Da più di un anno un certo numero di intellettuali si mostra impegnato, in differenti articoli, in una discussione sul modo di intendere i «fatti». Il recupero di questo vecchio tema teorico, partito da una argomentazione sul superamento del Postmodernismo, è stato aperto su “La repubblica”, nell’estate del 2011, da Maurizio Ferraris, che aveva anche organizzato un convegno internazionale in merito. Pertanto il filosofo recentemente ha pubblicato presso Laterza il Manifesto del nuovo realismo. Ebbene c’è un cinema che rispecchia questo indirizzo: i sedici film in concorso quest’anno nel consueto festival del cinema torinese (Tff, dal 29 novembre al 1dicembre 2012) complessivamente raccontano la realtà in modo diretto, caratterizzandosi, sia per contenuto che formalmente, come “realistici”. Trattandosi di registi giovani, secondo la tradizione del Tff, nato proprio come “Cinema giovani”, l’argomento predominante nelle opere di diversi paesi riguarda la condizione giovanile d’oggi. Per lo più questi film trattano il problema attraverso storie individuali, senza ricorrere esplicitamente a sfondi sociali. Ma talvolta dietro le vicende dei personaggi si lascia intravedere una situazione diffusa di miseria e degrado.
Nel ceco/slovacco Az do mesta as / Made in ash di Iveta Grófová, la disoccupazione dei giovani in un paesino della Slovacchia, con conseguente loro emigrazione nella repubblica ceca, mostra esemplarmente e in sottofondo la miseria in cui si è ridotta quella popolazione con la divisione in due di uno Stato una volta unito, unico. La protagonista, interpretata da una bravissima attrice, priva e poi anche privata del lavoro, nonostante il suo sacrificio da emigrante che ha dovuto abbandonare famiglia ed affetti, finisce in una situazione disperata che la spinge ad accettare la prostituzione e infine, come minore dei mali, il matrimonio con un vecchio tedesco. Un’altra storia di fuga in cerca di miglior fortuna è ambientata a Cuba, all’Avana in Una noche di Lucy Mulloy (Cuba/UK/USA, 2012, DCP, 90’), che ha come protagonisti due fratelli poco più che adolescenti ed un amico coetaneo, impegnati in una drammatica lotta con le onde durante una notte in pieno Oceano su un improprio, pericoloso galleggiante, pur di arrivare sull’altra sponda, a Miami.
Il desiderio di fuga dal proprio ambiente in una giovanissima donna è raccontato anche in un film inglese, Shell di Scott Graham (UK, 2012, DCP, 87’). E’ piaciuto molto al pubblico giovane, ma anche alla giuria che gli ha assegnato il premio principale del festival torinese. Solitari e stretti in un rapporto dalle tentazioni incestuose, un padre e una figlia appena diciassettenne gestiscono una pompa di benzina in un posto remoto delle highlands scozzesi. La vita della ragazza si svolge monotona e fa nascere in lei il sogno di una fuga, che però potrà avvenire solo quando non dovrà più badare all’amato e unico genitore. La storia si concentra sui personaggi attraverso primi piani alternati a panoramiche di un paesaggio privo di vita, aspro e grigio, desolato come i loro sentimenti. Nonostante la maestria delle riprese e della recitazione della protagonista la descrizione è lenta e a volte ripetitiva.
A mio avviso(ma anche secondo una recensione di Paolo Mereghetti) avrebbe meritato il premio come miglior film del trentesimo Tff piuttosto I.D.diKamal K.M (India, 2012, DCP, 90’), non solo per l’originalità della storia, ma anche per la visione realistica della povertà indiana, offerta agli occhi di noi occidentali, spesso ignari di queste condizioni . A Mumbai (nota fino al 1995 come Bombay)una giovane donna, appena laureata, un giorno subisce la sconcertante esperienza di dover adempiere a tutte le formalità richieste dall’ ospedale per la morte di un muratore che aveva avuto un malore mentre stava decorando una parete del suo appartamento. Per lei l’uomo è sconosciuto e pertanto si mette alla ricerca della sua identità e dei suoi parenti, a costo di inseguirne le tracce viaggiando,alla periferia della megalopoli, nelle baraccopoli costruite in mezzo alle discariche, dove vive nella più squallida miseria, gran parte dell’immigrazione clandestina. Emerge così in tutta la sua cruda realtà il dramma dei lavoratori anonimi e dimenticati che popolano strade e cantieri, vittime di una modernità senz’anima.
