“I paesi che non sono all’avanguardia del progresso ne risentono in misura relativa. Noi, invece, siamo colpiti da una nuova malattia di cui alcuni lettori possono non conoscere ancora il nome, ma di cui sentiranno molto parlare nei prossimi anni: vale a dire la disoccupazione tecnologica. Il che significa che la disoccupazione dovuta alla scoperta di strumenti economizzatori di manodopera procede con ritmo più rapido di quello con cui riusciamo a trovare nuovi impieghi per la stessa manodopera.”
J.M. Keynes, “Prospettive economiche per i nostri nipoti” (1930), in Esortazioni e profezie, Garzanti, Milano 1968.
Con uno scarno comunicato stampa emesso il primo giugno, l’Istituto Centrale di Statistica (ISTAT) informa che “Ad aprile 2012 gli occupati (in Italia) sono 22.953 mila, in diminuzione dello 0,1% (-28 mila unità) rispetto a marzo. Il calo è determinato dalla contrazione dell’occupazione maschile. Nel confronto con lo stesso mese dell’anno precedente l’occupazione segna un aumento dello 0,1% (23 mila unità)”. Traduco: poiché il confronto rispetto al mese precedente (aprile 2012 su marzo 2012) esprime l’andamento ciclico, mentre quello effettuato sullo stesso mese dell’anno prima (aprile 2012 su aprile 2011) indica l’andamento tendenziale, l’occupazione totale, la cui evoluzione è caratterizzata da una sensibile ciclicità, si è mantenuta pressoché sugli stessi livelli dello scorso anno, ma registra per il secondo mese consecutivo una diminuzione. In quello stesso comunicato si legge poi che “Il numero dei disoccupati, pari a 2.615 mila, cresce dell’1,5% (38 mila unità) rispetto a marzo. Su base annua il numero dei disoccupati aumenta del 31,1% (621 mila unità)”. Il che vuol dire che il tasso di disoccupazione, il cui valore è dato dal numero dei disoccupati in rapporto al totale delle persone occupate e di quelle in cerca di occupazione (le cosiddette «forze di lavoro»), oltre a presentare un andamento ciclico molto meno marcato rispetto a quello dell’occupazione, mostra una netta tendenza all’aumento, passando dall’8,0% dell’aprile dello scorso anno al 10,2% dell’ultima rilevazione.
Com’è possibile, viene da chiedersi, che con un’occupazione tendenzialmente stazionaria la disoccupazione continui a crescere? La risposta a questo apparente paradosso sta nel fatto che l’occupazione e la disoccupazione, lungi dall’essere l’uno il complemento dell’altra, sono due fenomeni tra di loro non necessariamente collegati e, ciò che più conta, il loro andamento non è riconducibile agli stessi fattori (l’occupazione dipende da certe cause che non sono le stesse che provocano la disoccupazione). Proviamo a riflettere.
Nella terminologia dell’ISTAT, «occupati» sono tutti coloro che all’indagine sulle forze di lavoro, dichiarano di possedere un’occupazione, i cosiddetti «occupati dichiarati», quand’anche nel periodo di riferimento non abbiano svolto alcuna attività lavorativa; oppure che, pur essendo in condizione diversa da quella di occupato, dichiarano di avere effettuato ore di lavoro, dando luogo alla categoria delle «altre persone con attività lavorativa» (come ad esempio uno studente che svolgesse saltuariamente qualche attività).
I «disoccupati», invece, che nella terminologia dell’ISTAT vengono indicati come «persone in cerca di occupazione», sono tutti coloro che, avendo un’età superiore ai 15 anni, all’indagine sulle forze di lavoro dichiarano, oltre a non appartenere né alla categoria degli «occupati dichiarati» né a quella delle altre «persone con attività lavorativa», di essere attivamente e manifestamente alla ricerca di un posto di lavoro ed immediatamente disponibili ad accettare un lavoro qualora venisse loro offerto. A questo tipo di indagine sfuggono pertanto quanti si astengono dalla ricerca attiva di una occupazione essendo convinti che quand’anche la cercassero non riuscirebbero ad ottenerla (i cosiddetti «lavoratori scoraggiati»). Come risulta da apposite indagini, l’inclusione di questa categoria di persone nelle statistiche della disoccupazione, che nella maggior parte riguarda i giovani e/o le donne, farebbe salire questo fenomeno a livelli socialmente allarmanti, soprattutto nelle regioni meridionali.
Fin qui le definizioni della statistica. Altra cosa è porsi la questione su quali siano i fattori da cui dipende l’occupazione e quali siano le cause della disoccupazione.
