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Il futuro del centro-sinistra
Renzi: “La sinistra è futuro, o non è. Innovazione, inclusione, investimenti”
Tommaso Ciriaco (*)
 


Intervista a Matteo Renzi: “Il Pd ha l’idea dell’Italia come comunità: non solo Pil che cresce ma diritti, cultura, educazione”,

Matteo Renzi, partiamo dalla stretta attualità. Come valuta il Rosatellum?
«Un passo avanti. Non sono entusiasta, naturalmente, perché il 14 dicembre è stato sconfitto il nostro modello istituzionale e il ballottaggio, che garantiva la governabilità. Con la legge Rosato almeno ci sono i collegi. A me piacciono, anzi ne avrei voluto di più».

Il collegio è un passo avanti, ma perché non prevedere il voto disgiunto? Nasconde la voglia di blindare le candidature?
«No, il voto disgiunto lo fa al massimo 1’1% degli elettori. È solo un tecnicismo».

Un tecnicismo? In realtà affida all’elettore una scelta più ampia.
«Per me è un tecnicismo, tanto è vero che avevo dato la mia disponibilità a introdurlo. Ma avremmo portato la guerra in casa del centrodestra. E dunque non c’era l’accordo. Poi c’è un altro dato».

Quale?
«Siamo in una fase in cui qualcuno organizza marce su Roma. In cui Di Battista dice che il padre ha dato “una carezza a uno che ha il vitalizio”: vi rendete conto che è un principio violento in una piazza verbalmente violenta? Nel momento in cui la cultura politica della destra scommette sulla paura, noi siamo l’unico argine, l’unica forza di centrosinistra ancora in campo in Europa. In Francia i socialisti sono al 5%, in Olanda al 6%, in Germania c’è stato il risultato peggiore della storia dell’Spd. Se salta il Pd, salta il sistema. Crolla l’argine contro estremisti e populisti. E il problema è il tecnicismo sul voto disgiunto? Siamo seri».

Il Rosatellum apre la strada alle coalizioni. Il centrodestra la farà. E il Pd che vantaggio ha?
«A me lo domandate? Io avevo un’altra idea, e cioè un’unica lista dove invitare Pisapia – che ha sempre detto di no, e gli altri. Ma con la sconfitta al referendum la mia idea diventa secondaria rispetto alla necessità del Pd di costruire una coalizione con la quale difendere l’Italia dal populismo dei grillini e dall’estremismo di Salvini e Berlusconi».

Avete messo la fiducia alla Camera. Non è una forzatura democratica?
«Dissento radicalmente. Parlare di forzatura democratica è inaccettabile. La fiducia è uno strumento democratico che permette di fare le leggi. L’ha messa De Gasperi, non Di Battista. E poi sentirsi dire per due giorni che ho paura delle primarie da un partito azienda, dove fanno le cliccarie – o come diavolo si chiamano – che poi annullano quando vince quello sbagliato, e dove Di Maio prende 59 preferenze a Pomigliano d’Arco, ecco, penso sia un annebbiamento collettivo».

Ma proprio per questo, perché mettere la fiducia?
«Con 120 voti su norme di dettaglio, a tre mesi dal voto, era dura approvare la legge. È senso di responsabilità averla messa. Volete parlarne ancora? Guardate il dito, io penso la luna. Per me è un atteggiamento elitario, da presunto bon ton di galateo politico che non avrebbe prodotto una legge elettorale».

Il caso di De Gasperi è diverso. Allora fu messa al Senato, dopo aver almeno consentito il dibattito alla Camera.
«Conosco la storia, cercai i precedenti per mettere la fiducia sull’Italicum. Sono mesi che si discute, il problema è che si è discusso sin troppo, non troppo poco».

Stavolta non c’era l’ostruzionismo.
«Ma di cosa discutiamo? È mancato dibattito in Parlamento sulla legge elettorale?».

Sul Rosatellum sì. Anche Napolitano dice che è stato strozzato il dibattito.
«Con tutto il rispetto per il Presidente emerito, ho un’opinione radicalmente diversa. Non è la prima volta, ma la stima e il rispetto non vengono certo meno».

