«Sono
un senza partito? »
[Questo articolo, è stato scritto poco meno di due anni prima che
venisse fondato, il 14 ottobre di dieci anni fa il Partito Democratico. L’ho
ritrovato per caso, rovistando tra i miei ricordi, mentre è in corso il
dibattito sul PD e, più in generale, sulle prospettive della sinistra italiana,
anche in vista delle elezioni regionali in Sicilia e delle elezioni politiche
che si terranno nella primavera del prossimo anno. Il testo di Keynes dal quale
ho tratto le citazioni sotto riportate, recentemente riedito da Castelvecchi, ma
più ancora gli interrogativi che la sua lettura suggerisce, appaiono di così
rilevante attualità (è sufficiente attualizzare i nomi dei personaggi) al punto
da indurmi a chiedere di ripubblicare quel mio contributo, in un momento così
delicato che mi fa rimpiangere gli anni in cui sapevo con certezza per quale
partito avrei votato.]
Dedicato
alla memoria di Luciano Stella
e a tutti coloro che gli furono amici.
Massimo Cacciari,
nel suo pregevole intervento sul “partito che non c’è” (e temo, purtroppo, sia
molto difficile che possa vedere la luce anche dopo le imminenti elezioni
politiche, qualunque sia l’esisto delle stesse), ha messo l’accento su una
questione che ritengo cruciale: quella dell’insofferenza del potere
economico-finanziario “nei confronti di ogni norma e di ogni controllo”. In
pratica il rifiuto di quel liberalismo, fondato sul sistema delle regole e
sull’etica della responsabilità individuale (non a caso cita Weber e Keynes,
fautori del “salvare il capitalismo da se stesso”) che non va confuso con il
liberismo del mercato senza regole. Stimolato dal saggio di Cacciari, sono
andato a rileggermi, nell’anno che celebra il settantesimo anniversario della
pubblicazione della General Theory e il cinquantesimo dalla sua morte,
il testo di una Conferenza, tenuta da John Maynard Keynes alla Liberal
Summer School di Cambridge nel 1925, ristampato con il titolo “Sono un
liberale?” in “Esortazioni e profezie”, edito da Il Saggiatore, Milano 1968
(pagine 242-52). Ne è uscito un gioco a metà strada tra l’ironico e il
sarcastico che propongo a tutti coloro che, come me, non temono di “pronunciare
le spregevoli parole «sono un senza partito»”.
“Quando un individuo è,
costituzionalmente, animale politico, gli è troppo duro non appartenere ad un
partito: si sentirebbe solo, abbandonato, inutile. Se il partito è forte, con un
programma ed un’ideologia a lui congeniali, capaci contemporaneamente di
soddisfare l’istinto gregario, pratico e intellettuale, diventa una cosa
bellissima, vale la pena di dedicargli una grossa sottoscrizione e tutto il
tempo disponibile. (…) E se non riesce ad accasarsi in base al principio della
congenialità, dovrà procedere per eliminazioni successive ed andare al partito
che gli dispiace meno: piuttosto che rimanere solo e abbandonato”.
Come incipit,
niente male, devo dire. Dovendo scegliere, oggi, di votare per
Bertinotti, D’Alema e Marini (che hanno affondato il primo Governo Prodi), per
non parlare dei Rutelli, dei Mastella, dei Di Pietro, dei Bobo Craxi e del duo
Boselli-Pannella (che fanno a gara a chi affonda per primo il leader della
coalizione uscito alla grande dalla massiccia designazione popolare quale
sfidante dell’«affarista di origini buie»), vale a dire per coloro che
dovrebbero essere domani il “partito che non c’è”, anziché decidere di
affidarmi ai bussolotti ho cercato conforto nella rilettura del pensiero
keynesiano.
“Come potrei acconciarmi ad essere un
conservatore?”, si chiede il Maestro. E si risponde: “E’ un partito che
non mi dà né da bere né da mangiare, cioè né interesse intellettuale né
consolazione morale (…) Non ha prospettive, non soddisfa alcun ideale, non si
conforma ad alcun modello intellettuale; non riesce neppure ad evitare i rischi
o a salvare dai vandali quel tanto di civiltà che abbiamo raggiunto”.
“Dovrei, dunque, iscrivermi al partito laburista? Di primo acchito è più
seducente – prosegue Keynes –, ma visto da vicino presenta grosse
difficoltà. Tanto per cominciare, è un partito di classe, e di una classe che
non è la mia. (…) Ma soprattutto, io non credo che gli intellettuali
riusciranno mai ad esercitare un controllo sul partito laburista: troppe sono
le cose che continueranno ad essere decise da quelli che non sanno assolutamente
quel che si dicono (corsivo nell’originale: che stesse pensando a Pecoraro
Scanio?); e se, cosa non improbabile, il controllo del partito dovesse
cadere nelle mani di un gruppo autocratico, sarebbe esercitato negli interessi
dell’estrema sinistra: l’ala del partito che definirei Partito della catastrofe
(che avesse saputo dell’intenzione di Caruso, leader dei no global
napoletani, di espropriare la barca di D’Alema? O della proposta dei
rifondaroli genovesi di requisire la terza casa da assegnare ai senza tetto?).
