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Dietro la notizia
Euro-Exit
Bruno Soro
 

“Se l’uomo non vorrà fare più male che bene nei suoi tentativi di migliorare l’ordine sociale dovrà comprendere che in esso, come in tutti gli altri settori nei quali prevale la complessità di genere organizzato, egli non è in grado di acquisire la conoscenza piena che gli permetterebbe di dominare a fondo gli eventi”.

E.A. von Hayek, La presunzione del sapere, in F. Caffè (a cura di), Lezioni Nobel di Economia 1969-1976, Bollati Boringhieri, Torino 1978, pp. 181-218, citazione da p. 216.

...

Partendo dall’ipotesi che “è probabile che nel prossimo Parlamento italiano gli euro scettici siano in maggioranza, una nostra uscita unilaterale dall’euro non è più un’ipotesi remota, ma una possibilità seria, che va discussa con altrettanta serietà”, il professor Luigi Zingales, autorevole economista dell’Alta Scuola di Formazione Aziendale dell’Università di Chicago, in un articolo apparso su Il Sole 24 Ore di domenica 16 aprile ha lanciato la proposta di aprire un ‘dibattito serio e costruttivo’ sulla permanenza dell’Italia nell’euro. La superficialità con la quale il professor Zingales ha trattato un argomento come quello dell’euro-exit, che non è solo un tema ‘complicato’, vale a dire difficile da analizzare e risolvere mediante un ragionamento, bensì ‘complesso’, nel senso attribuito a questo termine nell’ambito della fisica della complessità[1], mi ha provocato un certo turbamento. Come ha correttamente evidenziato il professor Sergio Fabbrini, nel suo editoriale di domenica 23 aprile, sempre su Il Sore 24 Ore, nel suo articolo il professor Zingales ha sottovalutato alcune importanti questioni di natura giuridica (di diritto comunitario) e di natura politica, ma ciò che più sorprende è che pare essere sfuggito alla sua attenzione un importante problema (il ‘problema dei problemi’, a mio modo di vedere, per quanto attiene al futuro dell’Unione Europea) di Politica economica.

Sono certo che il professor Zingales conosce perfettamente che, a Trattati internazionali vigenti, l’uscita unilaterale dall’euro non è possibile e che, a Costituzione italiana vigente, un referendum consultivo sul tipo della Brexit non è attuabile (essendo previsto dalla nostra Costituzione solo il referendum abrogativo), così come non sarebbe ammissibile un referendum su materia di Trattati internazionali. Rammento inoltre che il combinato disposto degli articoli dal 121 al 124 del Trattato sull’Unione Europea sancisce che, fatta salva ai sensi del paragrafo 3 dell’art. 122, la concessione di una deroga permanente (hanno negoziato tale deroga solo la Gran Bretagna e la Danimarca), l’ingresso nell’euro non è una facoltà degli Stati membri dell’Unione Europea, bensì un obbligo.[2] Tant’è vero che per gli Stati appartenenti alla UE, ma non ancora entrati nell’Eurozona, la deroga ha una natura esclusivamente provvisoria.[3]

L’opinione dominante in materia tra gli esperti di Diritto dell’Unione Europea da me interpellati è che senza una modifica dei Trattati l’uscita dall’euro non sia possibile. In nessun caso, infatti, è prevista la procedura di espulsione di uno Stato membro e, al tempo stesso, tutta l’impalcatura europea è orientata a trattenere il paese in difficoltà e non ad estrometterlo. In linea di principio sarebbe tuttavia possibile la Rescissione del Trattato sull’Unione Europea in base alla clausola introdotta dal Trattato di Lisbona, entrato in vigore il 1º dicembre 2009. Tale clausola prevede la possibilità per uno Stato Membro che intendesse uscire dalla UE l’apertura di una procedura negoziale volta a definire le modalità del ritiro (come nel caso della Brexit), ritiro il cui esito è tutt’altro che scontato.[4] Pertanto, allo stato attuale, la permanenza di un Paese nella moneta unica è strettamente legata alla permanenza nell’Unione Europea: non si può uscire dall’euro rimanendo nell’Unione Europea.[5]

