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Dietro la notizia
Disuguaglianza, crescita e debito pubblico
Bruno Soro
 “L’Italia dei democratici” di Enrico  Morando e Giorgio Tonini
“Senza uguaglianza la libertà si chiama privilegio”.
Vittorio Emanuele Parsi, “La fine dell’uguaglianza. Come la crisi economica sta distruggendo il primo valore della nostra democrazia”, Mondadori, Milano 2012.
Quando la lettura di un libro induce a riflettere vuol dire che l’obiettivo principale che il suo autore si riproponeva è stato in gran parte raggiunto. E, seppur nei limiti che cercherò di evidenziare, il libro di Enrico Morando e Giorgio Tonini, “L’Italia dei democratici. Idee per un manifesto riformista”, edito nell’agosto scorso da Marsilio, Padova, è certamente uno di questi. Presentarlo e discuterlo nel pieno di una campagna elettorale non aiuta, specie quando se ne condividono sostanzialmente le tesi. Pur cercando di essere “sopra le parti”, infatti, si corre il rischio di sopravvalutare gli aspetti positivi e sottovalutare quelli più discutibili. Tuttavia, poiché il senso della presentazione di un libro è essenzialmente quello di invitare a leggerlo, dico subito che “L’Italia dei democratici” non solo merita di essere letto, ma in alcune parti anche studiato. Con un eloquio fluido e scorrevole, gli autori hanno saputo mescolare sapientemente concetti di economia, sociologia, scienza della politica e storia, in grado di accontentare un vasto pubblico.
Nel presentare o recensire un libro, ci si può limitare semplicemente ad illustrarne il contenuto, cosa che, approfittando della presenza di uno dei due autori lascerò volentieri a lui questo compito. Mi limiterò pertanto a richiamare lo scopo del libro, a riprendere alcuni temi che ritengo più salienti e a chiosare qualche affermazione sui temi economici, i soli sui quali posso vantare una qualche competenza. Dichiarando però fin da ora quali sono le quattro proposte di riforma sulle quale concordo pienamente: quella sul finanziamento pubblico ai partiti (la causa del perché ci sono “Gli asini al potere”); quella sull’università pubblica (il cui costo oggi grava in gran parte sui lavoratori dipendenti); quella della separazione tra le banche d’affari e le banche di credito (per impedire che il risparmio dei cittadini venga sperperato nella speculazione) e infine quella sull’assicurazione obbligatoria per le calamità naturali (una vecchia proposta di Enrico Morando sulla quale ho già avuto modo di confrontarmi con lui.
Per esplicita dichiarazione formulata a pagina 23, il libro “vuole essere un contributo alla costruzione della proposta dei democratici: una proposta che tarda a definirsi, ma senza la quale il paese non si salverà”. Ora, se l’obiettivo di “salvare il paese” può apparire ambizioso, e ancorché le proposte di riforma in esso contenute vadano, a mio giudizio, nella direzione giusta, resta da stabilire se e in quale misura l’economia italiana presenti qualche peculiarità nel contesto delle economie industrializzate. Sarà sufficiente a questo proposito rammentare che l’economia italiana tra il 1960 e il 1980 è salita dalla settima alla quinta posizione nella graduatoria delle dieci più importanti potenze economiche; tra il 1990 e il 2011 è scesa dalla quinta all’ottava posizione. Nel contesto europeo occupa stabilmente in termini assoluti la quarta posizione, ma nella graduatoria dei 27 paesi della UE in termini di reddito pro capite è scesa dall’ottava posizione del 1995 alla dodicesima nel 2011 e negli ultimi dieci anni ha fatto registrare il più basso tasso di crescita in assoluto. Nel contesto regionale italiano, infine, non si deve pensare ad un’Italia omogenea, ma a ben cinque italie, con un reddito pro capite che varia tra il 15% in meno del Piemonte, Veneto, Friuli, Emilia Romagna e Toscana rispetto alle prime (Valle d’Aosta, Bolzano e Lombardia); il 30% in meno di Liguria Umbria e Marche; il 40% in meno di Abruzzo Molise e Sardegna e, infine, il 50% in meno di Campania, Puglia, Basilicata, Calabria e Sicilia.