Sempre sulla base delle eliminazioni successive – giunge alla conclusione
Keynes –, sono propenso a credere che il partito liberale sia ancora lo
strumento migliore di progresso: se solo avesse una guida forte ed il programma
giusto”.
Giusto. Passando poi, dall’ottica negativa
della eliminazione a quella positiva, che consiste nel considerare il problema
del partito “come una scelta (…) fatta in conseguenza di una congenialità
anziché di un rifiuto”, egli sottolinea come, anche in questo caso, “si
prova un senso di delusione, a qualsiasi partito ci si rivolga, sia come linea
politica sia come uomini. (…) La libertà civile e religiosa, il
suffragio universale, (…), l’imposizione fiscale fortemente progressiva sul
reddito e sul patrimonio (sic! Non la tentazione, oggi di gran moda,
dell’aliquota unica!), l’impiego generoso del denaro pubblico per le riforme
sociali (vale a dire l’assicurazione sociale per malattia, disoccupazione e
vecchiaia), l’istruzione, l’edilizia, l’igiene e la sanità, tutte cause per cui
il partito liberale ha combattuto (sic! Non il pensiero unico della
presenza minimale dello stato!), sono già state vinte o sono superate o sono
divenute programma comune dei tre partiti”. (…) Il partito conservatore avrà
sempre il suo spazio come rifugio dei duri-a-morire di estrema destra (i
Rauti? I Borghezio? i Calderoli?), ma dal punto di vista costruttivo non è
in acque migliori del partito liberale. Spesso ciò che divide i giovani
conservatori progressisti dal liberale medio è più un fatto accidentale, di
temperamento e di vecchie amistà, che non una reale divergenza di prassi
politica o di ideali. Le vecchie grida di battaglia sono smorzate o spente. La
Chiesa, l’aristocrazia, gli interessi terrieri, i diritti di proprietà, le
glorie dell’impero, l’orgoglio di casta, perfino la birra e l’whisky non
saranno mai più le forze guida della politica britannica (ma ottantuno anni
dopo lo saranno ancora per quella italiana!).
Il partito conservatore dovrebbe preoccuparsi di elaborare una versione del
capitalismo individualistico consona al mutare, in senso progressivo, delle
circostanze. La difficoltà sta nel fatto che gli elementi di guida capitalisti
nella City (i Fazio? i Fiorani? i “furbetti del quartierino”?) e
in parlamento non sono capaci di distinguere i nuovi strumenti e le misure per
salvare il capitalismo da quello che loro chiamano bolscevismo (che
pensasse ai sodali del Cavaliere?).
Il capitalismo individualistico è minato,
secondo Keynes, dal “seme della decadenza intellettuale” rappresentato
dal “principio ereditario nella trasmissione della ricchezza e del controllo
d’impresa” (forse che l’abolizione delle imposte di successione siano un
tentativo di accelerarne la fine?) e, inoltre, “il partito conservatore avrà
sempre un’ala estremista di destra”.
Per contro, il partito laburista:
“sarà sempre affiancato dal Partito della
catastrofe: giacobini, comunisti, bolscevichi, comunque vogliate chiamarli.
Questo è il partito che odia e disprezza le istituzioni esistenti, convinto che
il solo rovesciarle sarebbe già un bene o, quanto meno, che rovesciarle sia la
premessa necessaria per qualcosa di buono. Un partito del genere può fiorire
soltanto in un’atmosfera di oppressione sociale, oppure come reazione ad un
regime di estrema destra. (…) Io credo che questa segreta simpatia per una
politica di catastrofe sia il tarlo che minaccia di mandare a fondo qualsiasi
barca possa mettere in mare il partito laburista. Malevolenza, invidia, odio
verso chi detiene ricchezza e potere (perfino tra di loro) (ne sa qualcosa il “povero” Consorte!) male si
sposano con l’ideale di costruire una vera repubblica sociale”.
Detto ciò, passa a domandarsi che cosa
dovrebbe essere il liberalismo (che nella nostra metafora è il “partito che non
c’è”).
“Da una parte il conservatorismo è
un’entità ben definita, con una destra di duri-a-morire da cui gli viene forza
e passione (la Mussolini?), ed una sinistra che si potrebbe definire
liberoscambisti conservatori del «tipo migliore», istruiti, umani, da cui
riceve in prestito rispettabilità morale e intellettuale (i Casini? i
Follini?). Dall’altra parte anche il laburismo è ben definito, con una
sinistra di «catastrofici» da cui gli viene forza e passione (i Bertinotti?
i Diliberto? i verdi di Pecoraro Scanio?), ed una destra che si potrebbe
definire di riformisti socialisti del «tipo migliore», istruiti, umani da cui
riceve in prestito rispettabilità morale e intellettuale” (gli Amato? i
Morando?).