Ora, sono molti i segnali sulla scena politica (sia a livello internazionale che nazionale) che lasciano intendere le gravi difficoltà in cui si dibatte una stanca e per certi aspetti inane Unione Europea, ma da un economista avveduto ci si aspetterebbe un po’ più di precauzione nel trattare una materia che ‘agita le folle’. Riporto, a questo proposito, ciò che John Maynard Keynes ebbe a scrivere nelle “Note conclusive sulla filosofia sociale alla quale la Teoria Generale potrebbe condurre”: “La guerra ha parecchie cause. Dittatori e simili cui la guerra offre, almeno come aspettativa, una piacevole eccitazione, trovano facile operare sulla bellicosità naturale dei loro popoli. Ma al di sopra di questo, a facilitare il loro compito e ad alimentare la fiamma popolare, vi sono le cause economiche della guerra, vale a dire la pressione della popolazione e la lotta per la conquista dei mercati in concorrenza. A questo secondo fattore, che ha probabilmente rappresentato una parte principale nel diciannovesimo secolo, e potrebbe ancora rappresentarla, si riferisce in particolar modo questa riflessione.”

Il riferimento evidente di questo passo è alle guerre economiche causate dalle svalutazioni competitive tra le valute, cosa resa non più possibile all’interno dell’Eurozona, a seguito dell’entrata in vigore della ‘moneta unica’, la quale, in buona sostanza, altro non è che un ‘sistema di cambi irrevocabilmente fissi’, un sistema che comporta vantaggi per alcuni e svantaggi per altri. Mi permetto, a questo proposito, di rammentare ciò che è accaduto in seguito dell’implosione del ‘sistema di cambi fissi ma aggiustabili’ uscito dalla Conferenza di Bretton Woods del 1944. Dopo il primo (e sùbito fallito) esperimento del ‘Serpente monetario’, attuato dall’allora Comunità Economica Europea (CEE) a pochi mesi dall’implosione degli Accordi di Bretton Woods nell’agosto del 1971 (quando già la CEE stava pensando di introdurre al suo interno un sistema di cambi fissi) ha fatto seguito, sette anni dopo, con l’approvazione del ‘Sistema Monetario Europeo’ (SME) un secondo (e riuscito) tentativo. Essendo basato su un paniere di valute, anziché ancorato come il precedente ad una sola moneta (il marco tedesco), lo SME, oltre ad essere sopravvissuto agli attacchi della speculazione, è divenuto l’ossatura sulla quale è stata costruita la procedura in tre fasi che ha portato alla creazione dell’euro quale ‘moneta unica’ valida per tutti i paesi dell’Unione Europea. Lo SME, infatti, resta tuttora in vigore per quei Paesi della UE i quali, avendo l’obbligo e non la facoltà di adottare la moneta unica, non sono ancora entrati a far parte dell’Eurozona.

