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Un realismo di ritorno al XXX Torino Film Festival
Maria Luisa Jori
Da più di un anno un  certo  numero di intellettuali   si mostra impegnato, in differenti articoli,  in una  discussione   sul  modo di intendere i «fatti». Il recupero di questo vecchio tema  teorico,  partito da una  argomentazione   sul  superamento del Postmodernismo, è stato aperto su “La repubblica”, nell’estate del 2011, da   Maurizio Ferraris, che  aveva  anche organizzato un convegno internazionale in merito. Pertanto  il  filosofo recentemente  ha   pubblicato  presso Laterza  il   Manifesto del nuovo realismo.  Ebbene c’è un cinema che  rispecchia questo indirizzo: i  sedici film in concorso quest’anno  nel consueto festival del cinema torinese (Tff, dal 29 novembre al 1dicembre 2012) complessivamente  raccontano la realtà in modo diretto, caratterizzandosi, sia per contenuto che formalmente, come “realistici”. Trattandosi di registi  giovani, secondo la tradizione del Tff, nato proprio come “Cinema giovani”, l’argomento predominante nelle opere di diversi paesi   riguarda la condizione giovanile d’oggi.  Per lo più  questi film   trattano il problema attraverso storie individuali, senza ricorrere esplicitamente a sfondi sociali.  Ma talvolta dietro le vicende dei personaggi si lascia intravedere  una situazione diffusa di miseria  e degrado.

Nel ceco/slovacco Az do mesta as / Made in ash  di Iveta Grófová,  la   disoccupazione dei giovani in un paesino della Slovacchia,  con conseguente loro emigrazione  nella repubblica ceca, mostra esemplarmente e  in  sottofondo la miseria in cui si è ridotta  quella popolazione   con la divisione in due di uno  Stato  una volta  unito, unico. La protagonista, interpretata da una bravissima attrice, priva e poi anche privata del lavoro, nonostante il suo sacrificio  da emigrante che ha dovuto abbandonare famiglia ed affetti, finisce in una situazione disperata che la spinge ad accettare la prostituzione e  infine, come minore dei mali,  il matrimonio con un vecchio tedesco. Un’altra storia di fuga in cerca di miglior fortuna è ambientata a Cuba, all’Avana in Una noche di Lucy Mulloy (Cuba/UK/USA, 2012, DCP, 90’), che ha come protagonisti due fratelli poco più che adolescenti ed un amico coetaneo, impegnati  in una drammatica lotta con le onde durante una notte  in pieno Oceano su un improprio,  pericoloso galleggiante, pur di arrivare sull’altra sponda, a Miami.

Il desiderio di fuga  dal proprio ambiente   in una giovanissima donna  è  raccontato anche in un film inglese, Shell di Scott Graham (UK, 2012, DCP, 87’).  E’ piaciuto molto al pubblico giovane, ma anche alla giuria che gli ha assegnato il premio principale del festival torinese.  Solitari e stretti in un rapporto dalle tentazioni incestuose,  un   padre e una figlia appena diciassettenne gestiscono una pompa  di benzina in un posto remoto delle highlands scozzesi. La vita della ragazza si svolge monotona e fa nascere in lei il sogno di una fuga, che però  potrà avvenire solo quando non dovrà più badare all’amato  e unico genitore. La storia si concentra sui personaggi attraverso primi piani alternati a panoramiche di un paesaggio privo di vita, aspro e grigio, desolato  come i loro sentimenti. Nonostante la maestria delle riprese e della recitazione della protagonista  la descrizione è lenta e a volte ripetitiva.
A mio avviso(ma   anche secondo  una recensione di Paolo Mereghetti) avrebbe meritato   il   premio come miglior film del  trentesimo Tff  piuttosto  I.D.diKamal K.M (India, 2012, DCP, 90’), non solo per l’originalità della storia, ma anche per  la visione realistica della povertà indiana,  offerta agli occhi di   noi occidentali, spesso ignari di queste condizioni . A Mumbai (nota fino al 1995 come Bombay)una giovane donna, appena laureata, un giorno subisce la sconcertante esperienza  di dover   adempiere a tutte le formalità  richieste dall’ ospedale per la morte di  un muratore che aveva avuto un malore mentre  stava decorando una parete del suo appartamento. Per lei l’uomo è sconosciuto   e pertanto si mette alla ricerca della sua identità e dei suoi parenti, a costo di inseguirne le tracce viaggiando,alla periferia della megalopoli, nelle baraccopoli costruite in mezzo alle discariche, dove vive nella più squallida miseria,  gran parte dell’immigrazione clandestina.  Emerge così  in tutta la sua cruda realtà il  dramma dei lavoratori anonimi e dimenticati che popolano strade e cantieri, vittime di una modernità senz’anima.

