“(...) Dicevo a me stessa:
se tutti noi , che non possediamo niente,
non ci facciamo più vivi dove sono in mostra le
cose da mangiare,
si potrebbe pensare che non abbiamo bisogno di
niente.
Ma se noi ci veniamo e non possiamo comprare
niente
Si sa come stanno le cose”.
Bertolt Brecht, L’acquirente in Poesie, Einaudi,
Torino 1992, pag. 119.
Stando ad una definizione
corrente, il tasso di interesse è il rapporto tra l’interesse (la cifra che chi
prende a prestito una certa liquidità si impegna a corrispondere a colui che
gliela cede) e il capitale preso a prestito. Esso rappresenta una misura del
rischio connesso alla solvibilità, ossia la maggiore o minore fiducia circa la
restituzione del prestito stesso da parte del debitore alla scadenza: più alto
è il rischio, più elevato è il tasso di interesse. In ogni momento esiste un
certo ventaglio di tassi d’interesse, specie se si guarda al panorama degli
impieghi finanziari del risparmio. Solo per fare qualche esempio, quando le
«banche di credito», vale a dire le istituzioni dedite al finanziamento
all’«economia reale» - la raccolta del risparmio e all’impiego della liquidità
raccolta in attività produttive -, affidavano il loro compenso esclusivamente
alla concessione di prestiti alle persone e alle imprese, le loro aspettative
di guadagno riposavano sulla differenza tra il tasso d’interesse attivo -
quello concesso sui depositi a coloro che affidano i loro risparmi alle banche
-, e quello passivo, ovvero il tasso d’interesse richiesto dalle banche stesse
a chi necessita il prestito. Un tasso d’interesse un poco più elevato viene
inoltre offerto dalle banche sui prestiti obbligazionari emessi dalle stesse
(ad esempio per la raccolta del risparmio volto a finanziare la concessione di
mutui sull’acquisto di abitazioni); infine, un tasso d’interesse ancora
maggiore (perché più rischioso) viene poi offerto dalle banche a copertura
delle operazioni legate ad attività di rifinanziamento (le cosiddette
«obbligazioni subordinate»). Le «banche d’affari», invece, quelle che
raccolgono il risparmio da impiegare in attività finanziarie e speculative,
offrono un ventaglio di tassi d’interesse in relazione alla minore o maggiore
rischiosità dell’investimento. Un tasso d’interesse zero (o quasi), infine, è
quello attualmente fissato dalle Banche centrali - il cosiddetto «tasso di
sconto ufficiale» -, applicato alle banche commerciali sulle loro operazioni di
risconto, che agisce da parametro di riferimento per quello applicato dalle
banche di credito sui conti correnti dei clienti.
Se, come sta accadendo da qualche tempo, anche il tasso di
inflazione è prossimo allo zero, il tasso di interesse «monetario» (quello di
cui sopra) viene a coincidere con il tasso d’interesse «reale», ossia il tasso
di interesse al netto del tasso di inflazione. Infine, allo scopo di
incentivare le banche di credito ad impiegare la liquidità posseduta nella
concessione di prestiti alle imprese anziché lasciarla depositata presso la
Banca centrale europea (BCE), è stato sperimentato anche un tasso d’interesse
«negativo», ovvero una sorta di «tassa» sui depositi delle banche di credito
giacenti presso la BCE, che rende in tal modo costoso il deposito di liquidità
presso la banca Centrale.
Il tasso d’inflazione zero, invece, sta ad indicare che
nel periodo di riferimento (solitamente il trimestre) l’indice dei prezzi al
consumo, calcolato dall’ISTAT con riferimento ad un paniere di beni[1], non ha subito
alcuna variazione. Attenzione, però, che essendo l’indice dei prezzi una media
ponderata dei tassi di crescita delle categorie di beni considerate, può
accadere che l’aumento dei prezzi di qualche categoria (nella quale si è
manifestata inflazione) venga compensato dalla riduzione dei prezzi in qualche
altra categoria (in cui si è avuta una riduzione dei prezzi). Ragion per cui, a
seconda del diverso peso delle categorie di beni acquistate, alcuni consumatori
potranno subire una decurtazione nella loro capacità d’acquisto, quand’anche
l’indice generale dei prezzi risultasse uguale a zero. Si parla in questo caso
di «inflazione subita», quel fenomeno che interessa quei consumatori che
acquistassero esclusivamente la o le categorie di beni il cui prezzo fosse
aumentato.
L’inflazione è uno dei capitoli più controversi
dell’analisi economica. Il fenomeno inflazionistico, infatti, difficilmente può
essere ricondotto ad un’unica causa: l’intreccio di fattori economici,
politici e sociali che sono all’origine di un aumento generalizzato dei prezzi
è tale da rendere vano il tentativo di trovare una teoria
dell’inflazione in grado di fornire un’unica spiegazione
soddisfacente di questo fenomeno. Tant’è vero che il tentativo di
contrastare la deflazione da parte della Banca centrale europea (BCE) mediante
un consistente «alleggerimento monetario» (il cosiddetto “quantitative
easing”) non sembra aver ottenuto alcun apprezzabile risultato.
