Posso scrivere una volta tanto un articolo
argomentato, ma nella sostanza umorale, in certo modo senza speranza? - Il perché è presto detto. Sarò vecchio, sono
vecchio, ma mi sembra che la sinistra, in tutte le sue fazioni e frazioni, oggi
abbia perso il ben dell’intelletto. E siccome il centrodestra è, nella sua
maggioranza assoluta, xenofobo, e il Movimento cinque stelle “quasi”, e in più
composto di assoluti dilettanti allo sbando sino al suo primo candidato o al
sindaco di Roma, se la sinistra impazzisce non si può non cadere nello
sconforto, se si abbiano a cuore l’Italia, la gente che lavora e il futuro dei
concittadini.
Dal
4 dicembre 2016 tutti quanti, a sinistra, sembrano impegnati in una battaglia
che può solo finire con “la comune rovina delle classi in lotta” come dicevano
Marx e Engels nel “Manifesto del partito
comunista” del 1848 per indicare quelle situazioni storiche in cui perdono tutti. Tutto questo processo
degenerativo è iniziato proprio dal 4 dicembre 2016: una data a mio parere
davvero infausta nella storia d’Italia, in cui la minoranza di cosiddetta
sinistra ostile a Renzi è riuscita a dare un contributo decisivo alla sconfitta del maggior tentativo di garantire, in un
quadro democratico, la riforma dello Stato, dandoci un assetto monocamerale,
seppure “imperfetto”: in cui - comunque - solo la Camera dei deputati avrebbe
dato la fiducia ai governi e il Senato sarebbe diventato un terzo dell’attuale,
con compiti in gran parte di coordinamento delle Regioni; l’assetto ci avrebbe
dato governi stabili di legislatura chiaramente delineati dalla sera dello
scrutinio, combinandosi con una legge elettorale (Italicum) che prevedeva il
doppio turno e un premio di maggioranza che portava il partito vincitore al
secondo turno a ottenere il 55% dei deputati. Come ciascun sa la proposta fu
bocciata, nell’assetto istituzionale, dal 60% degli italiani, tanto che Renzi
si dimise subito da Presidente del Consiglio. Poco oltre la Corte Costituzionale
bocciò anche la richiamata legge elettorale, per la verità respingendo il
doppio turno non in assoluto, come tutti credono, ma solo perché esso non
precisava quale percentuale avrebbe dovuto avere al secondo turno il primo
partito (ad esempio il 40%, che pure era del tutto implicito nel secondo turno
stesso) per accedere al premio di maggioranza, e perché essendo il vecchio
Senato in vigore a causa del fallito referendum renziano, l’Italicum avrebbe dato
un assetto del tutto contraddittorio tra Camera e Senato.
Dopo
di che è iniziato l’impazzimento generale della sinistra, compresa quella di
chi, come Renzi, a mio parere aveva governato piuttosto bene per tre anni e
proposto una riforma dello Stato certo imperfetta, ma che aveva le cose buone
di cui ho detto (doppio turno, premio di maggioranza e fiducia ai governi data
dalla sola Camera). L’obiettivo è stato mancato per molte ragioni, che
stranamente Renzi non ha mai valutato a fondo, neanche nel suo libro “Avanti. Perché l’Italia non si ferma” (Feltrinelli,
2017), che ho letto con passione e cura, e che su ciò non dice quasi niente,
con atteggiamento che volenti o nolenti richiama il concetto freudiano di rimozione. Probabilmente il suo commento
più sincero è stato quello che gli è stato attribuito nella notte degli
scrutini del 4 dicembre 2016: “Non credevo che gli italiani mi odiassero così tanto”
(come se avessero fatto dispetto a “Lui”). Il referendum era stato troppo
personalizzato, da lui come dagli avversari, come se si fosse trattato di dire
sì o no al sistema Renzi. Invece il no esprimeva da un lato l’immensa protesta
di un Paese in crisi economica e occupazionale da sei anni, che colpiva un
giovane su tre, spargendo in giro un clima furibondo contro il Governo in
carica, quale fosse; dall’altro il no esprimeva il rifiuto, alimentato da una
campagna di stampa e televisiva senza precedenti, dell’”uomo solo al comando”,
insomma del presidenzialismo (che pure era appena un cauto premierato,
scaturente dal doppio turno): un rifiuto totalmente infondato nei contenuti di riforma,
ma comodissimo come babau da usare contro Renzi e il suo PD. Già in tale
campagna contro Renzi, che almeno al 50% era dei suoi oppositori nel PD (“se lo
dicono pure loro sarà vero”, dicevano in tanti), c’erano i prodromi della
congiura dei pazzi di cui ho detto. Infatti il M5S sarebbe stato il più
avvantaggiato di tutti da Italicum e riforme connesse perché non vuole fare
alleanze (e quel sistema premiava la lista vincente) e perché al famoso
ballottaggio sarebbe arrivato, col PD, il M5S stesso; ma questo M5S, per cieca faziosità,
si opponeva. Pure Forza Italia avrebbe dovuto sostenere una riforma che
Berlusconi aveva scritto con Renzi, sino al famoso Patto del Nazareno, e che
comunque andava - tramite un sostanziale premierato e col doppio turno - nella
direzione del modello francese, già proposto anni prima proprio da Berlusconi
stesso, sia pure allora spingendosi sino al presidenzialismo. Non parliamo poi
della Lega e di Fratelli d’Italia, che in un quadro bipolare, imposto dal
doppio turno, avrebbero potuto costringere Forza Italia e Berlusconi a
scegliere tra destra e sinistra, rinunciando ai due forni dell’alleanza cari a
chi vuol stare comunque in sella e spacciarsi per “il centro”. Invece erano
contro. Purtroppo il reale non è razionale, anche se “in questa follia c’è un
significato”, come diceva lo zio assassino parlando dei comportamenti strani,
in parte voluti e in parte no, del nipote Amleto.