Esiste uno spazio disponibile fra i due? (il Grande Centro? il Partito
Democratico?) O non dovremmo piuttosto decidere, a questo punto, di
appartenere al «tipo migliore» di liberoscambisti conservatori oppure al
«tipo migliore» di riformisti socialisti, e farla finita? Forse questa sarà la
nostra fine. Ma ritengo ci sia spazio per un partito estraneo alla divisione di
classi e libero, di fronte al compito di costruire il futuro, dall’influenza
sia dei duri-a-morire sia dei «catastrofici» che distruggeranno reciprocamente
l’opera loro. Permettetemi di delineare, nel modo più succinto, quello che
ritengo siano la filosofia e la prassi di un tale partito”.
Scriveva Keynes nel 1925:
“Tanto per cominciare tale partito
dovrebbe liberarsi dal ciarpame del passato (giacché) non vi è spazio oggi (se non nell’ala sinistra del partito
conservatore) per quanti rimangono legati all’individualismo vecchio stile e al
laissez-faire integrale (oggi diremmo del liberismo ideologico di
scuola walrasiana). Dico questo, non perché ritenga che tali dottrine
fossero sbagliate nelle condizioni che le hanno generate (vorrei aver
appartenuto a quel partito, se fossi nato cent’anni prima), ma perché non sono
più applicabili alle condizioni moderne (capito miei Prodi?). Il nostro
programma “non deve occuparsi dei problemi storici del liberalismo, ma delle
questioni (…) che hanno un interesse vivo, un’importanza pregnante, oggi, (accettando)
il rischio dell’impopolarità e della derisione. Solo allora i nostri dibattiti
attireranno le folle e forme nuove si trasfonderanno nel nostro organismo”.
Una volta
suddivisi i problemi dell’Inghilterra di allora sotto cinque titoli: a)
problemi della pace; b) problemi di governo; c) problemi sessuali; d) problemi
dell’alcolismo e della droga; e) problemi economici”, Keynes li passa in
rassegna ad uno ad uno.
Si dichiara “pacifista ad oltranza”;
si schiera in favore “del decentramento e della devoluzione di
responsabilità ovunque possibile”; considera medioevale “lo stato della
legge e dei principi” in materia di “controllo delle nascite e uso degli
anticoncezionali, legislazione matrimoniale, trattamento giuridico dei reati
sessuali e delle anormalità sessuali, posizione economica delle donne,
organizzazione economica della famiglia”. Postosi poi l’interrogativo “sostanziale”:
“Fino a che punto si può concedere, ad una umanità annoiata e sofferente,
un’evasione temporanea, lo stimolo eccitante, la possibilità di un’esperienza
diversa?”, ritiene insufficiente pensare di risolvere il problema dei
tossicomani (accomunati ai giocatori d’azzardo) con il proibizionismo. Infine,
richiamata l’opinione di chi riteneva di essere ormai entrati nel periodo della
stabilizzazione, «la vera alternativa al comunismo di Marx», ne
preconizza le degenerazioni, vale a dire, “il fascismo da una parte, il
bolscevismo dall’altra”: degenerazioni alle quali “Il socialismo non
offre una via di mezzo perché è nato anch’esso dai presupposti dell’era
dell’abbondanza, come l’individualismo del laissez-faire e il libero
giuoco delle forze economiche, di fronte a cui gli editorialisti della City,
ciechi e truculenti, si inchinano ancora religiosamente: unici, forse, fra
tutti gli uomini”.
“La transizione dall’anarchia economica – conclude
Keynes – ad un regime che tenda coscientemente al controllo e alla direzione
delle forze economiche nell’interesse della giustizia e della stabilità
sociale, presenterà difficoltà enormi, sia tecniche sia politiche. Avanzo,
tuttavia, l’ipotesi che il vero destino del nuovo liberalismo consista nel
ricercarne la soluzione”. (…) Per metà, almeno, il libro della saggezza
dei nostri statisti si basa su teorie vere un tempo, in tutto o in parte, ma
che diventano di giorno in giorno meno vere. Dobbiamo inventare una nuova
saggezza per una nuova epoca. E nel frattempo, se vogliamo fare qualcosa di
buono dobbiamo agitarci, mostrarci eterodossi, pericolosi, disobbedienti ai
nostri progenitori”.
Infine, per quanto riguarda il programma:
“va costruito nei particolari giorno per
giorno, sotto la pressione e lo stimolo dei fatti concreti; è inutile definirlo
a priori se non nei suoi termini più generali. Ma se il partito liberale vuole
recuperare le forze, deve avere una posizione, una filosofia, una direttiva”.
John Maynard Keynes mi ha convinto: mi
iscrivo al suo “partito liberale”.
Alessandria,
14 febbraio 2006