Con il Rosatellum le segreterie potranno indicare i tre quarti dei parlamentari?
«Tre quarti no. Certo, erano meglio le preferenze. Io mi volevo candidare al Senato. Ma è una legge imparagonabile rispetto al Porcellum: hai la lista, i tre nomi scritti e un collegio. I candidati gireranno come trottole. A Marradi, sopra Firenze, non ci andava più nessuno col Porcellum. Adesso ci andranno, eccome».

Chi deve favorire la norma ribattezzata “salva Verdini” nel Rosatellum?
«Verdini ormai viene citato in ballo per tutto. E se abbiamo le unioni civili, è grazie a lui. Io non ce lo vedo candidato nel Sud Est asiatico o in Nigeria. Ma il principio di consentire la candidabilità ovunque di tutti i cittadini italiani mi sembra giusto. Anche se francamente secondario».

Con chi costruirà una coalizione?
«Abbiamo quattro margini di azione. Primo: il mondo centrista, dall’ex Scelta civica ad Ap, cattolici e moderati. Secondo: Forza Europa, i radicali, magari coinvolgendo anche personalità dell’attuale governo. Terzo: la galassia ambientalista, a cominciare dai Verdi e dall’associazionismo. Quarto: un mondo di sinistra che, senza voler tirare la giacchetta a qualcuno, credo ci sarà. E in più la rete di alcuni sindaci. Naturalmente con un baricentro forte: il Pd».

Che obiettivo vi date?
«Penso che questa coalizione sia in tutti i collegi sopra il 30% e possa puntare altrove al 40%. Vedremo cosa farà il mondo di Campo progressista, per il quale le porte sono totalmente spalancate».

In questo ragionamento c’è anche Mdp?
«Hanno rotto loro e i loro leader non vogliono ricucire. La loro rottura si spiega solo con il risentimento. Però sottovalutano un dato: la seconda Repubblica era caratterizzata dall’idea che un leader fa un partito, poi se ne va e quel partito finisce. La vera novità del Pd è che non appartiene a un leader. Ci sarà anche tra dieci anni, ovunque saranno Renzi, Veltroni o Gentiloni. Questa comunità esiste, comunque. È quello che non hanno capito Bersani e D’Alema. E che, prima di loro, non aveva capito Rutelli. Loro se ne sono andati, il Pd c’è ancora. Ed è più forte di prima».

Più o meno dieci anni fa il Pd si presentò con un’ampia alleanza, dopo primarie di coalizione. Ci saranno anche questa volta?
«Con questa legge elettorale, il leader del Pd è per statuto candidato premier del Pd. Questo punto non lo mettiamo in discussione. Quello che deciderà la coalizione, purtroppo lo vedremo dopo. Non credo che ci saranno primarie di coalizione».

Pisapia ha detto che Gentiloni è un profilo altissimo. Non basterebbe schierare l’attuale premier per riunire il centrosinistra? Lei segretario, lui candidato a Chigi.
«La coalizione si fa sulle idee comuni, non sulla sistemazione di posti. Quanto a Paolo, condivido: è un profilo altissimo. E con buona pace di chi sperava che litigassimo lavoriamo insieme e bene. Continueremo così».

E farete quel governo con Berlusconi dopo le elezioni, di cui parlano in molti?
«Se con la coalizione facciamo il 40% governiamo da soli. Mica facile, eh, ma ci proviamo. Berlusconi vuole governare con Salvini, io voglio governare con il centrosinistra».

Sempre parlando di fiducia: l’avete messa sul Rosatellum, perché non sullo ius soli?
«Per me lo ius culturae arriverà. È scritto. Non so se in questa legislatura o nella prossima, questo non so dirlo. Però so una cosa: fame l’unica battaglia di principio paradossalmente non fa l’interesse dei soggetti a cui è rivolta. È un problema tattico, direi. Lo dice uno che ha ottenuto una legge sulle unioni civili tenendola bassa, e oggi si commuove quando incontra in aereo due ragazzi che, mano nella mano, mi dicono: “Stiamo partendo in viaggio di nozze”».