Anche se non privo di difetti è interessante Present tense della registaBelmin Söylemez (Turchia, 2012, DCP, 100’) per il modo singolare con cui documenta la condizione femminile in Turchia. Anche qui una giovane donna sola, divorziata, incontra grandi difficoltà a trovare lavoro per vivere. Dunque la protagonista si finge esperta nella lettura dei fondi di caffè per farsi assumere a svolgere questa attività divinatoria in un locale. Appare tuttavia subito molto abile, perché per predire il futuro alle clienti in realtà non fa che descrivere le proprie incertezze e frustrazioni, che evidentemente coincidono con quelle delle altre donne. In questo modo vengono raccontati non solo i disorientamenti delle giovani messe in difficoltà dalla disoccupazione dilagante, ma anche i sogni, che, anche in questo film, sono rappresentati dal desiderio di fuga verso un mondo che si immagina migliore. La protagonista infatti mette da parte quanto guadagna per andarsene in America.
Sempre sul tema della disoccupazione giovanile, strazio del nostro tempo in ogni paese, è stato tuttavia narrato in modo meno cupo rispetto agli altri film in concorso lo spagnolo Terrados di Demian Sabini (Spagna, 2011, DCP, 76’). Un avvocato disoccupato da cinque mesi, passa le giornate insieme ad altri amici e a una amica, tutti senza più il lavoro, benché dotati di elevato titolo di studio, sulle terrazze in cima ai tetti dei palazzi condominiali di Madrid, fumando, chiacchierando, scherzando, ma sempre più disorientati e fuori dal mondo. L’unico loro compagno con una attività lavorativa ben retribuita è quello che non ha studiato all’università. Anche in questa storia, in cui l’ironia, sebbene amara, si esprime a volte attraverso dialoghi e scene spiritose, il protagonista finisce per cercare una via di fuga dalla situazione, dalla città alla campagna, puntando a trasformarsi da aspirante avvocato in lavoratore della terra.
Disorientamento, senso di vuoto, disagio esistenziale nei giovani viene anche rappresentato negli altri film in concorso nel trentesimo Tff, di produzione tedesca, mongola e dei paesi del Nordeuropa. In particolare quello di coproduzione svedese-irlandese-norvegese-finlandese (Call girl di Mikael Marcimain) racconta uno scandalo avvenuto a Stoccolma nel 1976, inerente l’induzione alla prostituzione minorile da parte di politici, così che viene percepito dagli spettatori italiani evocativo del bunga bunga berlusconiano.
Sono invece di contenuto completamente diverso i tre film italiani, candidati ai premi, che presentano, non senza rivelare una certa attenzione stilistica di qualità, scene anche struggenti, ma in modo quasi documentaristico. Si distingue però tra questi il raffinato lungometraggio di un regista sardo, sulla passione di Cristo secondo le quattro diverse versioni evangeliche, rappresentate nel paesaggio aspro e nell’ambiente antropologico (in stretto dialetto) della Sardegna. Un film faticoso da vedere, decisamente riservato ai cinefili.