Tutto ciò premesso, il tema sul quale sarebbe opportuno aprire un ‘confronto serio e costruttivo’, anziché sull’Euro-exit, è sulle modalità con le quali affrontare il ‘problema dei problemi’, vale a dire come risolvere la questione degli squilibri negli scambi commerciali (intra UE e tra l’Unione Europea ed il resto del Mondo). Un tema sul quale ebbe ad esercitarsi John Maynard Keynes già nell’autunno del 1941, con l’elaborazione di quel ‘piano’, che si fondava su un contesto di cooperazione tra pari, progetto che fu poi solo parzialmente accolto nelle tre settimane di discussione che hanno preceduto l’approvazione degli Accordi di Bretton Woods.[6] Quel ‘piano’ prevedeva la creazione di una moneta unica (il «bancor»), che avrebbe dovuto essere gestita da una Banca centrale (la Banca Mondiale), di un meccanismo di compensazione degli squilibri commerciali e la creazione di un Fondo (il Fondo Monetario Internazionale) avente il compito di gestire gli aiuti ai paesi in difficoltà nella loro bilancia commerciale. Nel corso della discussione che ha portato alla definizione degli Accordi di Bretton Woods venne tuttavia preferito il sistema di ‘cambi fissi ma aggiustabili’ proposto dal suo antagonista, il giovane economista statunitense Henry Dexter White, portatore degli interessi degli Stati Uniti, che in quegli anni vantavano un consistente avanzo commerciale. Diversamente quindi dalla filosofia che aveva ispirato il ‘piano’ di Keynes, il sistema di cambi uscito dagli Accordi di Bretton Woods, era incentrato sulla supremazia del dollaro statunitense a sua volta ancorato all’oro. Di fatto, un ‘sistema aureo’ mascherato, contro il quale John Maynard Keynes si era battuto negli anni precedenti il secondo conflitto mondiale. Un sistema che ha retto poco più di un quarto di secolo, fino alla sua implosione a seguito della dichiarazione dell’inconvertibilità del dollaro in oro del Presidente Richard Nixon del 15 agosto 1971, sopraffatto dal volume di ‘eurodollari’ e di ‘petrodollari’ in circolazione (una massa monetaria amplificata dal fenomeno del ‘moltiplicatore della base monetaria’), unitamente al fatto che nel frattempo gli Stati Uniti da paese creditore erano diventati un paese debitore negli scambi commerciali.

Quell’esperienza insegna che, in assenza di un meccanismo di compensazione degli squilibri commerciali e in mancanza di un Fondo comune in grado di gestire gli aiuti ai paesi in difficoltà con la bilancia dei pagamenti, la creazione della moneta unica (in quanto sistema di cambi irrevocabilmente fissi) rappresenta solo una parziale realizzazione del ‘piano’ di Keynes improntato alla filosofia di una cooperazione tra pari: l’euro è destinato ad implodere nel momento in cui divenisse palese, a livello politico e sociale, la supremazia dei paesi che ne traggono vantaggio a scapito di quelli che ne subiscono gli svantaggi.

Concludo rammentando come la fragilità del processo di costruzione della moneta unica, con l’annesso rischio di implosione, fosse già stata lucidamente paventata da Nicholas Kaldor in un articolo del 1971 nel quale il grande economista dissenziente, oltre che acerrimo antagonista della politica monetarista della signora Margareth Thatcher,[7] ebbe a muovere le sue critiche al ‘Piano Werner’, vale a dire l’ossatura attorno alla quale è stata costruita l’Unione Europea così come è emersa dal Trattato di Maastricht del 1992.[8]

Secondo Kaldor, infatti, in assenza di un sistema fiscale federale, quando i paesi creditori si rifiutano di utilizzare il loro avanzo commerciale per compensare il disavanzo dei paesi debitori, questi ultimi sono condannati alla deflazione o alla recessione e profeticamente ammoniva che: «Qualora la creazione di una unione monetaria con una gestione dei bilanci lasciata di competenza agli Stati nazionali, ancorché soggetta ad un controllo esercitato a livello comunitario, generasse tensioni tali da provocare il crollo dell’intero sistema, anziché promuovere l’unione politica essa potrebbe contrastarne l’attuazione». A distanza di poco meno di cinquant’anni da quegli ammonimenti di Kaldor il confronto su questi temi, di stretta pertinenza della Politica economica, parrebbe non essere ancora iniziato.

I prodromi di un clima politico come quello che ha caratterizzato il periodo tra le due Guerre Mondiali sono già fin troppo evidenti. Aprire un confronto, a Trattati internazionali (in vigore) che non ne prevedono l’eventualità, sull’opportunità e sulle conseguenze di una ‘Euro-exit’, mettendo a confronto opinioni contrapposte come se si trattasse di materia da talk show, lascia sconcertati e richiama alla mente l’infausta esperienza di quegli anni bui del Novecento. Un’esperienza che si sperava rimanesse confinata nei libri di storia, ma che dovrebbe avere insegnato qualcosa. Anche agli economisti.