Anche se non privo di difetti è interessante Present tense  della registaBelmin Söylemez (Turchia, 2012, DCP, 100’) per  il modo singolare con cui documenta la  condizione  femminile  in Turchia.   Anche qui una giovane donna sola, divorziata, incontra grandi difficoltà a trovare lavoro per vivere. Dunque la protagonista  si finge esperta nella lettura dei fondi di caffè per farsi   assumere a svolgere questa attività divinatoria  in un locale. Appare tuttavia  subito molto abile, perché  per predire il futuro alle clienti  in realtà non fa che descrivere le  proprie incertezze e frustrazioni, che evidentemente  coincidono con quelle delle altre donne. In questo modo vengono  raccontati non solo  i disorientamenti delle giovani messe in difficoltà dalla disoccupazione dilagante, ma anche  i sogni, che, anche  in questo film,  sono rappresentati dal desiderio di   fuga  verso un mondo che si immagina migliore. La protagonista infatti mette da parte quanto guadagna per andarsene in America.

Sempre sul tema della disoccupazione giovanile,   strazio del nostro tempo  in ogni paese, è stato tuttavia narrato in modo meno cupo rispetto agli altri film in concorso lo spagnolo
Terrados di Demian Sabini (Spagna, 2011, DCP, 76’). Un avvocato disoccupato da cinque mesi, passa le giornate insieme ad altri amici e a una amica, tutti senza più il lavoro, benché dotati di elevato titolo di studio, sulle terrazze in cima ai tetti dei palazzi condominiali di Madrid, fumando, chiacchierando, scherzando, ma sempre più disorientati e  fuori dal mondo. L’unico loro compagno  con  una attività lavorativa ben retribuita è quello che non ha studiato all’università.    Anche in questa storia,  in cui  l’ironia, sebbene amara,  si esprime    a volte  attraverso   dialoghi e scene spiritose, il protagonista finisce per cercare una via di fuga dalla situazione, dalla città alla campagna, puntando a trasformarsi da aspirante avvocato in  lavoratore della terra.

Disorientamento, senso di vuoto, disagio esistenziale nei giovani viene anche rappresentato negli altri film in concorso nel trentesimo Tff,  di produzione  tedesca, mongola e dei paesi del Nordeuropa. In particolare  quello di   coproduzione svedese-irlandese-norvegese-finlandese (Call girl
di Mikael Marcimain)  racconta uno scandalo avvenuto a Stoccolma nel 1976, inerente l’induzione alla prostituzione minorile da parte di politici, così che viene   percepito dagli spettatori italiani evocativo del bunga bunga berlusconiano.

Sono invece  di   contenuto completamente diverso  i tre film italiani, candidati ai premi, che presentano, non senza rivelare una certa attenzione stilistica di qualità, scene anche struggenti, ma in modo quasi documentaristico. Si distingue però tra questi il raffinato lungometraggio di un regista sardo, sulla passione di Cristo secondo le quattro diverse versioni evangeliche, rappresentate nel paesaggio aspro e nell’ambiente antropologico (in stretto dialetto) della Sardegna. Un film faticoso da vedere, decisamente riservato ai cinefili.

Ma accanto a quella dei  film in concorso, come sempre,  altre sezioni   del  Torino filmfestival   hanno presentato film di produzione mondiale contemporanea(ma non inediti, a volte già premiati altrove) o in retrospettiva. Non tutto questo cinema, sebbene  di qualità, verrà distribuito nelle sale in Italia, purtroppo. Attualmente si può vedere solo uno di questi  film  nei nostri cinematografi, con il titolo La bicicletta verde
(titolo originale Wadjda, il nome della giovanissima protagonista). Già presentato a Venezia nella sezione Orizzonti, è di per sé un evento straordinario, anche se prodotto con soldi in parte tedeschi, perché è il primo film  scritto e diretto per la prima volta da una donna saudita(l’esordiente Haifaa Al Mansour di  39 anni) ed è ambientato e girato tutto a Riyadh, con    attrici soltanto  saudite. La regista ci racconta la condizione femminile in un Paese che sembra ancora nel medioevo: le donne devono e possono vivere i rapporti fra loro solo nell’ambito domestico, sono soggette alle volontà maschili, anche quando, non riuscendo ad avere figli,  il marito cerca un’altra sposa.  Pertanto   in pubblico   devono sempre  indossare il burka ed evitare qualsiasi contatto. Inoltre  non solo-come sappiamo- non hanno il permesso di guidare l’auto, ma anche  sono soggette a  giudizi diffamatori  in caso   del   semplice uso della bicicletta, perché-secondo l’ opinione comune dominata da quella della  mentalità maschile- questo metterebbe a rischio  la loro integra verginità.  In questo clima emerge la personalità decisa di una adolescente, Wadjda, che non vuole darsi per vinta e pur di trovare i soldi necessari a comprarsi la bicicletta arriva ad iscriversi a una gara scolastica di Corano. Anche se i risultati della vittoria, a causa dei pregiudizi e delle ideologie dell’ambiente scolastico,  conforme all’integralismo dello Stato      confessionale saudita, non saranno esattamente quelli sperati,  la solidarietà femminile materna interverrà a correggerne  l’esito infame.