Resta il fatto che, come penso emergerà dal dibattito, le “Idee per un manifesto riformista” che Morando e Tonini avanzano potrebbero essere accolte da alcuni con scarso entusiasmo, non essere del tutto condivise da una parte significativa degli iscritti al suo partito, e avversate dai simpatizzanti del suo principale alleato politico nelle imminenti elezioni.
Ciò non toglie che non è certo la prima volta che le proposte avanzate da Enrico Morando vengono accolte, in un primo momento, esclusivamente da una frangia minoritaria del suo partito, salvo poi essere fatte proprie a grande maggioranza qualche tempo dopo, magari a seguito dei successivi cambiamenti nel nome, nella strategia e nelle alleanze del vecchio PCI. Basterà qui ricordare un paio di episodi: il primo, quello dei due emendamenti presentati da Enrico Morando alle tesi elaborate dal Comitato Centrale del PCI per il congresso di Firenze del 1986. Tali emendamenti, riguardanti la richiesta che il Partito si dichiarasse «parte integrante della sinistra europea» e che venisse abbandonata la pratica del centralismo democratico, vennero respinti a grande maggioranza dal partito, ma accolti quattro anni dopo con la svolta della Bolognina che ha sancito la trasformazione del PCI nel Partito Democratico della Sinistra. Il secondo episodio riguarda invece la mozione presentata al congresso di Pesaro del 2001. In qualità di primo firmatario, con quella mozione Enrico Morando chiedeva al congresso una svolta in senso liberalsocialista e ulivista. Anche in questo caso la mozione fu respinta, ma fatta propria dopo qualche anno dall’esperimento di Romano Prodi, l’unico politico italiano che ha battuto per ben due volte in libere elezioni il tycoon delle reti televisive private, salvo poi venire annientato in entrambi i casi dal “fuoco amico”. E veniamo al libro.
La trama di “L’Italia dei democratici” è costruita attorno all’intreccio delle relazioni che, nel nostro paese, legano tra di loro troppa disuguaglianza, poca crescita e un debito insostenibile: tre caratteristiche della crisi che attanaglia l’economia italiana, ciascuna delle quali alimenta e retroagisce sulle altre due. “La disuguaglianza – scrivono Morando e Tonini – nasce nel mercato e non può essere completamente eliminata senza uccidere il dinamismo economico e quindi la crescita. Ma la grande recessione di questi anni ci ha insegnato che troppa disuguaglianza può causare anche il collasso dell’economia, deprimendo i consumi delle famiglie, solo temporaneamente coperti con bolle del debito, privato o pubblico, che prima o dopo esplodono, con conseguenze catastrofiche” (p. 9). Ma se è vero che “la disuguaglianza nasce dal mercato”, quest’ultimo non può e non deve essere eretto a mito. Prova ne sia che alcuni premi Nobel sono stati assegnati ad altrettanti economisti (tra i quali R. Coase nel 1991 e J. Akerlof, M. Spence e J. Stiglitz nel 2001) proprio per aver messo in luce con le loro ricerche alcune caratteristiche peculiari del mercato (quali la presenza di beni pubblici, di un monopolio naturale, dell’oligopolio, di esternalità e di informazioni asimmetriche) che sono all’origine di fenomeni denominati «fallimenti del mercato». Detto in altri termini, mediante le sue sole forze – vale a dire in assenza di un’azione regolamentatrice dello stato, un intervento di Politica economica – il mercato non è in grado di perseguire la massima efficienza del sistema economico ed il raggiungimento della piena occupazione.