Alessandria, 15 maggio 2017



[1] Mi sia consentito il riferimento al mio Complicato e complesso, in Ragion Pratica, n. 36 (1), giugno 2012, pp. 297-306, nel quale ho richiamato l’attenzione sul filone di pensiero che, a partire dalle intuizioni di Ludwig von Mises e del Premio Nobel August von Hayek fino a giungere alle analisi incentrate sulla capacità analitica dei sistemi adattativi complessi, mette in evidenza l’impredicibilità del sistema sociale (del quale il sistema economico e quello politico sono due sottosistemi), in quanto «sistema complesso».

[2] Ciò è chiaramente espresso in un documento della BCE sugli aspetti legali della fuoriuscita dall’euro e/o dall’Unione Europea. Si veda P. Athanassiou, Withdrawal and Expulsion from EU and EMU. Some Reflections, Legal Working Paper Series N. 10 / December 2009.

[3] Il paragrafo 2 dell’art. 122 del Trattato di Maastricht recita: “Almeno una volta ogni due anni o a richiesta di uno Stato membro con deroga, la Commissione e la BCE riferiscono al Consiglio … (il quale, dopo aver consultato il Parlamento) deliberando a maggioranza qualificata su proposta della Commissione, decide quali stati membri con deroga soddisfano le condizioni (per l’ingresso nell’euro) e abolisce le deroghe degli Stati membri in questione”.

[4] La complessità giuridica, le difficoltà, le conseguenze e le tattiche negoziali della procedura di uscita della Gran Bretagna dalla UE sono analizzate con perizia e dovizia di particolari nel recentissimo libro di Roberto Caporale, Exeunt. La Brexit e la fine dell’Europa, Rubbettino Editore, Soveria Mannelli, 2017.

[5] Il ‘dibattito serio e costruttivo’ indetto dal professor Zingales andrebbe quindi fatto non su una eventuale, quanto impossibile, uscita dell’Italia dall’euro, quanto piuttosto su che cosa accadrebbe se il nostro paese dovesse uscire dall’Unione Europea. Va da sé che la perdita della qualifica di Stato membro dell’Unione comporterebbe il venir meno di tutti i benefici derivanti dell’appartenenza alla UE e, stante la situazione dei nostri conti pubblici, l’uscita dell’Italia dalla UE significherebbe di fatto il fallimento dello Stato italiano, con le conseguenze economiche e sociali che ne deriverebbero.

[6] Consiglio vivamente a quanti fossero interessati a comprendere la natura del contrasto di interessi economici sorto nell’ambito della discussione che ha preceduto la stesura degli Accordi di Bretton Woods tra gli Stati Uniti, rappresentati dal giovane economista Harry Dexter White, e la Gran Bretagna rappresentata da John Maynard Keynes, la lettura dell’interessantissimo libro di Benn Steil, “La battaglia di Bretton Woods”, Donzelli editore, Roma 2015. 

[7] E’ un vero peccato che non sia disponibile un’edizione italiana del (piccolo) volume che raccoglie i discorsi pronunciati da Nikolas Kaldor al Parlamento inglese, significativamente intitolato “The economic consequences of Mrs Thatcher”, Duckworth and Co. London 1983. L’attualità del pensiero Kaldoriano con riguardo alle scelte di politica economica sia in Italia che a livello europeo, con particolare riguardo alla ‘falsa apparenza del monetarismo”, è davvero impressionante.

[8] N. Kaldor, The Dynamic Effects of the Common Market, New Statesman, 12 March 1971, in Further Essays on Applied Economics, Duckworth, London, 1978, pp. 187-220.

16/05/2017 18:54:41
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