Delrio fa lo sciopero della fame mentre Boschi parla di rinvio della legge. Il governo non dovrebbe mostrarsi unito?
«Parliamo di due amici del cosiddetto Giglio magico, che hanno lavorato in tandem alla legge. Graziano è stato l’ispiratore da sindaco, Maria Elena ha siglato l’accordo di merito quando era ai rapporti col Parlamento. Graziano, che soffre per la legge – che la vive come battaglia di vita o di morte – a domanda risponde che è disposto a fare lo sciopero, gesto che rispetto ma che non farei. Maria Elena ha detto che se non ci dovessero essere i numeri in questo giro, si farà nel prossimo. Dov’è la differenza?».

Che il prossimo giro non è nella vostra disponibilità.
«Sveliamo un segreto: se fosse stata nella nostra disponibilità anche adesso, sarebbe già passata. Ma non lo è, non ancora almeno».

Con la fiducia passerebbe, ma il Pd non la chiederà?
«Deciderà Gentiloni. E qualsiasi cosa deciderà avrà il mio totale supporto e appoggio. Siamo una squadra, ve ne siete accorti?».

Nel decennale del Pd, può elencare tre cose incarnate oggi da questo partito?
«Primo: capacità di innovazione. La sinistra è futuro, o non è. Bisogna studiare nuove forme di protezione, scommettere sull’ambiente, seminare speranza. Secondo: se il M5S con il reddito di cittadinanza è il partito dell’assistenzialismo, se FI e la Lega sono quello della rendita, il Pd è il partito del lavoro. Abbiamo creato 978 mila posti di lavoro in tre anni grazie al JobsAct, i161% a tempo indeterminato. Abbiamo un compito storico: archiviare la filosofia del fiscal compact. E dobbiamo tornare ai parametri di Maastricht, con il deficit sotto il 3%, avremmo 40 miliardi di euro di riduzione delle tasse e di investimenti».
Si ferma, disegna cifre.
«Un milione di posti di lavoro…Ora direte che sono come Berlusconi, solo che il mio milione è vero!».

Il terzo punto?
«Il Pd ha l’idea dell’Italia come comunità. Non solo il Pil che cresce, ma diritti, cultura, educazione. Abbiamo riaperto musei a Reggio Calabria e Taranto, fatto ripartire Pompei, scommesso su Matera o Bagnoli, stanziato 1,7 miliardi sulla povertà».

A proposito del decennale: ci saranno assenti illustri, come Bersani e Prodi.
«Nessuno poteva certo aspettarsi che venisse Bersani. Quanto a Prodi, continuo a pensare che tenda o non tenda, il Pd sia la casa di Romano. Il mio augurio è che lui si senta sempre a casa. E se anche una singola scelta non è andata giù, il discorso dell’argine ai populisti vale per tutti noi, specie per chi come Prodi volle l’Ulivo come prima casa dei riformisti. Domani (oggi) festeggiamo con Walter Veltroni: a lui si deve l’intuizione originaria e sono felice che in teatro ci saranno vecchi dirigenti della nostra storia e nativi democratici».

Renzi, non pensa di aver perso la connessione sentimentale con la sinistra?
«Non credo. Ho perso il consenso di alcuni ex leader, ma i dati nei circoli più rossi delle primarie dicono che la base ex comunista del Pd nutre un affetto impressionante, persino immeritato, per il segretario. Le famiglie di origine del Pd, ormai, non si distinguono. Sull’immigrazione quello più di sinistra è stato Delrio, che viene dalla Margherita, mentre quello più di destra Minniti, che proviene dal Pci».

Le amministrative siciliane incombono: teme che destabilizzino la sua segreteria?
«No. Per scegliere il segretario del Pd ci vogliono le primarie nazionali, non le regionali siciliane. Le abbiamo fatte cinque mesi fa, sarebbe curioso se qualcuno volesse rifarle».

(*) La Repubblica,  17 ott 2017

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