Il tasso di crescita dell’economia, infine, è misurato dal
tasso di crescita del Prodotto interno lordo (PIL), un indicatore che si
ottiene rapportando la «crescita economica» - ossia l’aumento del valore dei
beni e servizi finali verificatosi in un dato intervallo di tempo (solitamente
un trimestre) -, e il valore del PIL del periodo precedente. Si parla in questo
caso di tasso di crescita «congiunturale». Se il confronto avviene invece con
riguardo allo stesso periodo dell’anno precedente il tasso che si ottiene
prende il nome di crescita «tendenziale». In base ai dati resi pubblici nei
giorni scorsi dall’ISTAT, il tasso di crescita dell’economia italiana nel
secondo trimestre rispetto al primo è stato dello 0,0% («crescita
stazionaria»). Su base annua, invece – ossia facendo il confronto con il
secondo trimestre del 2015 -, il tasso di crescita è stato dello 0,7%.
Come per il fenomeno dell’inflazione, anche per quanto
riguarda la spiegazione della crescita economica, il fatto di ricondurre questo
fenomeno ad un’unica causa (o a una causa prevalente) riflette un particolare
angolo visuale, a seconda che si faccia riferimento ad un «paradigma» piuttosto
che ad un altro.[2] Così,
coloro che riconducono la spiegazione della crescita economica alla variazione
(positiva) dei cosiddetti «fattori produttivi»[3], offrono una
spiegazione del tutto differente rispetto a coloro che si rifanno ad altri
filoni di pensiero. Ad esempio, dal momento che il tasso di crescita
dell’economia si può esprimere sia come somma del contributo fornito dai
singoli settori produttivi - ciascun contributo essendo dato dal prodotto tra
il tasso di crescita di ciascun settore per il peso che lo stesso ricopre sulla
produzione complessiva -, sia come somma del contributo fornito delle singole
categorie di spesa (i consumi, gli investimenti, la spesa pubblica e le
esportazioni nette, ciascuno con il proprio peso), la Contabilità Nazionale
offre lo spunto per effettuare interpretazioni alternative rispetto a quella
basata sull’apporto dei «fattori produttivi». Va da sé che in ciascun filone
interpretativo la causa (o meglio le cause)
della crescita economica fa riferimento ad un qualche aspetto particolare del
fenomeno[4], senza alcuna
pretesa di fornire una interpretazione valida in misura esclusiva o maggiore
delle altre.
In un contesto in cui, grazie al tasso di interesse
prossimo allo zero, la politica monetaria perde gran parte della sua efficacia
nello stimolare la crescita (ed è dubbio che possa avere efficacia sul fenomeno
dell’inflazione), e la politica fiscale è stata lasciata dal Trattato di
Maastricht alla competenza dei singoli Stati nazionali (con i noti vincoli di
bilancio), un grazie a Nicola Saldutti per aver messo l’accento sull’Economia
dei «tre zeri». Facendo attenzione tuttavia a coloro che, propugnando ad
esempio “l’abbassamento delle tasse per aumentare la produttività”, ma
dimenticando che una parte consistente dell’aumento della produttività è
la conseguenza della crescita economica e non viceversa -, nascondono
dietro la loro “ricetta per favorire la crescita economica” interessi
particolari se non la propria ideologia.
La Salle, 14 agosto 2016
[1] Le otto classi dei beni di consumo
che concorrono a formare il paniere ISTAT utilizzato per calcolare l’indice dei
prezzi al consumo per le famiglie di operai e impiegati sono le seguenti: 1)
generi alimentari e bevande (21,52% del totale); 2) vestiario e calzature (11,0%); 3)
abitazione, combustibili ed energia elettrica (7,75%); 4) mobili, articoli di
arredamento, apparecchi,
utensileria e servizi per la casa (10,75%); 5) servizi sanitari e spese per la
salute (6,85%); 6) trasporti e telecomunicazioni (13,68%); 7) ricreazione,
spettacoli, istruzione e cultura (10,13%); 8) altri beni e servizi (18,32%).
[4] Gli studiosi dell’Economia dello sviluppo
hanno elaborato un ventaglio di teorie alternative a quella del Premio Nobel
Robert Solow - alla quale fa riferimento l’approccio riconducibile alla
variazione positiva dei cosiddetti «fattori produttivi» - che spaziano dai
lavori di grandi economisti come William Beckerman e Nicholas Kaldor,
propugnatori della crescita trainata dalle esportazioni; di Edward F. Denison e
Angus Maddison, fondatori del filone di pensiero che si ispira alla contabilità
della crescita; di Moses Abramovitz, e la sua teoria del catching up; del Premio Nobel
Douglass C. North che mette al centro dell’attenzione il ruolo che le
istituzioni esercitano sulla crescita economica; di Richard R. Nelson e Sidney
G. Winter, i quali hanno elaborato una teoria cosiddetta «evoluzionistica»,
fino a Nicholas Georgescu-Roegen, fondatore della cosiddetta bioeconomia. Ha
avuto pertanto buon gioco, Elhanan Helpman, uno dei massimi studiosi della
materia, a considerare «un mistero» il fenomeno della crescita. Cfr. E.
Helpman, “Il mistero della crescita economica” (il Mulino, Bologna 2008).