“In un paese ricco la povertà è una questione di distribuzione del reddito.”
Hyman P.
Minsky, Combattere la povertà. Lavoro non assistenza, Ediesse, Roma
2014, p. 113
Scrive Daniele Archibugi, nella recensione al libro di Hyman Minsky citato
nell’epigramma, che “ci sono due modi per combattere la povertà. Il primo è
elargire sussidi che consentano agli indigenti di far fronte ai loro bisogni
più impellenti. Il secondo è di trovare lavoro per tutti, in maniera che ogni
famiglia possa provvedere alle proprie esigenze tramite i salari guadagnati. Il
primo modo scaturisce dalla carità e ha generato molte delle istituzioni dello
stato assistenziale. Il secondo ha invece condotto alle politiche attive del
lavoro e spesso alla diretta creazione di impiego da parte del governo”.[1]
Non so se, scrivendo il suo apprezzatissimo intervento sulle nuove forme di
povertà apparso su CorriereAl qualche giorno fa, don Ivo Piccinini fosse a
conoscenza del libro di Hyman Minsky (1919-1996), un economista statunitense
autenticamente keynesiano e famoso per le sue tesi sull’instabilità finanziaria
del sistema capitalistico, del quale quest’anno ricorre il ventesimo
anniversario della scomparsa. Così come non so se don Ivo conoscesse l’articolo
pubblicato da Daniele Archibugi su Il Manifesto nel dicembre del 2014 in
occasione della pubblicazione dell’edizione italiana del libro di Minsky. Resta
il fatto che questi due economisti forniscono una serie di indicazioni che
vanno nella stessa direzione auspicata da don Ivo Piccinini. Ho così pensato di
suggerirgliene la lettura, cosa che suggerisco anche a quanti ancora non
percepiscono l’esistenza del problema delle «nuove povertà», tema da me
segnalato qualche anno fa per una tesi di laurea ad un mio studente, poi
brillantemente laureatosi in quella materia.
La povertà, infatti, ha molte facce, e non
è buona cosa assimilare la piaga della povertà estrema (quella, per intenderci,
di coloro che vivono con meno di due dollari al dì) - una forma di povertà che
colpisce ancora poco meno di un miliardo di abitanti del globo -,
principalmente concentrata nei paesi africani, con le cosiddette «nuove
povertà». Trattasi di una piaga, quella delle «nuove povertà», che interessa
sempre meno marginalmente i paesi occidentali, e la cui causa va ricercata
nelle crescenti disuguaglianze create dalla globalizzazione selvaggia. Scrive
don Ivo: “In alcune famiglie dove prima entravano due stipendi è arrivata la
disoccupazione per entrambi i coniugi se questi lavoravano nella stessa
azienda”. «Povero», infatti, non è solo colui che non dispone di reddito
sufficiente per sé e per la sua famiglia, la cosiddetta «povertà di reddito»,
una delle molteplici dimensioni che la «povertà» assume, ma più in generale
sono «poveri» tutti coloro i quali, pur possedendo un reddito sufficiente, non
si trovano nella condizione di poter scegliere in piena libertà tutte le
opportunità che l’economia in cui vivono offre loro. Mi riferisco in
particolare alla «povertà di genere», che affligge molte donne in tutte quelle
realtà nelle quali esse sono prive dei più elementari diritti civili; alla
«povertà di istruzione», giacché la mancanza di istruzione è la prima causa di
povertà; alla «povertà dovuta alla mancanza di acqua e alla possibilità di
curarsi», ma soprattutto - e questa è una forma di povertà che affligge molte
persone che vivono nei paesi occidentali -, alla «povertà culturale», vale a
dire quell’assenza di cultura che riguarda tutti coloro che non accettano “che
anche altri possano godere delle libertà di cui loro stessi godono”. Mi riferisco
in buona sostanza a tutte quelle forme di intolleranza delle quali proprio in
questi giorni i mezzi di comunicazione ci danno quotidianamente notizia.