Il capitolo del libro a mio avviso meglio riuscito, quello dal quale ho imparato di più, è quello nel quale il Senatore Morando tratta del modo con cui affrontare il problema del debito pubblico, significativamente intitolato “Alla guerra del debito”. Lascerei però a lui, per competenza, il compito di spiegare le sue proposte, essendo egli più indubbiamente più preparato di me sulle questioni che riguardano il Bilancio dello Stato. Di mio vorrei soltanto rammentare che se esiste un debito, non importa se pubblico o privato, vuol dire che qualcuno, privo della ricchezza necessaria per sostenere il suo tenore di vita, ha preso a prestito da qualcun altro la liquidità di cui necessitava, impegnandosi a pagare annualmente al creditore un interesse e a restituire il prestito alla scadenza. Se poi la scadenza del debito si allunga, come accade quando il debito pubblico viene via via rinnovato, il trasferimento di ricchezza avviene a scapito delle generazioni successive. Questo comporta che , agendo in tal modo i padri avranno scaricato sui propri nipoti l’onere di restituire il debito. Qualcosa di simile è accaduto e sta accadendo in Italia e nei principali paesi occidentali, Giappone e Stati Uniti inclusi. E poco importa se il debito è stato contratto per sostenere il welfare o per elargire servizi sanitari gratuiti, servizi scolastici praticamente tali, infrastrutture e burocrazie inadeguate. Sembrano considerazioni banali, ma non lo sono affatto, specie con riguardo ai criteri che garantiscono la solvibilità del debitore. Infatti, una famiglia che non possiede ricchezze e non produce reddito difficilmente ottiene credito. Una famiglia ricca, ma che produce poco reddito, prima o poi dovrà rassegnarsi ad alienare i propri beni. Ora, se da troppo tempo il reddito che viene distribuito dal sistema produttivo – che coincide con il valore dei beni e servizi finali ossia il PIL –, non cresce, è del tutto comprensibile che i creditori (specialmente quelli internazionali) si allarmino e cerchino di tutelarsi richiedendo un interesse più elevato per compensare il maggior rischio di non rivedere il capitale prestato.
Sta di fatto che, in conseguenza della crisi, il livello del PIL nel 2011 è tornato a quello di dieci anni prima e l’ISTAT ci ha informati nei giorni scorsi che il livello dei «consumi reali pro capite», è tornato a quello del 1998, mentre il «reddito disponibile reale pro capite» addirittura al livello del 1986. In conseguenza di tutto ciò nel sistema economico si è venuto a formare un rilevante eccesso di capacità produttiva, quello che gli economisti chiamano un “gap di produzione”: il sistema delle imprese è attrezzato per poter produrre di più, ma non produce e non crea occupazione “per carenza di domanda effettiva”. Ora, la stagnazione del reddito, e ciò vale sia per una famiglia che per uno stato, può provocare una spirale del debito dalla quale il debitore, essendo costretto a pagare gli interessi pattuiti (con un tasso di interesse che tenderà via via ad aumentare, come la vicenda dello «spread» insegna) tenterà di sollevarsi ricorrendo agli strozzini, sperando in un colpo di fortuna. Ma così facendo egli cadrà in rovina (e un paese andrà in default, com’è accaduto all’Argentina nella crisi del 2001-2002).
Non volendo tediare ulteriormente il pubblico, rubando tempo prezioso al Senatore Morando e al dibattito che seguirà, dedicherò gli ultimi minuti a mia disposizione per commentare il terzo capitolo del libro, quello dedicato al “Ritorno alla crescita”. A mio modesto avviso la parte teoricamente più debole. Influenzati forse dalle idee più «liberiste» che «liberali» dei compagni di viaggio dell’associazione libertàeguale (co-fondata dallo stesso Enrico Morando), Morando e Tonini propongono infatti un’analisi su cosa fare per tornare a far crescere l’economia italiana non troppo convincente. Un’analisi dalla quale conseguono poi le misure di intervento che essi suggeriscono. Rifacendosi all’esperienza tedesca, a pagina 125 del libro gli autori sostengono che per “incentivare le aziende a guardare al lungo termine, a valorizzare la manodopera, a investire nella professionalità (sono necessarie) politiche assai diverse da quelle suggerite dalla destra liberista. (…) Ma anche molto diverse da quelle suggerite dalla sinistra conservatrice, sostanzialmente orientate ad agire pressoché esclusivamente dal lato della domanda, via aumento della spesa pubblica (dal momento che) i capitali che ci servono per accrescere la produttività totale dei fattori bisognerà che siano privati”.
