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Economia
Brexit
Maria Rita Gelsomino


Oggi 29 marzo prende avvio l’iter formale della Brexit, la lettera firmata da Theresa  May, con la quale Londra  richiede l’attivazione dell’art. 50 del Trattato di Lisbona per l’uscita dall’Unione Europea, è stata consegnata alle 12,30 dall’ambasciatore britannico al Presidente del Consiglio Europeo Donald Tusk.

Tempi stretti e strada lunga, un percorso irto di insidie l’iter preparatorio ai negoziati, quasi l’ accesso a un continente sconosciuto e inesplorato, uno sterminato labirinto burocratico pieno di ostacoli da superare e trabocchetti da evitare.

Incassato il via libera del Parlamento la May ha notificato al Consiglio Europeo la volontà del suo paese di uscire dall’Unione, e con essa la recisione di 40 anni di rapporti tra Inghilterra e Europa. Dopo due giorni, secondo le procedure, il Presidente del Consiglio Europeo risponderà al Governo britannico, con una bozza di percorso per regolare la nuova situazione creatasi nell’ambito dell’Unione, nominerà un negoziatore per avviare le trattative. Si sa già che il prescelto è Michel Barnier ex- Commissario per il mercato interno e poi per l’industria.  Quindi il Presidente Tusk fisserà la data per un Vertice Europeo dei 27 Membri, che dovrà approvare le linee guida del negoziato, che potrà tenersi entro aprile, massimo maggio. Il negoziato dovrà durare massimo 2 anni dalla data di richiesta di attivazione dell’art.50, quindi fino a marzo del 2019.  Una eventuale proroga dovrà essere concordata. Il documento degli accordi condivisi è necessario sia pronto sei mesi prima, entro ottobre 2018, per dare tempo al Parlamento inglese e ai Parlamenti dei 27 membri europei di conoscerlo e di approvarlo. In sostanza meno di 24  mesi per negoziare grandi questioni economiche, finanziarie e commerciali, i diritti dei cittadini europei nel Regno Unito  e quelli dei cittadini inglesi nei paesi europei, lo spostamento di agenzie europee da Londra ad altri paesi, i rapporti tra la borsa di Londra e quella di Francoforte a cui proprio oggi Bruxelles ha negato la richiesta di fusione, l’adesione a programmi del Fondo Europeo di Sviluppo o della Banca Europea degli investimenti, e molti altri temi di fondamentale importanza.  Scaduti i due anni senza un trattato di accordi che pianifichi i rapporti tra le due parti in causa, il Regno Unito sarà fuori senza più alcun legame con i paesi dell’Unione.

Si parla di hard Brexit e la May viene descritta decisa col “coltello tra i denti”, in realtà non ha mai pronunciato la parola hard per non apparire schiacciata sulla posizione degli oltranzisti come Farage, né l’aggettivo soft per non mostrarsi arrendevole e dispiacere ai conservatori del suo partito;  ha usato l’aggettivo clean  per accontentare tutti, esprimendo la volontà di ricerca del bene comune pur non riconoscendosi più nel mercato unico, con la risolutezza di esercitare un severo controllo dei flussi migratori, flussi che non riguarderanno più solo gli extracomunitari ma, dopo la Brexit, anche i cittadini europei.  La May si è rifiutata di fornire garanzia agli europei già residenti in Inghilterra, molti dei quali sono diventati classe dirigente in quel paese, che resteranno anche dopo il 29 marzo prima di ottenere la stessa per i cittadini inglesi residenti nei paesi europei. Questione scivolosa perché se Londra non accetterà il principio di libera circolazione delle persone, cadrà anche la possibilità di un accordo di associazione del tipo EFTA cioè di Associazione Europea di Libero Scambio come avviene per Norvegia, Islanda e Liechtenstein, che si basa sulla condivisione della libera circolazione delle persone , capitali, merci e servizi ma non sull’ assenso alle politiche. Forse in questa prospettiva la May, sostenuta dal segretario di Stato per il Commercio internazionale Liliam Fox, progetta di rinsaldare i rapporti economici e commerciali con i paesi del Commonwealth in una sorta di ricostruzione di Impero.2. Questi comprendono nell’insieme un terzo della popolazione mondiale e un’area del 15% del commercio dell’intero pianeta. Si tratta di un sogno che probabilmente non potrà realizzarsi, poiché come sostiene la loro portavoce Pauline Schnapper, Londra non si rende ancora ben conto di quanto il suo ruolo nel mondo sia cambiato dalla decolonizzazione e dalla sua entrata nell’Unione Europea, e che l’idea di indirizzare verso l’Australia e la Nuova Zelanda la quota di commercio che attualmente ha verso l’Unione è semplicemente assurda.

