Il futuro del centro-sinistra
La Rivoluzione d'Ottobre di Lenin cent’anni dopo
Franco Livorsi
Sin da quando avevo vent’anni,
all’inizio degli anni Sessanta, non c’era socialista di sinistra un poco colto
che non dicesse - né dirigente comunista intelligente che non sussurrasse - che
il regime sovietico era una forma di socialismo “degenerata”. Non uno dei miei
amici di quel tempo lontano rifiutava la tesi di Trockij che nel 1936, nel
libro “La rivoluzione tradita”, aveva
appunto detto che il regime sovietico era una “dittatura del proletariato
degenerata”: dittatura del proletariato “vera”
perché la proprietà era in gran parte pubblica, “di stato”, ossia di tutti; ma
degenerata perché una “casta” - non una classe, ma una ramificata consorteria
burocratica e poliziesca - aveva scippato la
gestione del potere effettivo al proletariato, più o meno come un cattivo
tutore o patrigno con un erede minorenne. Ma non essendoci più, o essendo molto
ridotta, appunto la proprietà privata, tutti costoro - a partire proprio da
“quel Trockij”- ritenevano che o tramite il ritorno al “vero” e “libero” potere
dei consigli elettivi dei lavoratori (soviet) oppure tramite altra forma di
democratizzazione dello Stato, il malato “Stato operaio” avrebbe potuto
guarire, e risorgere come potere diretto dei lavoratori e cittadini, quale
aveva cercato in tutti i modi di essere, all’ombra del governo comunista, nei
primi anni a partire dalla Rivoluzione d’ottobre del 1917, segnata realmente dal
potere effettivo degli operai e contadini, da nessuno allora coartato né
coartabile. Invece “il malato” morì prima che la classe operaia o il popolo
lavoratore potessero riprendersi la
sovranità. Crollò infatti da Berlino est a Vladivostock, tra il 1989
(caduta del muro di Berlino) e il 1991 (crollo dell’URSS). Cos’era accaduto?
Al proposito va ricordato che la Russia, tanto più come Unione Sovietica
- comprensiva di aree molto arretrate a nord - era un mondo eurasiatico.
C’erano sì, già alla fine del XIX secolo, tendenze capitalistiche ormai egemoni
(come Lenin sosteneva nel suo primo grande libro, Lo sviluppo del capitalismo in Russia nel 1899), ma circondate da
un mare di arretratezza, economica e ancor più politica (tanto che ivi
sussisteva l’ultima monarchia assolutista in un grande Stato del mondo). Per
svolgere come socialisti marxisti un ruolo quantomeno dirigente, in un contesto
economicamente arretrato e dominato dall’assolutismo d’ancien régime, secondo
Lenin sarebbe stato necessario un tipo di partito socialista alquanto diverso
da quello d’opinione, e in primis elettorale, proprio dell’Occidente. Ci
sarebbe voluto un partito socialista capillarmente presente tra le masse, ma
molto saldo: tanto più che la classe operaia, ritenuta da tutti i marxisti
l’anima stessa del socialismo, in Russia era scarsa e arretrata. Da questa
“condizione di fatto” Lenin ricavò però l’idea - sommamente “eretica” in campo
marxista - che “il socialismo” non fosse già “implicito”, latente, in fieri,
nel movimento conflittuale spontaneo degli operai, come si era sempre creduto
da Marx in poi, bensì una concezione “scientifica” e rivoluzionaria del mondo
(il marxismo) portata ai lavoratori solo “dall’esterno”, da un’avanguardia cosciente, o pretesa tale, che la elaborava, la
precisava, la sviluppava, la applicava, la adattava, e naturalmente la
comprendeva, e che per i suoi ideali viveva: una minoranza detta appunto “avanguardia
cosciente del proletariato”, o partito “marxista” e “rivoluzionario” (dei
militanti rivoluzionari), come Lenin sostenne nel fondamentale “Che fare?” del 1902, che sarebbe poi
diventato il testo base di ogni comunismo. Così, tramite e a partire dal “Che fare?”, per i marxisti che si
richiamavano e si sarebbero richiamati a Lenin, almeno a parole, sino al 1991, non
era più l’azione operaia a generare il partito operaio (come in Marx e in Rosa
Luxemburg), ma il contrario: a partire dalla cosiddetta “avanguardia
cosciente”, ossia dai militanti autoproclamatisi rivoluzionari “marxisti”. Ma
in tal modo, senza che Lenin e i bolscevichi per lungo tempo neppure lo
immaginassero, il focus passava dal mondo operaio al “partito”. Il “focus”,
insomma, diventavano quei militanti pronti a vivere e morire “per il Partito”,
che poi sarebbero diventati i burocrati, reali o pretesi “rivoluzionari di
professione”: base solida del burocratismo e dell’autoritarismo comunista (di
partito e di Stato). Ma questo accadde molto tempo dopo.
