Su suggerimento del nostro civis Beppe Rinaldi, pubblichiamo il seguente intervento già comparso di recente su "La Repubblica". La Redazione condivide pienamente la scelta per i contenuti espressi e per le problematiche che presenta.
La legge elettorale
(forse) la faranno. A spizzichi e bocconi, giusto per risparmiarsi l’onta di un’elezione
regolata dalla Consulta (doppia sentenza sul Porcellum e sull’Italicum),
anziché dal Parlamento. Però non è detto, magari va in malora anche questa pia
intenzione. Come tutti gli altri progetti di riforma nei quali il riformatore
coincideva con il riformato. È il paradosso di Ernst Fraenkel (1898-1975):
quanto più un sistema politico si rivela inefficiente, quanto più ha perciò
bisogno di riforme, tanto meno ci riesce, giacché una buona riforma ne
comproverebbe viceversa l’efficienza. Dunque le riforme sono possibili se
inutili, impossibili quando necessarie.
Ne è testimonianza la XVII
legislatura, che s’avvia mestamente al capolinea. Senza gloria, dopo cotanta
boria. E dopo aver tradito la sua promessa fondativa: l’autoriforma del sistema
politico. Niente da fare, e non per colpa del referendum di dicembre. Difatti
la riforma costituzionale non metteva a dieta il corpaccione dei partiti; ne
rinnovava casomai il mobilio, l’ambiente istituzionale che li ospita. Ma una
nuova politica — più trasparente e responsabile — avrebbe bisogno di nuovi
partiti. Quindi di regole stringenti sulla loro democrazia interna, nonché sui
soggetti che li affiancano nel governo della polis. Invece restiamo orfani di
qualsivoglia legge sui partiti, sulle primarie dei partiti, sulle fondazioni
dei partiti. Nessuna riforma delle indennità parlamentari o del conflitto d’interessi.
E un vuoto normativo largo quanto una voragine sui sindacati come sulle lobby.
Questa lacuna è anzitutto
una frode alla Costituzione. Che esige la legge sulla democrazia sindacale
(articolo 39), e al contempo evoca la disciplina legislativa dei partiti
(articolo 49). In quel testo riecheggia infatti la domanda che Calamandrei
sollevò in Assemblea costituente: come può respirare una democrazia, se i suoi
attori principali non sono a loro volta democratici? Non a caso il primo
progetto di legge sui partiti venne depositato da don Sturzo nella I
legislatura. E non a caso la legge c’è in Germania come in Spagna, in Austria,
in Grecia, nel Regno Unito e via elencando. In Italia, viceversa, i signori
delle regole non hanno mai accettato alcuna regola. Recependo soltanto, a denti
stretti, il decreto Letta (n. 149 del 2013), che istituì il finanziamento dei
partiti attraverso il 2 per mille, purché il loro statuto fosse di stampo
democratico.
In secondo luogo, il vuoto
di regole mette a nudo una promessa mancata, un impegno tradito. Rispetto ai
sindacati, nel marzo 2015 Renzi annunciò il battesimo della legge sulla
rappresentanza. Quando? Presto, prestissimo, anzi domani. Rispetto ai partiti,
l’8 giugno 2016 la Camera approvò un testo unificato di 21 proposte di legge,
trasmettendolo al Senato; giace ancora lì, dormiente, in attesa che un principe
azzurro lo risvegli. Come peraltro la legge sul conflitto d’interessi, bloccata
in I commissione dal febbraio 2016. O come la legge sulle lobby, un altro
fantasma del nostro ordinamento, con 55 progetti di legge inceneriti l’uno dopo
l’altro. Eppure negli Usa il Lobbying Act risale al 1946, e viene aggiornato di
continuo. Eppure in Europa, dagli anni Duemila in poi, altri 10 Paesi si sono
dotati d’una legge, infoltendo una compagnia già numerosa.
Ma l’Italia,
evidentemente, fa eccezione. E fra i nostri costumi eccezionali si registra l’esordio,
da quando è stato abolito il finanziamento pubblico ai partiti, di 65
fondazioni politiche, che raccolgono quattrini in gran segreto. Senza uno
straccio di legge che le renda trasparenti, nemmeno in questo caso. D’altronde
non c’è una buona legge sull’anagrafe patrimoniale degli eletti (il ddl Ichino,
depositato all’alba della legislatura, è desaparecido), né circa la loro
anagrafe “pubblica”, su cui i radicali insistono dal 2008. E non c’è nessuna
legge sulle primarie di partito, con la conseguenza che ciascuno fa come gli
pare (i candidati del Pd scelti con le primarie, alle prossime elezioni nei
capoluoghi di Provincia, saranno 4 su 25).
Insomma, zero tagliato.
Però, diciamolo: questa pagella va in tasca soprattutto alla maggioranza di
governo, prima artefice dei fatti, dei misfatti e dei non fatti della XVII
legislatura. Offre perciò benzina all’antipolitica, come se ce ne fosse
bisogno. Rende opaca la nostra vita democratica. Attizza baruffe sulle regole,
una volta sulla proprietà del simbolo (Scelta civica), un’altra volta sul
dissenso interno (dal Pd ai 5 Stelle). Infine trasforma i giudici in
altrettanti legislatori. Com’è successo a Genova sulla candidatura Cassimatis,
decisa in tribunale applicando ai partiti lo statuto delle associazioni non
riconosciute. Appunto: non riconosciute. Né dal diritto, né — ormai — dai
cittadini.
....
da " Le leggi mai fatte sulla democrazia nei partiti
di Michele Ainis
(da “La Repubblica” del
22-4-2017)"