Il vero obiettivo era ed è far fuori Renzi, perché nell’era della “democrazia
del leader” investigata da Mauro Calise in un suo perspicuo libretto (Laterza,
2016), far fuori il protagonista del primo partito era una priorità. La follia
latente tra le forze politiche si è scatenata in seguito. Intanto la frazione
del PD che più aveva lavorato per liquidare la riforma di Renzi ha fatto una
sua scissione. Da molti osservatori è connessa a incompatibilità d’idee e
programmi. Ma è una bufala. Lo storico che andrà a vedere “chi ha messo” le
leggi sul lavoro precario oppure chi ha reso possibile il governo Monti e la
riforma delle pensioni della Fornero che manda la gente a riposo a 67 anni, o chi
abbia fatto le più importanti liberalizzazioni in questo Paese, lo vedrà
agevolmente. Renzi ha semplicemente calamitato l’odio che i comunisti e i
post-comunisti, ma in parte anche quei cattolici di sinistra attratti dal
compromesso storico che sono sempre stati vicini a loro, hanno sempre avuto per
chi sostenesse l’alternativa secca tra maggioranze o partiti contrapposti, e
ancor più per chi nel loro partito non si rassegnasse a quel perenne gioco di
compromesso interno che portava sempre a non-decisioni privilegiando l’essere tutti
insieme rispetto alle soluzioni nette. Insomma, Renzi è stato odiato
esattamente come era stato fatto, se non vogliamo andare troppo lontano, prima
con Saragat e poi con Craxi.
Se dovessimo fare un ragionamento basato sulla sola “politica” dovremmo
dire che la scissione del PD che ha dato vita al Movimento Democratico
Progressista è la più folle di tutta la storia della sinistra. Ho dedicato
moltissimi anni della mia vita alla storia delle idee del socialismo italiano
dal 1879 ai giorni nostri e alla storia del comunismo da Bordiga e Gramsci, ma
anche internazionale, alla fine del XX secolo, e posso dire con tranquilla
certezza che una scissione assurda come quella del MDP non è mai stata fatta.