Poi, annunciata da molti “boatos”, arrivò la Grande Guerra del 1914/’18.
I marxisti rivoluzionari, “maggioritari” (“bolscevichi”) nel socialismo marxista
russo, si persuasero che l’economia - e per ciò la rivoluzione - si fosse ormai
mondializzata. Il capitale finanziario (invece che imprenditoriale) e
oligopolistico (invece che di concorrenza tra “libere” imprese), sarebbe ormai
diventato dominante. E le sue singole parti (nazioni o gruppi di nazioni),
avrebbero lottato a morte per ottenere l’esclusiva su materie prime e mercati
mondiali. La Grande Guerra, tra gli Stati dominati dal capitale finanziario,
era per ciò una guerra tra “ladri di bottino”: tra bande equivalenti. Ad una
guerra del genere, di conseguenza, secondo il bolscevismo si sarebbe dovuto
rispondere – in ogni Paese o Stato capitalistico - trasformando la guerra
mondiale tra gli stati in rivoluzione mondiale classe contro classe (come Lenin
nel 1916 motivava, in termini di teoria economico-politica, nel libro “L’imperialismo fase suprema del capitalismo”).
La disfatta dello Stato francese nel 1870, quando Bismarck aveva sconfitto
Napoleone III a Sédan, aveva reso possibile, sia pure per tre mesi (prima di un
immane massacro controrivoluzionario di proletari parigini), il primo “Stato
operaio” della storia, subito apologizzato da Marx a nome dell’Associazione
Internazionale dei Lavoratori: uno Stato in cui le assemblee popolari
nominavano, e potevano revocare in permanenza, tutti i dirigenti, anche
amministrativi, e in cui tutti i militari tradizionali, compresi i poliziotti,
erano soppiantati dagli operai armati: superando così lo Stato “borghese”, che
noi diciamo “moderno”, ossia lo Stato-macchina, lo Stato degli apparati (per
molti “lo Stato” tout court), che può
sì connettersi a diverse forme di governo, ma il cui corpo è sempre costituito da burocrazia, polizia ed esercito
permanente, senza il cui sviluppo e dominio effettivo non ci sarebbe Stato
“moderno” (Marx – Engels,Il Partito e
l’Internazionale, 1849/1875). Era proprio lo Stato “moderno”, borghese,
degli apparati, secondo Marx e i marxisti sino agli anni Venti del Novecento, a
dover essere “abbattuto” e via via dissolto tramite la dittatura del
proletariato, ossia attraverso ed entro l’associazione dei proletari stessi,
nella “società civile” (vale a dire nel grande mondo quotidiano della gente che
lavora per vivere). Ed allora - nel ‘14/18, in presenza di una guerra mondiale,
e di grandi movimenti antagonisti dei proletari - tutto questo modello di
atogoverno proletario effettivo - tramite i consigli elettivi degli operai e
contadini, sostenuti dall’avanguardia cosciente dei socialisti marxisti (o
comunisti) - era ritenuto attuale, e prossimo a realizzarsi nel mondo intero, come
diceva Lenin in Stato e rivoluzione
(1917 ma 1918), riprendendo e commentando quasi frase per frase il modello del
cosiddetto Stato operaio desunto dalla Comune di Parigi da Marx, ed
attualizzandolo. In pratica lo Stato come associazione dei lavoratori avrebbe
potuto affermarsi non solo - come a Parigi dopo la disfatta del 1870 – in uno
Stato o al suo cuore, ma in tutti i paesi capitalistici del mondo. E assai
presto.
