine come veniva usato – seppur scorrettamente –
nel periodo in questione.
[15]
Cfr., ad esempio, Recalcati 2011 e Recalcati 2013.
[16]
Mentre scriviamo, i giornali stanno dando ampio spazio (5/2/2017) a
un documento firmato da centinaia di professori universitari che
invoca dalla politica provvedimenti urgenti perché i giovani che
giungono all’università non conoscono in modo sufficiente la
lingua italiana.
[17]
Cfr. il mio post I
più furbi di tutti.
[18]
Il men che si possa dire è che i quarantenni – dati i loro
trascorsi generazionali di tipo privatistico – siano piuttosto
nuovi
alla politica. Nuovi non vuol dire, di per sé, inadatti. Può essere
benissimo che chi è nuovo possa gettare nell’agone nuove energie,
nuove prospettive, una nuova etica, nuovi punti di vista. Può essere
benissimo che chi è nuovo possa – come dice il termine –
innovare positivamente. Può darsi ancora che chi è nuovo, nel senso
che ha rotto con l’eredità politica della generazione precedente,
possa svincolarsi da pesanti e soffocanti zavorre e possa, quindi,
fare decisamente meglio.
[19]
Si veda una rassegna di questi avvenimenti nel mio recente articolo
intitolato Cronache
marziane.
[20]
Si potrebbe obiettare affermando che le politiche di Renzi non paiono
proprio anti istituzionali. In parte può esser vero, ma se si pensa
a come i renziani hanno affrontato la questione delle riforme
istituzionali non si può che riconoscere loro una certa
spregiudicatezza nei confronti delle istituzioni.
[21]
Il riferimento va ovviamente a Vattimo 2009.