Nel ’21 quelli che hanno lasciato lo PSI volevano davvero fare una rivoluzione
“come la Russia”, cui restarono poi legati “in modo ferreo” per sessant’anni,
con qualche ripresa d’amore all’arrivo di Gorbaciov, e quindi sino al crollo
dell’URSS. Saragat, che ruppe con la maggioranza dei socialisti nel 1947, lo
fece per rifiuto dello stalinismo, spinto sino alle liste comuni coi comunisti
nel 1948. Persino il PSIUP, che ruppe lo PSI tra dicembre 1963 e gennaio 1964, lo
fece rifiutando un patto Moro-Nenni epocale comportante l’anticomunismo a tutti
i livelli (la “delimitazione della maggioranza”, sino al 1975 in quasi tutti
gli stessi enti locali). Persino l’idiota rottura dello PSU, dei
socialdemocratici riunificatisi coi socialisti nel ’66, da parte dei
saragattiani nel 1969, era ripulsa di una linea di superamento
dell’anticomunismo, nelle alleanze, promossa dal segretario Francesco De
Martino. Ma la scissione del 2017 di MDP è la prima fatta contro un uomo, per
incompatibilità di carattere, come si dice in tante cause di divorzio. Non dico
che il rifiuto della personalizzazione sia stato immotivato, nel senso che
Renzi ha una limitata capacità di coinvolgere l’avversario interno di ieri,
dopo averlo sconfitto, che stupisce persino. (Se no in Europa al posto della
Mogherini avrebbe mandato D’Alema, e si sarebbe dato da fare per coinvolgere
pure Bersani, ben inteso “dopo”
averli sconfitti in primarie e congressi). Ma fare per questo una scissione,
oltre a tutto a pochi mesi da elezioni regionali e nazionali decisive, e anzi
contrapporre lista a lista in Sicilia, è stato un comportamento folle. Ma
la”logica” di quella follia è quella di far furi Renzi per poi ricomporre
eventualmente l’unità a sinistra. Questo ha poi portato il 70% degli elettori
del PD, me compreso, a votarlo di nuovo come segretario e candidato premier nel
2017. A me, comunque, piace sempre provare a mettermi dal punto di vista altrui
cercando di capire. Con una bella dose di cinismo e pelo nello stomaco - come
quello dei tempi del pensiero “liquido” (o liquidato), che spesso fa pure un
po’ schifo, in cui ci troviamo - si potrebbe anche pensare che liquidare Renzi
per poi ridiscutere tutto l’assetto della sinistra sia una tattica come
un’altra (in effetti è quel che vogliono fare gli antirenziani usciti dal PD).
Se non fosse che liquidato Renzi - ossia il PD di Renzi, cioè il PD che c’è - abbiamo
la matematica certezza che vinca il centrodestra; e non un centrodestra
qualsiasi, ma un centrodestra che mettendo insieme Lega e Fratelli d’Italia,
anche prendendo sul serio le profferte centriste di Berlusconi (per quanto
improbabilissime) sarebbe un centrodestra in salsa austriaca, ungherese e ceca,
e americana: sarebbe il “lepenismo” o “trumpismo” in Italia; e non opporsi con
tutti i mezzi a questa molto probabile forma incombente di “lepenismo agli
spagnetti” è pazzesco, per non dire altro.
Oltre all’odio per Renzi, c’è un’ipotesi più concreta. Il PD, privato
dei dirigenti della sua sinistra (per colpa loro), appare di centro, anche se
giustamente Renzi lo nega con tutte le sue forze (ma è un fatto che ora la sua
sinistra è quantomeno sbilanciata al centro). Così cresce la possibilità
teorica di una forza di sinistra che potrebbe persino essere del 10% a certe
condizioni. La condizione per esserlo è quella di essere sì polemica col PD che
c’è, cioè con il PD di Renzi e con il governo renziano di Gentiloni, ma come
alleata del PD stesso: anche in attesa di ricomporre tutta la sinistra, esterna
o interna al PD. Ma per fare una roba del genere si dovrebbe superare l’odio
per la casa-madre abbandonata che accompagna tutte le scissioni e, soprattutto,
l’odio per una sinistra né comunista né cattocomunista. Questo però gli
scissionisti non sono capaci di farlo. Anche perché pur non credendo più per
niente nel micromarxismo da scuole di partito delle Frattocchie succhiato da
piccoli, hanno seguitato a ragionare come se il ruolo del leader fosse una cosa
relativa. Forse che Brecht non diceva: “Cesare conquistò le Gallie. Non c’era
con lui nemmeno un cuoco?”. Forse non sappiamo, da Engels a Plechanow, che il
ruolo della personalità nella storia è relativo? Allora, per D’Alema e compagni,
un Roberto Speranza vale un Renzi (o più di Renzi), un Orlando può succedere a
Renzi nel PD, e può pure dirigere la baracca alla sinistra del PD meglio del
prestigioso ex sindaco di Milano, Giuliano Pisapia, tanto più con un ispiratore
doc come lo stesso D’Alema. Invece il forte leader senza le masse o iscritti o
elettori certo non fa nulla, ma anche le masse o aderenti o simpatizzanti senza
leader non vanno da nessuna parte. Pisapia è un leader notevole della sinistra
lombarda, evolutasi da Filippo Turati a questo ex sindaco di Milano: è uno che
pur mirando alla sinistra di alternativa era stato discorde da Bertinotti sul
far cadere Prodi nel 2006 e aveva detto di sì alla riforma renziana dello Stato
del 2016. In pratica Pisapia, l’ex sindaco di Milano, vorrebbe costituire una
forza neosocialista alla sinistra del PD, ma
alleata “determinante” con esso (chiunque lo impersoni). Quelli del MDP,
per i quali l’odio per Renzi e perciò contro il PDr (renziano) è il primo
comandamento, sono così accecati politicamente da dire “niet” a quel disegno di
Pisapia, forse rovinando pure questo progetto neosocialista e comunque
condannandosi a essere il solito gruppo oscillante tra il 3 e 5% che riemerge
come un residuo dai tempi del PSIUP (1964/1972) a quelli di Rifondazione
Comunista, in modo da impersonare sempre, però con una piccola pattuglia di
compagni del no, l’archetipo frusto e sterile del massimalismo italiano. Anche
a costo di far vincere una destra populista.