Una possibile spiegazione di ciò da cui dipende l’occupazione è la seguente. Se si accoglie una visione del processo produttivo stando alla quale l’offerta aggregata (il PIL) tende ad adeguarsi al livello della domanda aggregata (il cui valore è dato dalle intenzioni di acquisto delle famiglie, delle imprese, dello stato e degli operatori esteri), il livello dell’occupazione verrà a dipendere dalle aspettative delle imprese circa l’entità della domanda. Per comprendere come opera il legame esistente tra il livello dell’attività economica e l’occupazione, occorre innanzitutto riflettere sul fatto che la produzione di beni e di servizi richiede prioritariamente che le imprese si dotino di una certa capacità produttiva. Ciò presuppone una stima della quantità di merce che l’impresa intende produrre, senza peraltro avere la certezza di riuscire poi a venderla. Una volta che l’impresa si sarà dotata degli impianti necessari, la tecnologia fornirà un’indicazione su quanta occupazione occorrerà per attivare il livello di produzione desiderato. Poiché, inoltre, il momento della produzione precede quello in cui i prodotti saranno posti in vendita (talvolta con un lasso di tempo superiore all’anno), il livello di produzione desiderato, che non necessariamente coincide con la massima quantità producibile (stante la capacità produttiva esistente), viene deciso dalle imprese sulla base di una valutazione circa le decisioni di spesa degli operatori (la domanda aggregata). Ora, dal momento che le previsioni di spesa delle famiglie (i consumi) sono basate prevalentemente sul reddito disponibile e quelle delle imprese (gli investimenti reali) sulle previsioni in merito all’andamento dei consumi, quando la capacità di spesa delle famiglie si riduce (perché i salari reali non aumentano e l’aumento della tassazione riduce ulteriormente la capacità d’acquisto delle stesse), i consumi delle famiglie si contraggono, le imprese non investono e l’occupazione non potrà aumentare. Al tempo stesso, e in un momento di crisi economica, il contenimento della spesa pubblica (che in gran parte si traduce nei redditi dei dipendenti pubblici) non può che accentuare la situazione, contraendo ulteriormente la domanda. In questo contesto è a dir poco illusorio pensare che l’occupazione possa aumentare semplicemente favorendo la mobilità (in uscita) del mondo del lavoro.
Posto che le cose funzionino nella maniera descritta, l’andamento dell’economia (e con esso quello dell’occupazione) sarà soggetto a mutamenti ciclici che riflettono le previsioni delle imprese circa l’evoluzione della domanda: se le aspettative sono favorevoli esse decideranno di aumentare la produzione, in caso contrario decideranno di ridurla. E questo spiegherebbe la ciclicità dell’andamento dell’occupazione.
Per quanto attiene invece alla disoccupazione, una delle possibili cause andrebbe ricercata in quel fenomeno, la cui rilevanza è stata messa in luce da John Maynard Keynes fin dal 1930, che prende il nome di «disoccupazione tecnologica». Uno dei principali effetti delle innovazioni incorporate nelle nuove macchine, innovazioni che concorrono a formare il progresso tecnico, è quello di essere risparmiatrici di lavoro. Ciò significa che laddove per produrre una certa quantità di merce occorreva un dato numero di lavoratori, l’innovazione consentirà di produrre la stessa quantità di prima, ma con un minor numero di occupati. Nei periodi di crisi, poi, le imprese tendono a razionalizzare l’utilizzazione del lavoro cercando, da un lato, di fare in modo che ciascun lavoratore sia più produttivo (ad esempio riducendo le pause e aumentando i ritmi di lavoro), dall’altro, introducendo nel processo produttivo macchinari più efficienti (vale a dire che consentano di risparmiare lavoro). Stando così le cose, o le imprese prevedono di poter aumentare la produzione tanto quanto basta per mantenere gli stessi livelli occupazionali, oppure, nella prospettiva di poter al massimo continuare a vendere la stessa quantità di merce di prima, riterranno che un certo numero di occupati sia in eccedenza rispetto alle esigenze della produzione (i cosiddetti «esuberi»). Si può dimostrare che in presenza di innovazioni risparmiatrici di lavoro, affinché non vi sia disoccupazione tecnologica occorre che la produzione cresca ad un ritmo superiore ad un certo valore minimo. Da qui l’importanza della crescita economica (benché la sua importanza non si limiti a questo solo aspetto). Ovviamente è insensato ritenere che la disoccupazione possa dipendere da una sola causa, e non saprei dire quanta parte di essa sia imputabile alle nuove tecnologie. Di una cosa però sono certo: che se l’economia non cresce, l’occupazione non aumenta, mentre la disoccupazione, quanto meno nella forma della disoccupazione tecnologica, tenderà ad aumentare.