Nell’editoriale
a commento delle prime indiscrezioni sui contenuti del disegno di legge di
Bilancio – il provvedimento che il Governo è tenuto a presentare al Parlamento entro
il 20 ottobre -, il professor Fabio Pammolli scrive: “Il rallentamento
dell’economia ha acuito disuguaglianze che producono tensioni sociali,
incertezza e ostacolano le stesse prospettive di ripresa”, aggiungendo, poco
dopo che, “per la crescita, redistribuzione ed equità non bastano”.[1]
L’autorevolezza della fonte[2]
mi induce ad una insolita cautela. Se non ho inteso male, cosa peraltro sempre
possibile – il grande filosofo della scienza Karl Popper consiglia di iniziare
sempre una discussione con un “I may be wrong” (potrei sbagliarmi) –, il
professor Pammolli imputa al rallentamento dell’economia (la causa prevalente) l’acuirsi
delle «disuguaglianze» (effetto), le quali, a loro volta, inducendo tensioni
sociali e incertezza (altri effetti), finiscono per ostacolare le stesse
prospettive di ripresa (effetto di ritorno sulla causa). La catena degli
effetti a cascata sarebbe pertanto riconducibile al rallentamento dell’economia,
per contrastare il quale le sole politiche di redistribuzione ed equità non sarebbero
sufficienti. Occorrerebbe tuttavia preliminarmente chiarire sia il perché del rallentamento
dell’economia, sia l’origine delle disuguaglianze. Non ho dubbi che il
professor Pammolli sappia quali sono le cause del rallentamento dell’economia italiana
(che risalgono ai primi anni ’70 del secolo scorso)[3], così come sono
certo che egli sia al corrente del fatto che mentre si è ridotta la
disuguaglianza in termini di povertà assoluta a livello mondiale (quanto meno a
far data dai primi anni ’90), nello stesso tempo sono cresciute le
disuguaglianze in termini relativi sia negli Stati Uniti che nei paesi
dell’Unione Europea.
Stavo leggendo
proprio in questi giorni due libri tra loro strettamente collegati, non solo
per gli argomenti che trattano, ma per il legame intellettuale che unisce i due
autori: due letture interessanti che suonano a conferma di questa mia
interpretazione. Trattasi di Acrescita. Per una nuova economia, del professor
Mauro Gallegati (Einaudi, Torino, marzo 2016) e l’ancora fresco di stampa Le
nuove regole dell’economia. Sconfiggere la disuguaglianza per tornare a
crescere, del Premio Nobel Joseph E. Stiglitz (il Saggiatore, Milano, agosto
2016). Questi due altrettanto autorevolissimi economisti[4] ci spiegano, il
primo, che “L’edificio già traballante dell’economia dominante (la cui narrazione,
aggiungo io, pretenderebbe di curare la crisi economica con il teutonico «rigore»)
appare affidabile e sicuro come le abitazioni costruite sul Vesuvio”; il
secondo ci mostra invece come “Il nostro mondo economico – vale a dire il
modello di sviluppo impostosi dai primi anni ’70 del Novecento con l’avvento
del pensiero liberista – (sia) stato sovvertito anche da una nuova concezione
della relazione tra disuguaglianza e andamento dell’economia”. Opportunamente documentata
da Stiglitz con riguardo agli Stati Uniti (ma oserei dire osservabile in tutti
i paesi occidentali), la crescente disuguaglianza non sarebbe in alcun modo la
causa del rallentamento dell’economia reale, bensì la conseguenza (cioè
l’effetto) della prima. Partendo da una critica all’ormai famosa tesi di Thomas
Piketty[5],
per il quale l’osservata crescita della disuguaglianza andrebbe imputata al
fatto che la ricchezza sarebbe cresciuta più rapidamente rispetto al reddito, per
Stiglitz “non è possibile dare una spiegazione teorica o empirica del crescente
divario tra reddito e ricchezza interpretandolo come risultato della continua
accumulazione di beni capitali attraverso il risparmio originato dal reddito”. Tale
divario, che è all’origine delle disuguaglianze, deriverebbe infatti dal
cambiamento delle regole che strutturano l’economia, in combinazione con gli
effetti di alcune grandi forze globali (la tecnologia, la globalizzazione, le
tendenze demografiche e i mutamenti climatici).
La tesi di
Stiglitz si fonda sulla distinzione, che egli pone al centro della sua analisi,
tra «il capitale» inteso come accumulazione degli investimenti reali che
determina la capacità produttiva di un sistema economico, e «la ricchezza» ottenuta
dall’accumulazione della rendita derivante dalla crescente finanziarizzazione
dell’economia. In quest’ottica, la crescente disuguaglianza che si riscontra
tra i percettori del reddito frutto della produzione di beni e servizi e i beneficiari
di quell’aumento del reddito “dell’1% più ricco della popolazione”[6],
non sarebbe in alcun modo ascrivibile al rallentamento della crescita
dell’economia reale, bensì ai cambiamenti intervenuti nelle regole che
strutturano l’economia e all’azione congiunta delle grandi forze globali citate
più sopra.