Purtroppo tutto ciò è favorito dal Renzi bis, il Renzi in seconda versione,
dopo il ritorno in campo come segretario e quasi certo candidato premier del
2017: un Renzi molto diverso a mio parere da quello del 2013/2016. Questi
sembra credere che la sola via che resta a lui e al PD sia una specie di
ritorno alla prima repubblica, basata sulla proporzionale e sui governi
combinati dopo le elezioni: assetto che fa un funerale di terza classe a tutta
la sinistra e centro che dal 1993 avevano lottato per il maggioritario e il
sistema dell’alternativa, da Occhetto e Ciampi a Prodi e Arturo Parisi. Sembra
tornare il Grande Centro, se non proprio la Democrazia Cristiana, anche se
forse non lo vorrebbe neanche Renzi, ma lì porta la rotta. Io il Renzi l’ho
votato come segretario – nelle primarie, poiché non mi sono mai iscritto al PD
– tutte le volte, anche pochi mesi fa. Ma nel 2017 a mio parere ha fatto molti
errori (e gravi). La cosa migliore che ha fatto sino alla presentazione della
nuova legge elettorale (il Rosatellum due) è stata il costante sostegno del
governo Gentiloni come esecutivo in perfetta continuità con i mille giorni del
suo Governo: cosa del tutto giustificata con un esecutivo che ha portato -
raccogliendo quel che lui stesso aveva seminato col Jobs Act - circa un milione
di posti di lavoro, metà a tempo indeterminato, e un’indubbia ripresa economica,
e che inoltre ha bloccato il flusso degli immigrati, e potrebbe ancora riuscire
ad approvare il cosiddetto jus soli, che comunque renderà cittadini italiani
tanti immigrati nati qui e che abbiano compiuto un ciclo scolastico nel Paese
(dopo aver dato la legge dei nuovi diritti civili). Ma il modo in cui Renzi ha
affrontato la questione elettorale è stato tardivo, ondivago e forzato; e
quello in cui ha affrontato la questione del ricambio del vertice della Banca
d’Italia in questi giorni ancora peggio.
Sulla riforma elettorale ha a lungo assunto la posizione attendista,
mentre restava il primo nodo da sciogliere. L’orientamento renziano per molti
mesi è stato quello del demandare alla Commissione Affari Costituzionali e al
Parlamento lo scioglimento del nodo della nuova legge elettorale perché il PD “aveva
già dato”, e la sua linea era stata battuta al referendum del 4 dicembre 2016.
Ma sin dal fallimento della Bicamerale d’Alema di tanti anni fa ogni nuova
legge elettorale o roba del genere è sempre stata iniziativa della maggioranza,
e approvata a maggioranza (giocoforza), per cui tergiversare non aveva senso, assumendo la posizione di quel
tale che diceva “Io non c’ero e se c’ero dormivo”. Poi è cominciata una vera
girandola di proposte affacciate e subito dopo ritirate senza fare alcuna
battaglia parlamentare: perché – si diceva - “non accettate dagli altri”; però questi
altri, salvo che in un solo caso, non erano mai messi alla prova dell’Aula: il
Mattarellum (tre quarti di maggioritario e uno di proporzionale), il Rosatellum
uno (metà maggioritario e metà proporzionale),
il “Tedeschellum” (proporzionale puro con sbarramento al 5% per entrare
in Parlamento) e infine il Rosatellum due (un terzo di maggioritario e due
terzi di proporzionale, per Camera e Senato). Quest’ultimo risultato è passato
alla Camera ponendo due voti di fiducia, con procedura assolutamente inusuale
perché porre due voti di fiducia per blindare i principali articoli, pur
lasciando un voto segreto finale, è stato molto discutibile politicamente
perché il legare una legge elettorale al sì o no al governo (voto di fiducia)
schiacciava troppo la legge elettorale sul governo stesso, e comunque forzava
la volontà dei deputati su una materia come quella delle regole del gioco del
sistema, su cui la libertà del deputato dovrebbe essere massima. Può essere
vero che al punto in cui erano giunte le cose non ci fosse altra strada. Ma
intanto si poteva evitare di lasciar passare nove o dieci mesi prima di
chiudere il sacco, oltre a tutto a ridosso di elezioni; in secondo luogo non so
che senso abbia il fare una legge che non garantisce in nessun modo la governabilità
del Paese, come tutti i sondaggi già dicono. Se dopo le elezioni avremo un
governo istituzionale, cioè voluto dal Presidente della Repubblica tramite una
personalità che attragga voti che andranno necessariamente dal PD a Forza
Italia e alla Lega più qualche cespuglio, sarà un minestrone poco gradito,
l’ennesimo governo non scelto dagli italiani, il che andrà tutto a vantaggio
del M5S; e non è neanche da escludere che il M5S sia il primo partito e che
dopo si accordi - pur negandolo ora - con Lega e Fratelli d’Italia dandoci il
vero governo dei populisti, con scenari niente affatto rassicuranti: né per gli
immigrati né per lo spread e gli investimenti né per l’Unione Europea e per la
Banca Centrale Europea.