Omettendo ogni riferimento all’uso improprio che viene fatto del concetto di «produttività totale dei fattori»,[1] che richiederebbe una lezione intera per essere spiegato, si dà il caso che se si guarda alla composizione della domanda interna – come emerge dalla Contabilità Nazionale dell’ISTAT – essa risulta composta per l’80% del PIL dai «consumi finali nazionali» e per il restante 20% dagli «investimenti fissi lordi». I primi comprendono, per il 75% la spesa delle famiglie e per il restante 25% la spesa della pubblica amministrazione (che concorre a formare le uscite del Bilancio dello stato). Sulla base di questi dati, qualora i «consumi finali nazionali» (che inclusivi sia dei consumi delle famiglie che della PA) crescessero del 2%, il PIL aumenterebbe dell’1,6%, e una crescita del 2% dei «consumi delle famiglie» farebbe aumentare il PIL dell’1,2%. Un’analoga crescita dei consumi della PA lo farebbe aumentare solo dello 0,4%; quella delle esportazioni e quella delle costruzioni (essendo quest’ultima la componente predominate degli investimenti fissi lordi) farebbe aumentare il PIL rispettivamente solo dello 0,6% e dello 0,2%. Ne segue che i «consumi delle famiglie» rappresentano la componente di gran lunga più rilevante della domanda interna, quella sulla quale si potrebbe agire nel breve periodo senza compromettere i conti pubblici. Vediamo come. 
Premetto che questa mia proposta non è una novità. Essa è infatti in linea con le posizioni assunte dal professor Mario Deaglio su La Stampa (“L’economia può ripartire dal fisco”, editoriale del 3 gennaio scorso), e suffragata delle analisi di due premi Nobel del calibro di Joseph Stiglitz e di Paul Krugman, nonché del maggiore esperto di macroeconomia che può vantare la Francia, l’economista Jacques Attali. La proposta consiste nello stimolare i «consumi delle famiglie» mediante una più equa redistribuzione del reddito, operata attraverso un sistema fiscale maggiormente improntato alla progressività. E’ noto, infatti, che la propensione all’acquisto di beni di consumo da parte dei percettori di reddito medio-basso (la categoria maggiormente tartassata dalle misure del Governo “tecnico” del professor Monti) è molto prossima all’unità (spendono quasi tutto l’incremento di reddito eventualmente ottenuta) mentre quella dei percettori dei redditi più elevati è molto bassa (risparmiano quasi tutto l’incremento di reddito che ottengono). Una più equa distribuzione del reddito comporta quindi un più elevato livello del consumo (in questo caso delle famiglie) a parità di reddito complessivo. Non è un caso, cito dal libro del Premio Nobel Paul Krugman “La coscienza di un liberal”, più volte richiamato da Morando e Tonini, che una misura di questo tipo sia stata adottata da Franklin Delano Roosevelt per contrastare la Grande Crisi degli anni ’30. Vale la pena di rammentare che la crisi che stiamo attraversando è seconda per importanza alla Grande Crisi, e che, a differenza degli Stati Uniti, gli esiti sociali e politici di quella crisi sono tra le concause che hanno portato alla Seconda Guerra Mondiale. 
Anche senza citare le cifre della disoccupazione in Italia e in Europa (disoccupazione che ha raggiunto le cifre record di 3 milioni in Italia e di ben 26 milioni in Europa), faccio presente che il crollo dei «consumi delle famiglie», è dovuto all’erosione del potere d’acquisto delle stesse, dapprima grazie all’introduzione dell’euro e all’inflazione che ne è seguita, e negli ultimi anni, dalla crisi economica. E’ solo il caso di rammentare che oltre a comportare un effetto di amplificazione della domanda la ripresa dei consumi consentirebbe di far ripartire gli «investimenti privati», favorendo l’innesco di un processo virtuoso di crescita che nel breve periodo potrebbe consentire una ripresa dell’economia italiana. Senza contare che, operando per questa via, oltre ad evitare di passare attraverso la corruzione che si annida spesso dietro le commesse degli appalti pubblici, si eviterebbe anche di aggravare l’onere del debito sia pubblico che privato.