Altro film  presentato nella stessa sezione,  ma distinto dagli gli altri come tipologia singolare,   per di più candidato spagnolo all’Oscar come miglior film straniero, è Blancanieves di Pablo Berger (Spagna/Francia, 2012, DCP, 104’) .  E’ la storia  di una Biancaneve spagnola che non  resuscita nemmeno con un bacio di un bell’uomo, ma, anzi,  il cui cadavere imbalsamato viene   sfruttato  in uno spettacolo da baraccone. Si tratta di un lungo mélo muto e in bianco e nero  di un regista che coltivava il progetto da molti anni, ma è riuscito a realizzarlo solo dopo il successo di The Artist.
Quest’anno il Tff  ha dedicato  anche   una sezione specifica ad alcuni film del  2012  girati da registi premiati nelle scorse edizioni del festival torinese.  Qui  è  interessante notare  quello di Pablo Larraín, il vincitore del Tff 2008 con Tony Manero,  intitolato No(Cile, 2012, 35mm, 115’). Tratta del  tipo di propaganda  che escogita   un pubblicitario  dalle idee rivoluzionarie  quando, in occasione del referendum indetto da Pinochet    nel  1988     per prolungare la sua  dittatura   in  Cile,    le opposizioni ottengono il diritto di replica in spazi tv. Il suo rinnovamento del  linguaggio politico attraverso ottimismo e leggerezza porta alla vittoria  il fronte dei  no. In quanto   affresco   sulla macchina del consenso, oggi, almeno   nei  Paesi europei, questo film può risuonare come una  riflessione  di attualità .

Si può dire a buon diritto che il panorama complessivo  che il Torino filmfestival del 2012 ha offerto  del cinema d’oggi  si sia mostrato all’insegna del realismo o di un nuovo realismo. Nessuno tra i  film   degli ultimi due anni qui proiettati è  stato caratterizzato da grandi innovazioni stilistiche. In compenso se  le  rispettive storie   raccontate  non sono risultate banali è perché si sono ispirate alle reali situazioni di sofferenza, per lo più giovanile, che  si hanno   sotto agli occhi ovunque, o almeno nei Paesi di produzione  delle opere selezionate per il concorso  di questo  festival.  Non per nulla il trentesimo Tff è stato  diretto per la quarta (e ultima) volta da  Gianni Amelio, regista di cui conosciamo, attraverso tutta la  relativa filmografia, la sensibilità verso i deboli ed i problemi sociali in genere. Il premio alla carriera a un regista come Ken Loach  in questa edizione del festival torinese dunque sarebbe stato più che pertinente.

Ma il regista inglese, anche perché sollecitato direttamente da  uno degli addetti alle pulizie del  Museo del cinema  che hanno subito il licenziamento,  non poteva non mostrarsi coerente con quanto da sempre, come in una missione anticapitalistica,  va    mostrando  e dimostrando  con i suoi film: la piena solidarietà con i lavoratori licenziati o sfruttati con retribuzioni da fame. Infatti Ken il Rosso, che dopo il Tff è poi venuto a Torino  per  incontrarli,    li ha definiti  «uomini veri che, come i protagonisti del mio film, vedono negarsi il diritto a un futuro».Non poteva definire meglio, sottolineando così la corrispondenza biunivoca tra la realtà e  il   suo cinema,  la caratteristica  di un  realismo oggi non più soltanto suo, perché risvegliato sullo schermo dai  tempi che stiamo vivendo.
 
 
16/12/2012 22:55:41
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