Siccome la Grande Guerra fu per la Russia un non compreso grande
massacro degli innocenti, culminato in una serie di tremende disfatte, e
siccome i bolscevichi erano da tempo i più forti tra gli operai delle città,
sfruttando il bisogno assoluto di pace dei russi del 1917, e incoraggiando tutte
le forme di autogoverno dei lavoratori tramite i soviet (democrazia dei
consigli elettivi dei lavoratori), ed essendo una minoranza organizzata diffusa
e coesa, motivata ed audace, i bolscevichi riuscirono a prendere il potere
(Rivoluzione d’ottobre del 1917). I rivoluzionari, anche in base a quel che era
sempre accaduto nelle grandi rivoluzioni anteriori, si aspettavano che la loro
rivoluzione “proletaria” si sarebbe ben presto estesa nel mondo, in specie
nell’Occidente capitalistico, in cui da settant’anni c’era un movimento
socialista e proletario vasto ed organizzato. Ci furono in effetti, tra il 1917
e il 1923, grandi movimenti proletari antagonistici, specie in Germania e in
Italia, temporaneamente vittoriosi in Ungheria, ma alla fine non arrivò nessuna rivoluzione proletaria
europea né tantomeno mondiale. Dei motivi si discusse all’infinito. I
comunisti “leninisti” o comunque pretesi rivoluzionari sostennero che la
rivoluzione socialista in Occidente non fosse arrivata soprattutto per il “tradimento
dei capi” socialdemocratici, che avrebbero frenato e deviato la volontà di
abbattimento del capitalismo delle masse proletarie “ingenue”. Si può discutere
quanto si vuole. Ma il dato di fatto incontrovertibile fu che la grande
maggioranza dei lavoratori europei e del mondo, pur attraversata in quegli anni
da straordinari fermenti di rivolta, rimase legata alla sua socialdemocrazia. E
la grande maggioranza dei lavoratori in Occidente non mutò idea neanche in
seguito. Non certo per caso.
Così la Russia rivoluzionaria restò tragicamente isolata.
Quest’isolamento fece tornare a galla vuoi i problemi vetusti di arretratezza
economica della Russia e vuoi il peso dei secoli di autocrazia di quel Paese.
Il potere sovietico, dapprima assolutamente pluralistico nei soviet, dovette
fare i conti, nella difficile situazione post-rivoluzionaria, con una
dissidenza terroristica di elementi persino molto di sinistra (rivolta di
Kronstadt del 1921), dissidenza che andava ad aggiungersi alla tremenda guerra
civile con i generali bianchi (durata dal ’17 al ’21): guerra civile che in
sostanza era scontro - a quel che ritengo - tra soluzione nazionalista
panslavista di destra e soluzione socialista marxista di sinistra. Ciò
trasformò ben presto il sistema sovietico in un regime comunista a partito
unico in cui i soviet stessi erano la cinghia di trasmissione e la cassa di
risonanza del partito assolutamente sovrano. Lenin però, marxista determinista
in economia - persuaso cioè che in economia “historia non facit saltus” - vedendo che la rivoluzione proletaria
in Occidente - che per la Russia sovietica avrebbe voluto dire sia sicurezza
militare esterna che supporto tecnologico interno - non arrivava, ebbe
l’intelligenza di compiere una “grande ritirata”. Il fine restava quello postcapitalistico
(niente proprietà privata, ma anche niente economia di concorrenza, e
soprattutto niente salariato), tanto che nel ’21 diceva ancora che dopo la
rivoluzione mondiale, ritenuta solo rinviata, con “l’oro, inutile metallo”,
sarebbero stati costruiti “cessi”; ma nell’attesa volle che rifiorisse il
capitalismo privatistico in URSS, pur sotto il governo comunista (Nuova
Politica Economica). Era la via poi intrapresa in Cina da Deng Hsiao Ping,
anche se scelta in attesa di una nuova grande omdata di vera rivoluzione
proletaria a Occidente, creduta imminente. Ma senza di essa per Lenin la
combinazione tra economia capitalista e governo comunista era economicamente
fatale.