Come in tutti i divorzi che si rispettano, di vitale importanza è la questione soldi, chi deve pagare chi.  Secondo l’Unione, la Gran Bretagna dovrà sobbarcarsi a onorare gli impegni di bilancio presi precedentemente al referendum. In particolare quelli previsti dal Bilancio pluriennale UE 2014- 2020, cifra valutata tra i 55 e 65 miliardi di euro e pagare fino al 2020, anche se a partire dal 2019 potrebbe essere formalmente fuori dall’Unione Europea.

Ma i capitoli più importanti su cui trovare gli accordi restano due: la finanza e i rapporti commerciali.

Londra è una piazza finanziaria di grande importanza e continuerà ad esserlo ma con la Brexit, le sue banche rischiano di perdere i cosiddetti “diritti di passaporto” ovvero non potranno più essere sede di operazioni finanziarie trattate in euro. Per questo motivo molte grandi banche internazionali hanno dichiarato l’intenzione di trasferire i loro headquarters in altre nazioni europee. Ricordiamo che i servizi finanziari generano il 10% del Pil inglese.

Il tema più spinoso , dove si combatteranno le battaglie più sanguinose, resta quello dei rapporti commerciali. L’export britannico verso la Ue rappresenta il 40% del complessivo del paese e vale 187 miliardi di dollari. Il mandato di Barnier esclude un punto di grande importanza, quello degli accordi commerciali sui quali si comincerà a discutere dopo l’accordo raggiunto nell’area del commercio. Gli accordi commerciali ricadono nell’ambito dell’art. 218 che, a differenza dell’art. 50, non pone limiti temporali e quindi la discussione su ogni accordo potrebbe prolungarsi all’infinito.  Si sa, dai vari sondaggi effettuati, che agli inglesi preme mantenere ben saldi i legami commerciali con l’Europa e che hanno votato Brexit solo per poter controllare i confini autonomamente e senza vincoli : questi sono i grandi problemi per la May. Dal canto suo Bruxelles ha il coltello dalla parte del manico, e tiene il Regno Unito per la gola perché ha interesse soprattutto dimostrare agli altri paesi dell’Unione, e tra questi l’Italia, che l’adesione alla Ue è inappellabile , uscire dall’Unione costa lacrime, sangue e stridore di denti oltre che un sacco di quattrini, insomma il prezzo di una vera disfatta economica e politica .

Esiste infine la questione della Scozia che vuole ripetere il referendum e rimanere nella Ue, problema per ora non ancora affrontato e risolto, e, tra le questioni minori, dove verranno collocati i 200 funzionari inglesi attualmente impiegati a Bruxelles e chi pagherà loro la pensione : bazzecole, pinzillacchere avrebbe detto Totò.

Sappiamo però che con la Brexit se ne va quella parte di Europa che amiamo di più di cui abbiamo sempre ammirato le istituzioni e gli stili di vita, verso la quale non abbiamo mai avuto complessi di nessun tipo. Al di là della retorica di questi ultimi giorni, non sappiamo se per l’Italia e soprattutto la maggioranza degli italiani l’adesione all’Europa e poi all’euro abbia rappresentato un buon affare o se semplicemente siamo rimasti incastrati in un progetto che immaginavamo completamente diverso e dal quale non ne potremo più uscire. Sarà la storia a spiegarlo tra cinquant’anni alle generazioni future.  

29/03/2017 21:29:03
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