«In
casi di crisi che obbligano la gente a scegliere tra varie linee di condotta,
la maggioranza sceglierà la peggiore possibile».
Legge di Rudin, da “Le Leggi di Murphy”, Murfologia, Capitolo 1
Raramente mi è capitato di condividere,
pressoché nella loro interezza, due articoli, su temi tanto diversi quanto
controversi, come quello di Sergio Fabbrini su “Le molte facce del
populismo che vince anche se perde”, e di Franco Livorsi su “Il suicidio della
sinistra”. Mi limiterò pertanto ad evidenziare unicamente gli aspetti sui quali
non concordo.
Dopo aver magistralmente messo in evidenza
come “I movimenti o i partiti populisti continuino ad essere attori permanenti
della politica europea” - sia sotto la forma di un “nazionalismo populista” (come
in alcuni paesi dell’Europa dell’Est, quali la Polonia e l’Ungheria), sia sotto
la forma di “populismo nazionalista” (come in alcuni paesi dell’Europa
dell’Ovest, la Francia e l’Italia) -, Fabbrini riconduce le cause del fenomeno a
tre ordini di fattori:
i)
in
quanto stato d’animo, il populismo “è un sentimento carsico secondo il quale il
popolo è migliore (più virtuoso, più onesto, più autentico) delle sue élite”: un’idea
di popolo che, fatto coincidere con una nazione, “è all’origine di tutti i mali
(…) di tutti i movimenti autoritari e totalitari europei degli ultimi due
secoli”;
ii)
in
“secondo luogo, e di conseguenza, il populismo è anti-pluralista”, per cui ciò
che rileva “è l’unità morale del popolo”. E questo spiegherebbe perché i “populisti sono
contrari alla democrazia rappresentativa” e i loro avversari “sono nemici da
disprezzare, élite corrotte e traditrici”. In quest’ottica, dunque, è compito
dei populisti “portare il popolo ad esercitare direttamente il suo potere”;
iii)
il
fenomeno del populismo, infine, sarebbe riconducibile “agli errori commessi dai
partiti storici nella gestione delle crisi multiple che hanno attraversato
l’Europa negli ultimi dieci anni”. Partiti storici che, “per via delle sfiducie
reciproche e degli interessi divergenti tra i governi nazionali”, hanno dato
vita “allo sviluppo di un approccio decisionale che si è affidato alle regole e
non alla politica per affrontare le sfide”.
Ora, siccome qui da noi il malessere
sociale conduce ad una “inaccettabile disuguaglianza sociale e ad
un’ingiustificabile paralisi del progetto di integrazione”, Fabbrini giunge
alla conclusione che “il populismo (andrebbe) contrastato anche sul piano
culturale, in quanto rappresenta una vera e propria minaccia esistenziale per
la democrazia rappresentativa”.
In che cosa dissento dall’analisi di
Fabbrini? Premetto che il mio dissenso non ha nulla a che vedere con le
molteplici cause del fenomeno, essendo riconducibile all’articolo di Franco Livorsi,
il quale auspica che i leader dei partiti anti-populisti, “se vogliono svuotare
il richiamo populista”, dovrebbero farsi carico di promuovere un cambiamento
radicale in grado di “cambiare l’agenda e il linguaggio del nostro paese”.
Quali leader, mi chiedo, nel panorama politico italiano, dominato a destra come
a sinistra (taccio per pudore su quelli del “centro”), avrebbero
l’autorevolezza per attuare tale ‘cambiamento radicale’ o, per dirla con Fabbrini,
del ‘piano culturale’?
Se è vero, infatti, come scrive Livorsi, che
“nel 2013 [il Partito Democratico] aveva finalmente
trovato un leader giovane intelligente, determinato e dotato di incredibile
energia realizzativa”, potrei sbagliarmi, ma a causa di quella serie di «conseguenze non intenzionali di
azioni intenzionali», ovvero quel “campo di fenomeni i cui contorni e
caratteri - come si legge su Wikipedia
- trovano più chiara descrizione nell'espressione nota come «eterogenesi
dei fini»”, in soli tre anni quel “giovane leader
intelligente” ha compiuto il miracolo di distruggere sé stesso, il suo partito,
e di portare la sinistra italiana intera - che, sia ben chiaro, ci ha messo del
suo -, a quel “suicidio” politico così ben descritto da Livorsi.
Egli ritiene che “il nostro
convento, direi dalla morte di Berlinguer, non aveva passato nessuno migliore
di lui (si chiamasse Occhetto, D’Alema o Prodi [(?!?) punteggiatura aggiunta] o
Bersani, tanto per essere chiaro)”. E no, caro Franco, al solo scopo di rinfrescare
la tua memoria, già nel settembre 2013, scrivevo
che nell’ottica
del «cambiamento di stile» introdotto da Matteo Renzi, “parole come «equità» e
«solidarietà», che appartengono a pieno titolo al linguaggio della sinistra, (venivano)
estromesse dal suo vocabolario”. Da grande comunicatore qual è, pensavo che egli
sarebbe stato certamente in grado di “colmare il deficit di empatia” della
sinistra, ma mi dichiaravo già fin da allora non altrettanto sicuro “della sua
capacità di saper esercitare, diversamente da quanto sta(va) dimostrando Enrico
Letta, «l’etica della cura», nonché l’«ampliamento
delle potenzialità» (empowerment): due funzioni strettamente
interconnesse che uno stato efficiente deve saper svolgere”. Ora, se il
cambiamento di stile che Matteo Renzi ha introdotto nel linguaggio della
politica, concludevo, “non può non essere apprezzato, da solo ciò non è
sufficiente a colmare quel “deficit di fiducia” (per carenza di autorevolezza)
che ha fino ad ora impedito ad alcuni suoi potenziali elettori di sostenerlo
apertamente, considerandolo, a torto o a ragione, come lui stesso ebbe a
scrivere di “sempre il solito bischero”. Dopo solo due mesi, in un altro mio
scritto manifestavo la mia “netta
sensazione (…) che in questi ultimi tempi i suoi avversari politici, siano essi
esterni o interni al PD, abbiano messo in atto la strategia della rana bollita
contro di lui”. Sbaglierò, ma il suo ‘sogno del 41%’, ottenuto alle elezioni
per il Parlamento Europeo in condizioni irripetibili, è destinato a rimanere
tale.
Pertanto, pur concordando con Livorsi sul
fatto che “il suicidio della Sinistra, che rattrista
molto me – scrive Livorsi – come tanti altri (oltre a tutto pensando a chi
vincerà)”, resto convinto fino a prova contraria che, come sosteneva Stefano
Rodotà, “la differenza fra destra e sinistra esiste eccome”. Sperando questa volta di
sbagliarmi, penso che, analogamente a quanto sostiene Fabbrini, alle prossime
elezioni “anche se perde, il populismo vincerà”. E non mi riferisco tanto al
populismo del M5S, che non sta dando buona prova di sé e che, qualora al
Governo, porterebbe il paese allo sfascio totale e fuori dall’Europa, quanto a
quello, già abbondantemente provato ed inconcludente, del centro-destra dei
vari Governi Berlusconi. Quello stesso centro-destra (più destra che centro,
per intenderci) al quale gli alessandrini hanno riconsegnato nelle stesse mani di
quel variegato entourage che lo aveva
fatto precipitare il Comune di Alessandria nella situazione finanziaria
stigmatizzata nel 2012 dalla Corte dei Conti. La storia non si ripete mai allo
stesso modo, ma come vorrei sbagliarmi!
La Salle, 5 agosto 2017
“Matteo
Renzi e la strategia della «rana bollita», Città Futura, 28 novembre 2013.