Ma i marxisti sovietici, nel loro determinismo sostanziale, ritenevano
insostenibile un tale antagonismo tra struttura economica e sovrastruttura
politica, ossia tra un’economia sempre più privatistica e il potere comunista
(preteso “proletario”), convinti che in tal caso “l’uomo della NEP”, borghese,
si sarebbe mangiato anche “il socialismo”. Un’eco di tale preoccupazione si
vede nel bel romanzo breve fantapolitico e godibilissimo di Bulgakov Cuore di cane (1925). Allora Stalin,
dopo la morte di Lenin (1924), interruppe la NEP (1928) e volle collettivizzare
in modo forzato l’agricoltura, nel 1929. Io ritengo che sia stata una vera e propria “seconda rivoluzione”
rispetto all’ottobre (o terza
rivoluzione, se contiamo quella solo antiassolutista del febbraio 1917).
Perirono almeno dieci milioni di contadini pretesi
ricchi (kulaki). L’agricoltura non si risollevò mai più compiutamente dalla
“cura”. Ma a parte ciò - siccome per fare quella cosiddetta “collettivizzazione
forzata dell’agricoltura” fu necessario uno scatenamento di repressione
dall’alto senza precedenti nella storia, ossia una sorta di mobilitazione
poliziesca senza uguali - nacque un regime non solo dittatoriale come quello
“giacobino marxista” già realizzato da Lenin, bensì un regime compiutamente totalitario. Ciò rese possibile, per un
quarto di secolo, una vera economia di
guerra, che faceva funzionare il mondo produttivo molto bene nel settore
del fabbricare fabbriche (“industria pesante”), ma anche della fabbricazione di
carri armati, e nella realizzazione di infrastrutture, e pure di una forma
elementare ma diffusa di Welfare State; ma fu possibile attraverso il Terrore
istituzionalizzato e di lunghissima durata. In quella fase però cambiò la stessa idea del Socialismo, che da
allora in poi non fu più identificato
con la società autogovernata dai lavoratori in vista di un sistema di servizi
collettivi in cui tutto fosse di tutti, bensì con uno statalismo economico
autoritario, con l’economia pianificata dall’alto, in una parola con il capitalismo
di Stato dominato da un partito unico, comunista, burocratico autoritario, che
pretendeva di incarnare carismaticamente il proletariato. Stalin lo
teorizzò nel 1952 nel libro Problemi
economici e sociali dell’Unione Sovietica. Grazie a tutto ciò l’URSS, sia
pure pagando un prezzo spropositato (venti milioni di morti in seguito
all’invasione nazista del 1941, per non dire dei milioni e milioni precedenti),
giunse non solo a sconfiggere Hitler, ma a portare le proprie armate sino a
Berlino.
Tuttavia, dopo un quarto di secolo di Terrore di massa (1928/1953), ma
anche con basi di massa - pur segnato da grandi realizzazioni economiche e da
un’espansione mondiale dello Stato russo senza precedenti - dopo la morte di
Stalin (1953) si dovette voltare pagina. Dal 1956 - previa denuncia dei
“crimini di Stalin” da parte di un suo successore, Nikita Kruscev - fu
ripristinata la cosiddetta “legalità socialista” o “leninista”, cioè la stessa
dittatura del Partito Comunista su Stato ed economia, ma senza Terrore: in
pratica senza economia di guerra, senza quotidiani plotoni d’esecuzione e campi
di lavoro forzato sempre affollati e spietati. Ma proprio da allora, ogni anno
un po’ di più, il sistema s’inceppò. Gli
statali ripresero a agire da statali, come e più che in tutto il mondo:
ossia poco, tardi e male. Via via il reggere la competizione in materia di
armamenti con la superpotenza capitalistica avversaria (americana), divenne
impossibile. Così il sistema - che pur tramite immani sacrifici e fiumi di
sangue si era esteso da Vladivostock a Berlino - tra il 1989 e il 1991 crollò
su sé stesso, senza essere mai riuscito a riformarsi “in avanti” in modo
politicamente democratico ed economicamente espansivo. Perì come un vecchietto
infartato. Fu una cosa senza uguali nella storia di 2000 anni, perché ogni
impero della storia è sempre finito o per invasioni esterne o per grandi
rivoluzioni interne.
