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Dietro la notizia
Azzardi e grandi scommesse
Bruno Soro

“Io e il mio pubblico ci capiamo benissimo: lui non sente ciò che io dico e io non dico ciò che lui vorrebbe sentire”.

Karl Krauss, Detti e contraddetti, Biblioteca Adelphi 38, Milano 1972

 

Non sono un giocatore. Per non correre il rischio di vincere il premio della Lotteria di Capodanno ho perfino sempre evitato di acquistare un biglietto. Ritengo pertanto di avere poca dimestichezza nel trattare il tema degli «azzardi e delle grandi scommesse», conoscendo a malapena il significato economico di termini quali «rischio» e «incertezza», sui quali mi sono già espresso in altre occasioni.[1]

Consideriamo la seguente successione di eventi. Con la dichiarazione di guerra alla Serbia, a seguito dell'assassinio di Francesco Ferdinando, erede al trono dell’Impero austro-ungarico, Francesco Giuseppe I d’Austria (1914) ha dato avvio alla Prima guerra mondiale, provocando in tal modo l’autodistruzione del suo Impero e l’esautorazione di coloro che avevano scommesso sull’esito di una facile guerra. Sopravvalutando la potenza economica e militare della Germania, il 1º settembre del 1939, con l’azzardo dell’invasione della Polonia, il dittatore Adolf Hitler ha provocato, pensando di vincerla, lo scoppio della seconda guerra mondiale. L’esito di questa guerra si è rivelato disastroso sia per la Germania, che per l’Europa ed il mondo intero.

Per venire ad azzardi e grandi scommesse più recenti, nel 1998, Massimo D'Alema, Segretario del partito dei Democratici di Sinistra (DS), dopo avere perso la scommessa sulla tenuta del "patto della crostata", e conseguente fallimento della Commissione parlamentare per le riforme costituzionali da lui presieduta, succedendo al primo Governo Prodi è divenuto Presidente del Consiglio (il Governo d’Alema I). Dopo l’uscita dalla maggioranza di Rocco Buttiglione e di Francesco Cossiga, e con l’intento di favorire un rimpasto di governo che tenesse conto degli equilibri della nuova maggioranza, D’Alema scommette sulla crisi di governo. Ottenuto dal neo eletto Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi l’incarico di dar vita al Governo d’Alema II, mette in gioco la sua personale autorevolezza sull'esito delle elezioni regionali tenutesi il 16 aprile del 2000. A seguito della sconfitta della coalizione di centro-sinistra (che non ha visto riconfermata la guida delle regioni Liguria, Lazio, Abruzzo e Calabria), con un gesto dallo stesso considerato “un atto di sensibilità politica”, dopo soli quattro mesi e tre giorni D’Alema si dimette da Presidente del Consiglio. Gli succederà il Governo di Giuliano Amato.

Procedendo nella successione degli eventi ed estendendo lo sguardo sul mondo, con l’azzardo dell’invasione dell’Irak e la Guerra del Golfo del 2003, George W. Bush scommette sulla eliminazione di Saddam, provocando in realtà un focolaio mediorientale che ha causato ingenti danni agli stessi Stati Uniti ed è tuttora gravido di conseguenze. Otto anni dopo, senza concordare alcun prioritario consenso con l’Unione Europea della quale la Francia fa parte, il Presidente francese Nicholas Sarkozy, per ragioni personali, scommette sulla eliminazione di Gheddafi. Dopo aver coinvolto in una guerra anche alcuni paesi europei, con quell’azzardo ha attizzato un focolaio nel Nord Africa le cui conseguenze, anche in termini di immigrazione, si stanno rivelando un disastro sia per la Francia che per tutti i paesi europei. Alle elezioni presidenziali successive non verrà rieletto.

Durante la crisi greca del 2015, il valente economista (e pessimo politico) Yanis Varoufakis azzardò la scommessa di uscire vincitore nella sua battaglia personale contro l'austerità (teutonica) che governa le istituzioni dell'Unione Europea. Eletto deputato e dopo essere stato nominato Ministro delle Finanze nel primo Governo Tsipras, Varoufakis scommette su un esito positivo del referendum indetto per il 5 luglio 2015, motivando la sua scommessa col fatto che "non bisogna distruggere ma cambiare l'Europa, perché uniti (all’Europa) si è più forti e si pesa di più”. Siccome il 61% degli elettori respingerà il “programma proposto dai creditori per risolvere la crisi del paese”, il giorno successivo all’esito del referendum Varoufakis annuncia le sue dimissioni, volte a “favorire la trattativa con l’Eurogruppo” [2], ed esce di scena.