Il progressivo
rallentamento dell’economia americana (e di quello mondiale verificatosi
nell’ultimo mezzo secolo)[7]
sarebbe pertanto imputabile ai cambiamenti intervenuti nell’insieme “delle
leggi e delle politiche che definiscono la struttura dell’economia” le quali hanno
privilegiato la finanziarizzazione a scapito del sostegno al sistema
produttivo. Scrive in proposito Mauro Gallegati che il “trauma che stiamo
vivendo in questo momento assomiglia al dramma che abbiamo vissuto ottant’anni
fa, durante la Grande Depressione, (…) provocato dalla stessa causa (l’aumento
della produttività molto maggiore di quello della domanda) a cui si aggiunge
oggi la globalizzazione” (p. 64). A pagina 35 dell’Introduzione del libro di Stiglitz
è poi riportata un’immagine che sintetizza in maniera chiarissima la situazione:
“Possiamo immaginare – scrive Stiglitz – la lenta crescita dei redditi e
l’aumento delle disparità economiche come un iceberg”, alla sommità del quale (ovvero
la punta visibile dell’iceberg, quella che ci dà la percezione della disuguaglianza)
si osservano “retribuzioni modeste, indennità insufficienti e un futuro incerto”.
Sotto il pelo dell’acqua vi sarebbero “i fattori che generano questa percezione
(…): un sistema fiscale che genera un gettito insufficiente, che scoraggia gli investimenti
a lungo termine e premia la speculazione e i guadagni immediati; una
regolamentazione carente e un’applicazione permissiva delle norme che
dovrebbero disciplinare l’attività d’impresa; e l’abbandono delle politiche e
dei provvedimenti mirati al sostegno dei minori e dei lavoratori”. Alla base
dell’iceberg, infine, vi sono “le grandi forze globali che condizionano
l’evoluzione di tutte le economie moderne: la tecnologia, la globalizzazione e
le tendenze demografiche”, fattori ai quali, dopo poche righe, aggiunge gli
effetti imputabili ai cambiamenti climatici.
Si può
uscire dalla trappola della disuguaglianza? Parrebbe di no, dal momento che,
per quella che Gallegati chiama «la Teoria economica dominante» (che non
prevede le crisi), e che Stiglitz etichetta come «visione disfattista», “le
forze alla base della nostra economia non possono essere gestite” (p. 34,
corsivo nell’originale). “Se non agiamo sulle leggi, sulle regole e sulle forze
globali – scrive Stiglitz a conclusione della sua Introduzione – potremo fare
ben poco”. (Ma noi) possiamo rimodellare la parte centrale dell’iceberg, cioè
le strutture intermedie che determinano il modo in cui si manifestano le forze
globali. Questo significa che il modo migliore per garantire sicurezza e opportunità
economiche è intervenire negli ambiti tecnocratici del diritto del lavoro,
della governance aziendale, della regolamentazione finanziaria, degli accordi
commerciali, della discriminazione codificata, della politica monetaria e
nell’imposizione fiscale”. Detto in altri termini ciò significa che, coerentemente
con il pensiero keynesiano, il sistema economico lasciato a sé stesso «non
tende per necessità al migliore fine», ma che per correggerne i difetti (la
disuguaglianza, ma anche la disoccupazione involontaria) diviene opportuno
intervenire con opportune misure di Politica economica.
Ma come si
è giunti a questo punto? Si chiede Stiglitz. Si è giunti a questo punto perché
“il modello economico era sbagliato. A partire dagli anni settanta, le regole
del gioco sono cambiate, distruggendo l’equilibrio di potere economico
raggiunto nei tre decenni successivi alla Seconda guerra mondiale”, e l’elenco
dei cambiamenti è impietoso:
.>.“Nel
settore privato – cito testualmente – la finanza non è più al servizio
dell’intera economia, ma solo di sé stessa. Le grandi società non operano a
vantaggio di tutti i portatori di interessi – dipendenti, azionisti e dirigenti
–, ma solo del top management, con il pretesto di generare «valore per gli
azionisti». L’aumento del potere di mercato di poche imprese in alcuni settori
chiave ha ridotto la concorrenza. Risultato: comportamenti miopi,
sottoinvestimento nell’occupazione e nel futuro, bassa crescita, prezzi più elevati
e maggiore disuguaglianza.
.>. Il
nostro sistema fisale incoraggia la speculazione invece che il lavoro, crea
distorsioni nell’economia e serve gli interessi dell’1% più ricco”.
.>. Le
politiche monetarie e fiscali, troppo incentrate sulla difesa da certi rischi
(deficit di bilancio e inflazione), ignorano le vere minacce alla prosperità
economica, ossia la crescente disuguaglianza e il sottoinvestimento, e hanno
prodotto più disoccupazione, più instabilità e meno crescita.
.>. Nel
mercato del lavoro, i cambiamenti delle istituzioni, delle leggi, delle norme e
dei regolamenti hanno indebolito il potere dei lavoratori, che ora hanno
difficoltà a contrapporsi agli eccessi di potere di mercato delle imprese (…).
.>. Questi
problemi sono ancora più gravi per chi è vittima di discriminazione o parte da
una posizione svantaggiata. Il mercato favorisce la trasmissione dei vantaggi
economici attraverso le generazioni, e la discriminazione ha impedito a larghe
fette della popolazione di sviluppare il proprio capitale umano e di accumulare
ricchezza” (pagine 40-41).
Questa
lunga citazione, corredata anche solo dai titoli di alcuni dei paragrafi che
formano la prima parte del libro dedicata all’illustrazione delle “Regole
attuali”[8],
potrebbe benissimo rappresentare una sorta di «Manifesto dei progressisti» per tutti
coloro che ancora credono che l’Unione Europea abbia un futuro. In ogni caso, a
questo punto, ciascuno di noi avrà sicuramente le idee più chiare su chi sarà
il prossimo Presidente degli Stati Uniti, sul perché anche nelle elezioni dei
singoli paesi nell’Unione europea si affermano i populisti e su chi ha rubato
il futuro ai propri figli.
Alessandria,
16 settembre 2016