Ma lo scacco chiaramente
irreversibile del comunismo di stato non annulla di certo i mali, il caos e
le catastrofi del capitalismo privatistico, che crescono anzi in modo
pericolosissimo anno dopo anno. Tutto ciò reclama una soluzione ben diversa da
quella capitalista di stato e dittatoriale, e materialista, impostasi in Russia
e nei paesi detti satelliti; semmai postula una rivoluzione ecologica,
solidarista e spirituale. Questa, però, mentre le catastrofi crescono, si
aggira ancora solo come un fantasma sulle strade del mondo.
(franco.livorsi@alice.it)
BOFFA G. – MARTINET G., Dialogo sullo stalinismo, Laterza, Bari,
1976; BORDIGA A., Russia e rivoluzione
nella teoria marxista (1954), Il Formichiere, Milano, 1975; Struttura economica e sociale della Russia
d’oggi (1955), Edizioni Contra, Milano, 1966, due voll.; BULGAKOV M. A., Cuore di cane (1925), Einaudi, Torino,
1967; CARR E., La rivoluzione bolscevica.
1917-1923, Einaudi, Torino, 1964; HILL C., Lenin e la rivoluzione russa (1947), Einaudi, Torino, 1974; LENIN
(Vladimir Ilic ULIANOV), Opere scelte,
a cura di L. Gruppi, Editori Riuniti, Roma, 1968; LUKÀCS G., Lenin: unità e coerenza del suo pensiero (1924), Einaudi, Torino,
1970; MARX K. – ENGELS F., Il partito e
l’Internazionale, Edizioni Rinascita, Roma, 1951; NEGRI A., Trentatre lezioni su Lenin (1977),
Manifestolibri, Roma, 2004; ORSI A. d’, 1917:
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Milano, 1956; WOLFE B. D., I tre artefici
della rivoluzione d’ottobre: Lenin, Trotzki, Stalin, LaNuova Italia,
Firenze, 1953.
Chi volesse eventualmente approfondite l’iter
delle mie valutazioni in proposito, da quelle più giovanili in poi, potrà
vedere i seguenti miei scritti: LIVORSI F, Gli
scritti di Lenin sul socialismo italiano, “L’idea socialista”, n. 3,
novembre 1962, p. 3; Lenin e l’attuale
estremismo di sinistra, ivi, n. 17, ottobre 1963, p. 3; Attualità di Lenin. A cento anni dalla
nascita, ivi, n. 4, aprile 1970, p. 3; Lenin
in Italia, “Classe” (Ed. Dedalo), n.4, 1971, pp. 325-384; Note “conclusive” sul bolscevismo da Lenin a
Stalin, in: Utopia e totalitarismo,
Tirrenia Stampatori, Torino, 1979, pp. 169-231; A proposito della “Storia del pensiero comunista” di M. L. Salvadori,
“Quaderno” dell’Istituto storio della Resistenza in Alessandria, a. VIII, n.
15, 1985, pp. 151-160; Stato e libertà
nel comunismo. Da Lenin a Stalin, in: Stato
e libertà. Questioni di storia del pensiero politico, Tirrenia Stampatori,
1992, pp. 137-171; Gramsci e il
bolscevismo (1914-190), in: FONDAZIONE ISTITUTO PIEMONTESE A. GRAMSCI, “Il
giovane Gramsci e la Torino di inizio secolo”, Rosenberg & Sellier, Torino,
1998, pp. 101-124; Liberazione sociale e
liberazione della coscienza nella storia della socialdemocrazia e del comunismo,
in: Coscienza e politica nella storia. Le
motivazioni dell’azione collettiva nel pensiero politico contemporaneo,
Giappichelli, 2004, pp. 155-252; Miti
della rivoluzione sociale da Rousseau al XXI secolo, in: Sentieri di rivoluzione. Politica e
psicologia dei movimenti rivoluzionari dal XIX al XXI secolo, Moretti &
Vitali, 2010, pp. 73-176.