Per tornare alla questione sollevata da
don Ivo, quella che riguarda quali “risposte possiamo dare ai poveri che
abbiamo da tempo tra noi e ai nuovi poveri che arrivano tra noi”, riflettevo
proprio nei giorni scorsi sul fatto che le nostre città sono ormai invase da
persone che chiedono la carità lungo le strade, nelle stazioni, sui treni,
davanti agli ospedali, al cimitero, ai supermercati, ovunque. Proprio come
accadeva nella prima metà dell’Ottocento nella Grande Londra agli inizi della
Rivoluzione Industriale. Questa “invasione di poveri” non è dovuta solo alle
guerre in atto nei Paesi asiatici e alla crisi economica nella quale la
finanziarizzazione dell’economia ci ha fatto precipitare negli ultimi otto
anni, ma anche all’incapacità dei responsabili delle Istituzioni dell’Unione
Europea di uscire dalla “gabbia dell’economia liberista”, una visione economica
che impedisce di comprendere e di governare gli effetti della globalizzazione,
nonché di affrontare seriamente il problema delle disuguaglianze che sta
erodendo la fiducia dei cittadini nella democrazia.
Qui da noi, gli addetti ai lavori (leggi
il Ministero dello Sviluppo economico) stanno iniziando soltanto ora (con
qualche anno di ritardo rispetto ad alcuni altri paesi europei) a ad affrontare
il nuovo paradigma della “Quarta Rivoluzione Industriale”. Trattasi della cosiddetta
«Industria 4.0» legata alla digitalizzazione dei processi produttivi. Secondo
taluni recenti studi, questa nuova Rivoluzione provocherà nei prossimi anni
alcuni milioni di disoccupati nelle economie dei paesi occidentali, soprattutto
in quelle mansioni che saranno svolte dalle macchine.[2] Un
fenomeno, questo, noto come «disoccupazione tecnologica», la cui importanza per
la nostra generazione era già stata preconizzata da John Maynard Keynes già nel
1930. Egli scriveva che:
(…) negli ultimi dieci anni i progressi
della tecnica per quanto riguarda la manifattura e i trasporti si sono
susseguiti a un ritmo fin qui sconosciuto. (…) Potremmo quindi essere alle
soglie di un passo avanti nella produzione alimentare delle stesse dimensioni
di quello che ha interessato l’estrazione di materie prime. Nel giro di pochi
anni – intendo nell’arco della nostra vita – potremmo portare a termine ogni
operazione connessa a queste attività con un quarto dello sforzo necessario
oggi.
Al momento la rapidità stessa di questi
cambiamenti ci turba, e ci pone problemi di non facile soluzione. Per
paradosso, i paesi più attardati sono anche più tranquilli. Noi abbiamo invece
contratto un morbo di cui forse il lettore non conosce ancora il nome, ma del
quale sentirà molto parlare negli anni a venire – la «disoccupazione
tecnologica». Scopriamo sempre nuovi sistemi per risparmiare forza lavoro, e li
scopriamo troppo in fretta per riuscire a ricollocare quella forza lavoro
altrove”.[3]
Economisti
come Hyman Minsky e Daniele Archibugi, che non a caso si rifanno al
pensiero keynesiano più autentico, ci rammentano che il solo rimedio sicuro al
problema della povertà è il «lavoro» e non la «carità», per quanto è
quest’ultima che nell’emergenza, ma soltanto in quel caso, a doversi fare
carico della mancanza di lavoro e della mancanza di cultura economica delle
nostre classi dirigenti, le quali soggiacciono al fascino dei «mercati
finanziari» e del pensiero unico neoliberista.
La Salle, 9 luglio 2016
[1] D. Archibugi, Hyman Minsky, Il profeta della miseria in mezzo
all’opulenza, Il Manifesto, 5 dicembre 2014. Allievo di Federico Caffè,
Daniele Archibugi, si legge sulla sua Home Page
(http://www.danielearchibugi.org/), è “un
Dirigente del Consiglio Nazionale delle Ricerche (CNR) a Roma, affiliato all’Istituto
di Ricerche sulla Popolazione e le Politiche Sociali (IRPPS), e professore di Innovazione Governance e Politiche
Pubbliche all’Università di Londra, Birkbeck College, School of
Business, Economics and Informatics”. Economista forse più noto
all’estero che nel suo paese, “si occupa di
economia, di politica dell’innovazione e cambiamento tecnologico e di teoria
politica delle relazioni internazionali”.
[2] Paolo Baroni, su La Stampa di giovedì 7 luglio, ci informa che il
Ministro dello Sviluppo Economico Carlo Calenda sta predisponendo (con qualche
anno di ritardo rispetto alla Germania) il “Piano” del Governo per affrontare
la rivoluzione dell’Industria 4.0. Sempre meglio tardi che mai.
[3] J. Maynard Keynes (1930), Possibilità economiche
per i nostri nipoti, Adelphi, Milano 2009.