Nel periodo medio-lungo, però le cose cambiano. E qui entrano in gioco le riforme prospettate da Morando e Tonini. Avverto, però, che la netta contrapposizione tra neoliberisti e keynesiani fatta propria dagli autori de “L’Italia dei democratici” è fuorviante. Sul tema della crescita esiste infatti un variegato panorama di approcci teorici non riconducibili a quella contrapposizione, basti pensare all’approccio utilizzato nel saggio introduttivo della ricerca della Banca d’Italia in occasione del 150° anniversario dell’Unità d’Italia dal professor Gianni Toniolo. In quell’analisi, il grande storico dei fatti economici si rifà alla teoria del catching up elaborata dell’economista americano Moses Abramovitz. Una teoria incentrata sull’azione esercitata da due distinte forze: quella che esprime il «potenziale economico» di un paese e quella che esprime la «capacità di realizzazione del potenziale» stesso. In merito alla prima forza, la cui intensità è legata alle varie forme di «capitale reale» che incorporano il progresso tecnico, vale la pena di ricordare che l’economia italiana possiede un sistema industriale manifatturiero quantitativamente e qualitativamente non inferiore a quello della maggior parte degli altri paesi europei (lo ha ricordato persino qualche mese fa il Premio Nobel Joseph Stiglitz confrontandolo con quello statunitense). La seconda forza, quella che esprime la «capacità di realizzare il potenziale»,  sintetizza invece il contributo di due forme di capitale che esprimono lo stato culturale di un paese: il «capitale umano», ovvero la maggiore o minore efficienza del lavoro che consegue dall’istruzione e dalla formazione, e il cosiddetto «capitale sociale», che esprime lo stato di fiducia degli operatori economici sul sistema delle regole. La debolezza del sistema economico italiano deriva principalmente, a mio avviso, dal progressivo peggioramento dello stato culturale del paese: la scuola, la formazione e l’università pubblica, fatte salve alcune isole di eccellenza, sono scivolate negli ultimi quarant’anni sui livelli dei paesi del Terzo Mondo e lo stato di fiducia degli operatori (sia italiani che stranieri) sul sistema delle regole è crollato, con il prevalere della cultura di «nerolandia, tangentopoli e mafiacity» (per citare le espressioni contenute nel bilancio degli ultimi vent’anni tracciato nella Lectio magistralis dall’ex Presidente della Corte Costituzionale Giovanni Maria Flick in occasione della Laurea honoris causa in Economia e Istituzioni finanziarie conferitagli giovedì scorso dall’Università degli Studi di Genova). Ha concluso la sua Lectio Giovanni Maria Flick con queste parole: “… chi ha un ruolo e un dovere istituzionale (…) Deve esprimere una cultura della legalità in termini globali; deve coinvolgere la collaborazione delle vittime potenziali, dei partiti e delle forze politiche a tutti i livelli (centrali e locali), del mondo del lavoro, dell’imprenditoria, della gente, della scuola e dei giovani. L’evasione fiscale; la corruzione sui diversi livelli; l’aggressione all’economia e al risparmio di tutti; l’alterazione della competitività e della libertà di impresa; l’inquinamento mafioso: sono tutti aspetti di una comune aggressione alla dignità, alla libertà e alla democrazia, che certamente aggrava la situazione di crisi finanziaria, economica, sociale e di valori, in cui ci battiamo e da cui cerchiamo di uscire. (…) Occorre però cominciare a comprendere anche che non si può convivere altresì con la corruzione, con il falso in bilancio, con l’evasione fiscale; perché continuare a convivere con questi ultimi, vuol dire rinunciare o meglio continuare – nonostante le apparenze – a convivere con la criminalità organizzata e con le sue infiltrazioni nell’economia legale”. Un programma di riforme che incide enormemente sull’economia reale che tutta la sinistra ha il dovere di fare proprio, di sostenere e di porre in cima alla graduatoria delle promesse elettorali.
Mi piace credere che l’intelligenza del Senatore Enrico Morando saprà tenere in debito conto queste mie tenui recriminazioni. E con ciò ritengo di avere onorato la dedica apposta da Enrico sulla mia copia personale del libro, continuando a meritarmi “il suo affetto e la sua stima”.
 


[1] Il concetto della “produttività totale dei fattori”, viene citato nel libro ben otto volte senza che il lettore sia avvertito che la sua validità sconta un nesso di causalità che va dalla crescita dei fattori produttivi alla crescita dell’economia. Gli economisti dello sviluppo più attenti e più aggiornati sanno dell’esistenza di approcci alternativi alla crescita dell’economia in cui è quest’ultima (o la mancata crescita) ad influire sul progresso tecnico (nella sua forma incorporata nei nuovi macchinari) e sulla produttività del lavoro, consentendo il riassorbimento della disoccupazione tecnologica.
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