02/11/2017 09:03:55
17.03.2018
Danilo Bruno
Ieri (il riferimento è al 14 marzo u.s.), a stare alle cronache di stampa, il
ministro allo sviluppo economico e neo-PD Calenda,che era presente a Bari
con Prodi a presentare il libro di Giovannini sull’utopia sostenibile, avrebbe
pronunciato, tra le altre cose, una importante affermazione: “ Serve un...
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14.03.2018
Mauro Fornaro
Qualche riflessione, più
di carattere psicologico che non politologico, sul crollo del PD da parte di un
“vecchio” simpatizzante. Classe dirigente e molti militanti del PD sembrano al
momento essersi arroccati sulla difensiva, sia a seguito degli attacchi
insistenti e insolenti della Lega e del M5S nel...
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13.03.2018
Mauro Calise (*)
Inutile, per il momento, affacciarsi sul crogiuolo
della crisi in corso. Troppe incognite ancora da sciogliere. E, soprattutto,
troppe spavaldissime mosse tattiche che dovranno cedere il passo a più miti consigli
– e consiglieri – strategici. Ma, quale che sarà la soluzione che alla fine
prevarrà,...
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12.03.2018
Egidio Zacheo
C'è smarrimento nel Partito Democratico e
a sinistra. La loro sconfitta è stata bruciante . Ma mentre quella del PD da
molti - diciamolo- era stata prevista da tempo, anche se non nelle proporzioni
verificatesi, una sorpresa generale ha destato quella di " Liberi e
Uguali". Vi è stata una polarizzazione...
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12.03.2018
Goffredo Bettini
"Articolo
proposto dal Cives Pier Luigi Cavalchini"
Abbiamo subito una sconfitta storica. Infatti, se ragioniamo
su un arco temporale ampio, balza agli occhi il rovesciamento di una anomalia
italiana. Negli anni '70 l'anomalia
consisteva nella forza elettorale di una sinistra comunista e socialista...
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10.03.2018
Franco Livorsi
Nel
mio articolo del 28 febbraio ultimo scorso, “L’Italia congelata” - scritto pochi giorni prima delle elezioni
politiche - motivando il mio voto a favore del PD - di cui ero e sono
totalmente convinto - esprimevo tutta la mia preoccupazione per la tenuta della
democrazia liberale e rappresentativa...
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09.03.2018
Filippo Boatti
La disfatta, questa volta finale, della sinistra era
purtroppo prevedibile e inevitabile, inevitabile perché la sinistra non ha
saputo né voluto reagire alla gabbia che le impedisce di sussistere. Certo si
può chiamare in causa una “questione morale” interna alla sinistra. E’ un fatto
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08.03.2018
Alfio Brina
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vari politologi fanno risalire al comportamento un po’ guascone di Matteo
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al comando attorniato da fedelissimi, sicuramente toscani e possibilmente
fiorentini, Poi il modo irriverente, per non dire sguaiato con cui è...
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07.03.2018
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chiunque abbia osservato con un po’ di attenzione quello che accade aveva già
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07.03.2018
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1. Dopo tanto impegno e
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essere così. Siccome siamo stati particolarmente in gamba, abbiamo perso anche
in maniera pesantissima, inequivocabile, con cifre oltre ogni previsione. Da
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Segnaliamo, come contributo alla discussione, un
interessante articolo comparso sul sito “Le Scienze.it”
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Il Circolo Culturale “I Marchesi del Monferrato” presenta il
suo nuovo progetto per il 2018: le celebrazioni...
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Segnaliamo un interessante articolo comparso sulla rivista
online economiaepolitica
http://www.economiaepolitica.it/politiche-economiche/europa-e-mondo/la-ripresa-e-lo-spettro-dellausterita-competitiva/...
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DA OGGI IN RETE 2500
SCHEDE SU LUOGHI, MONUMENTI E PERSONAGGI
A conclusione di un intenso lavoro, avviato...
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Segnaliamo il libro di Agostino Spataro, collaboratore di Cittàfutura su un argomento sempre di estrema...
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Politica Ediesse 2017
Pag. 225 euro 15
Ha vissuto cent’anni Pietro Ingrao...
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