A
questo quadro, già di per sé fosco – tanto più che le manovre speculative
contro un’Italia nuovamente ingovernabile sono assolutamente prevedibili - si è
aggiunta l’iniziativa degli ultimi giorni quando i renziani, alla Camera, hanno
presentato un documento di sostanziale sfiducia nella gestione della Banca
d’Italia e nel suo governatore, Ignazio Visco. In tal caso Renzi è parso
impazzito politicamente (e mi spiace molto perché per me è stato una grande
speranza sino al 4 dicembre e ancora pochi mesi fa, tanto che spero ancora in
un suo colpo d’ala positivo, che corregga la rovinosa rotta). Se Renzi avesse
fatto il suo attacco alla gestione della Banca d’Italia in una sede
extraistituzionale, ad esempio nella Direzione del PD oppure nel discorso
recente per i dieci anni del PD stesso, ci sarebbe stato ben poco da dire. Ma
il pronunciamento d’opinione in una sede istituzionale come il Parlamento, da
parte del primo partito di governo, è altra cosa. Il blitz – non sappiamo se
più folle o più disperato - è sbalorditivo perché pare non ne sapesse niente
neanche il Governo (o almeno molti ministri). Ha sommamente irritato il
Presidente della Repubblica, cui spetta la nomina del Presidente della Banca
d’Italia, su proposta del Capo del Governo. Ha contraddetto il salvatore dei
nostri conti, il presidente della Banca Centrale Europea, Draghi, che è per
Visco. E’ stato fatto senza accordo preventivo col ministro del Tesoro, Padoan,
che avrebbe dovuto essere il più informato. E’ stato contraddetto dal
capogruppo al Senato, Zanda. E dall’ex Presidente della Repubblica, Napolitano.
E’ stato smentito pure da Walter Veltroni, il solo tra i grandi fondatori del
PD presente al decennale del Partito e tornato in pista pochi giorni fa. Mosse
del genere, che come minimo avrebbero dovuto essere discusse col Tesoro e col
Presidente della Repubblica, sembrano rivelare
o un dilettantismo assoluto oppure uno stato di disperazione politica, di chi
si senta pressoché sbaragliato, stretto da ogni lato, e giochi il tutto per
tutto, però troppo cinicamente rispetto alle urgenze del Paese. Non so se con
tali prodromi il PD potrà far passare al Senato il Rosatellum due, anche se
sino a ieri pareva certo. Questo Rosatellum due ha tanti difetti (primo tra
tutti quello di essere un sistema prevalentemente proporzionale, garante di
nessuna maggioranza), ma ha o avrebbe almeno il pregio di spingere, nel terzo
dei collegi di tipo maggioritario, a unioni della sinistra o comunque tendenzialmente
tali; e, inoltre, il pregio di uniformare totalmente, dopo il 1948, i sistemi
elettorali di Camera e Senato. Ma con questi chiari di luna chi scommetterebbe
che almeno questo “sfilatino” di nuova legge elettorale passi?
Sembra davvero la congiura dei pazzi, in specie a sinistra: congiura che
spiana un’autostrada, dalla Sicilia a Roma, alla vittoria della destra, o
comunque di un populismo antisistemico che può solo portare rovina al Paese. Mi
spiace moltissimo, ma forse sarò costretto ad occuparmi, per molto tempo,
d’altro, perché potremmo essere, a causa di tutti questi matti compagni nostri,
alla vigilia di una disfatta epocale della sinistra. Ma speriamo che piuttosto
crepi l’astrologo, anche se sono io. Solo politicamente però (non facciamo
scherzi).
(franco.livorsi@alice.it)