Il Primo Ministro inglese David Cameron, al fine di consolidare il suo potere all’interno del suo partito e scommettendo sul fatto che i cittadini del Regno Unito avrebbero confermato la permanenza nell'Unione Europea come fecero nel primo referendum del 1975, indice il referendum che provoca la Brexit. Con la svalutazione della sterlina e la minacciata uscita dalla City di Londra di importanti banche europee, la maggioranza degli elettori inglesi, consapevole del danno arrecato al proprio paese, parrebbe essersi già pentita, anche se le conseguenze dell’uscita della Gran Bretagna dalla UE stanno appena iniziando a manifestarsi. Dopo l'esito del referendum David Cameron si dimette ed esce di scena.

Digiuno di esperienza parlamentare e dopo avere conquistato la segreteria del Partito Democratico grazie a primarie aperte anche ai simpatizzanti, Matteo Renzi gioca d’azzardo. Dopo avere disarcionato il suo predecessore Enrico Letta, che a suo dire avrebbe dovuto “stare sereno”, nonché con l’aiutino del Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, diviene Presidente del Consiglio dei Ministri. A capo di un Esecutivo nel quale tecnici e politici competenti «nell’arte di governare» sono una rarità, egli ha puntato tutto – ovvero la sua permanenza a Palazzo Chigi, ma anche la sua permanenza in politica –, su una riforma costituzionale e su una legge elettorale che, nel caso in cui la prima venisse approvata (a legge elettorale immutata), alle prossime elezioni è assai probabile che tutto il potere politico (uno dei tre poteri su cui si regge l’ordinamento costituzionale) venga consegnato nelle mani di un comico prestato alla politica. Un comico che, con i suoi strali urlati, aizza drappelli di parvenu e un esercito di populisti che credono nell’utopia della democrazia diretta via internet. Di fronte ad un simile azzardo, “lui speriamo che se la cavi”.

Temo tuttavia che l’esito del referendum sulle modifiche della Costituzione si risolverà, come nel caso dei due referendum di cui sopra (ancorché su quesiti ben diversi), con la vittoria dell’exit (di Renzi). Ciò a causa, da un lato, di un diffuso malessere che si percepisce tra la popolazione, sfibrata dopo otto lunghi anni da una crisi economica che sembra non finire mai, dall’altro, in seguito ad un sentimento “anti-renziano” da lui stesso provocato, stante il suo atteggiamento a dir poco «divisivo»: dal suo attacco ai sindacati, dall’essersi inimicato una consistente fetta dell’elettorato del suo stesso partito e, inoltre, essendosi alienato, per via di una rottamazione più annunciata che perpetrata (alcuni dissenzienti se ne sono andati da soli fuori dal PD), frange significative del partito stesso. In ultimo, ma non per questo meno importante, per aver ironizzato sui «gufi» e i «parrucconi», due categorie di persone formate in prevalenza da «tecnici» e professionisti assai più competenti e scafati (nelle questioni economiche e costituzionali) sia di lui che del Ministro alle Riforme Maria Elena Boschi. Tutti uniti, quindi, contro il suo Governo. La sola cosa che potrebbe minimamente salvarlo è il giudizio degli elettori sulla multiforme (e «cattiva», nel senso che le madri consigliano ai figli di non frequentare) compagnia che si oppone al referendum.

Infine, in un raro momento passato davanti ad una televisione accesa, ho sentito l’On. Giorgia Meloni, a capo del movimento Fratelli d’Italia–Alleanza Nazionale, affermare che, nel caso in cui la sua formazione politica giungesse ad avere responsabilità di governo, ella si farebbe promotrice di una legge per riformare l’articolo 75 della costituzione, quello che vieta il ricorso al referendum in materia di ratificazione dei Trattati internazionali. Ciò al fine di giocare l’azzardo di un referendum per l’uscita dell’Italia dall’Unione Europea, sfilando in tal modo una freccia dalla faretra del segretario della Lega Nord Matteo Salvini, il quale in materia la pensa esattamente come lei. Stanti tutti questi esempi temerari di (politicamente parlando) «azzardo morale», “noi speriamo che ce la caviamo”.

Per concludere, vorrei esplicitare la mia opinione sul futuro dell’Europa: temo purtroppo che l’onda montante dei nazionalismi e dei populismi potrebbe contribuire a sfasciare ciò che resta dell’Unione Europea. Tutto ciò, con la complicità:  i) dell’ottusità delle istituzioni europee, vincolate dai Trattati ad una assurda politica di austerità; ii) di una politica fiscale diversificata a livello europeo, nonostante la presenza di una moneta unica (cosa che accentua le disuguaglianze); iii) del ritardo con il quale si procede lungo il percorso che porta alla costruzione di una Unione federale, l’unica prospettiva che potrebbe salvarla dall’implosione[3]; iv) infine, con la complicità dovuta al fatto che le Istituzioni dell’Unione Europea sono solo in parte elette democraticamente dai «cittadini europei». Mi riferisco in particolare alla Commissione Europea (che dovrebbe essere il Governo dell’Unione federale), tenuta in scacco dalle «visioni corte» - per dirla con il compianto Ministro del Tesoro e dell’Economia Tommaso Padoa-Schioppa -, dei governi nazionali e di piccoli Stati federali (penso al recentissimo veto di una minuscola area come la Regione Vallone), ma anche al Parlamento europeo, il quale, ancorché eletto direttamente dai cittadini, è di fatto privo di potere effettivo.

Aggiungo infine che, in assenza di una entità sovrannazionale in grado di gestire una politica fiscale saldamente in mano ad un governo federale, il fatto di aver anteposto l’introduzione della moneta unica all'unione politica (di tipo federale), rischia non solo di ostacolare la costruzione di uno Stato federale, ma, paradossalmente, di comprometterne del tutto la realizzazione. Parola del grande economista e politico inglese Lord Nicholas Kaldor[4] (1908-1986), il quale, in uno scritto del 1971 - a commento delle idee contenute nel Piano Werner[5] -, inascoltato sosteneva che: “Un giorno le nazioni dell’Europa potrebbero essere pronte a fondere le loro identità nazionali e creare una nuova nazione Europea – gli Stati Uniti d’Europa. Se e quando ciò venisse realizzato, un Governo Europeo dovrà assumere su di sé tutte le funzioni di un governo Federale sul tipo di quello in uso negli USA, in Canada o in Australia. Tutto ciò implica la creazione di una «piena unione economica e monetaria»”.  é a questo punto che Kaldor lancia il suo monito: “è un grave errore credere che l’unione economica e monetaria possa precedere (in corsivo nell’originale) la creazione di un’unione politica. La creazione di una unione monetaria ed il controllo sui bilanci nazionali genererà pressioni tali da provocare grandi tensioni nell’intero sistema, tensioni che potrebbero non promuovere il raggiungimento di una unione politica, bensì impedirne la realizzazione” (traduzione mia).[6] Esattamente quanto mi pare stia accadendo. Mai articolo fu così profetico sul destino del Regno Unito. Auguriamoci solo che non lo sia altrettanto con riguardo al destino e alla disillusione dilagante nei riguardi dell’Unione Europea.

 

Alessandria, 27 ottobre 2016



[1] Si veda Rischio zero, del gennaio 2016. In verità, in Economia il termine «azzardo» viene trattato nel capitolo dedicato alle «asimmetrie informative», ovvero quella situazione che si verifica quando, nella stipula di un contratto, uno dei due contraenti possiede maggiori informazioni rispetto all’altro (come accade, ad esempio, nella compravendita di auto usate). A livello macroeconomico, invece, l’«azzardo morale», si ha quando un operatore assume un comportamento particolarmente rischioso contando sulla possibilità di scaricare sulla collettività il costo (l’onere) delle sue scelte. Mi azzardo a dire che nella successione di esempi riportati nel testo, l’atteggiamento di «azzardo morale» può essere esteso anche (soprattutto) al contesto politico.

[2] In realtà, come lo stesso Varoufakis spiegherà qualche giorno dopo in una intervista al quotidiano australiano New Statesman, la sua decisione sarebbe stata presa in conseguenza della bocciatura del suo piano “da parte di un gruppo ristretto di ministri del gabinetto di governo”. Un piano che prevedeva sì di restare in Europa, ponendo però alcune condizioni, come quella di togliere il controllo della BCE sulla Banca di Grecia, che non sarebbero state in alcun caso accettate dalla Banca Centrale Europea e da Bruxelles. Si veda, in proposito, la voce «Varoufakis» su Wikipedia.

[3] Giova ribadire come nel medio-lungo periodo il solo modo per salvare la moneta unica ed impedire l’implosione della UE sia la trasformazione dell’Unione in uno Stato federale. Questa idea, che personalmente condivido, salvo qualche appello sporadico promosso da alcuni economisti, viene pervicacemente perseguita, pressoché in solitudine, dall’economista Yanis Varoufakis.

[4] Nominato nel 1974pari a vita con il rango di barone e, come tale, divenuto membro di diritto della Camera dei Lord”, i suoi discorsi tenuti alla Camera alta inglese in opposizione alla politica monetarista di Margareth Thatcher, raccolti in un volume, pur essendo di grande interesse per un largo pubblico e non solo per gli specialisti, non sono mai stati tradotti in lingua italiana.

[5] Un Piano nel quale si prospettava la costruzione di una Unione Europea attraverso un percorso articolato in tre distinte fasi: i) creazione di una Unione Monetaria; ii) armonizzazione dei sistemi fiscali e iii) controllo a livello europeo della gestione dei bilanci nazionali.

[6] N. Kaldor, The Dynamic Effects of the Common Market. Originariamente pubblicato In un articolo apparso su The New Statesman il 12 marzo 1971, questo articolo, poco conosciuto (e mai tradotto in italiano, salvo qualche riferimento ad esso rintracciabile sul sito www.https://keynesblog.com/), venne ripubblicato nel volume Destiny or Delusion? Britain and the Common Market, London 1971, successivamente incluso nella raccolta dei suoi scritti Further Essays on Applied Economics, Duckworth, London 1978, pagine 187-220.

30/10/2016 21:26:32
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