Ma accanto a quella dei film in concorso, come sempre, altre sezioni del Torino filmfestival hanno presentato film di produzione mondiale contemporanea(ma non inediti, a volte già premiati altrove) o in retrospettiva. Non tutto questo cinema, sebbene di qualità, verrà distribuito nelle sale in Italia, purtroppo. Attualmente si può vedere solo uno di questi film nei nostri cinematografi, con il titolo La bicicletta verde(titolo originale Wadjda, il nome della giovanissima protagonista). Già presentato a Venezia nella sezione Orizzonti, è di per sé un evento straordinario, anche se prodotto con soldi in parte tedeschi, perché è il primo film scritto e diretto per la prima volta da una donna saudita(l’esordiente Haifaa Al Mansour di 39 anni) ed è ambientato e girato tutto a Riyadh, con attrici soltanto saudite. La regista ci racconta la condizione femminile in un Paese che sembra ancora nel medioevo: le donne devono e possono vivere i rapporti fra loro solo nell’ambito domestico, sono soggette alle volontà maschili, anche quando, non riuscendo ad avere figli, il marito cerca un’altra sposa. Pertanto in pubblico devono sempre indossare il burka ed evitare qualsiasi contatto. Inoltre non solo-come sappiamo- non hanno il permesso di guidare l’auto, ma anche sono soggette a giudizi diffamatori in caso del semplice uso della bicicletta, perché-secondo l’ opinione comune dominata da quella della mentalità maschile- questo metterebbe a rischio la loro integra verginità. In questo clima emerge la personalità decisa di una adolescente, Wadjda, che non vuole darsi per vinta e pur di trovare i soldi necessari a comprarsi la bicicletta arriva ad iscriversi a una gara scolastica di Corano. Anche se i risultati della vittoria, a causa dei pregiudizi e delle ideologie dell’ambiente scolastico, conforme all’integralismo dello Stato confessionale saudita, non saranno esattamente quelli sperati, la solidarietà femminile materna interverrà a correggerne l’esito infame.
Altro film presentato nella stessa sezione, ma distinto dagli gli altri come tipologia singolare, per di più candidato spagnolo all’Oscar come miglior film straniero, è Blancanieves di Pablo Berger (Spagna/Francia, 2012, DCP, 104’) . E’ la storia di una Biancaneve spagnola che non resuscita nemmeno con un bacio di un bell’uomo, ma, anzi, il cui cadavere imbalsamato viene sfruttato in uno spettacolo da baraccone. Si tratta di un lungo mélo muto e in bianco e nero di un regista che coltivava il progetto da molti anni, ma è riuscito a realizzarlo solo dopo il successo di The Artist.
Quest’anno il Tff ha dedicato anche una sezione specifica ad alcuni film del 2012 girati da registi premiati nelle scorse edizioni del festival torinese. Qui è interessante notare quello di Pablo Larraín, il vincitore del Tff 2008 con Tony Manero, intitolato No(Cile, 2012, 35mm, 115’). Tratta del tipo di propaganda che escogita un pubblicitario dalle idee rivoluzionarie quando, in occasione del referendum indetto da Pinochet nel 1988 per prolungare la sua dittatura in Cile, le opposizioni ottengono il diritto di replica in spazi tv. Il suo rinnovamento del linguaggio politico attraverso ottimismo e leggerezza porta alla vittoria il fronte dei no. In quanto affresco sulla macchina del consenso, oggi, almeno nei Paesi europei, questo film può risuonare come una riflessione di attualità .
Si può dire a buon diritto che il panorama complessivo che il Torino filmfestival del 2012 ha offerto del cinema d’oggi si sia mostrato all’insegna del realismo o di un nuovo realismo. Nessuno tra i film degli ultimi due anni qui proiettati è stato caratterizzato da grandi innovazioni stilistiche. In compenso se le rispettive storie raccontate non sono risultate banali è perché si sono ispirate alle reali situazioni di sofferenza, per lo più giovanile, che si hanno sotto agli occhi ovunque, o almeno nei Paesi di produzione delle opere selezionate per il concorso di questo festival. Non per nulla il trentesimo Tff è stato diretto per la quarta (e ultima) volta da Gianni Amelio, regista di cui conosciamo, attraverso tutta la relativa filmografia, la sensibilità verso i deboli ed i problemi sociali in genere. Il premio alla carriera a un regista come Ken Loach in questa edizione del festival torinese dunque sarebbe stato più che pertinente.
Ma il regista inglese, anche perché sollecitato direttamente da uno degli addetti alle pulizie del Museo del cinema che hanno subito il licenziamento, non poteva non mostrarsi coerente con quanto da sempre, come in una missione anticapitalistica, va mostrando e dimostrando con i suoi film: la piena solidarietà con i lavoratori licenziati o sfruttati con retribuzioni da fame. Infatti Ken il Rosso, che dopo il Tff è poi venuto a Torino per incontrarli, li ha definiti «uomini veri che, come i protagonisti del mio film, vedono negarsi il diritto a un futuro».Non poteva definire meglio, sottolineando così la corrispondenza biunivoca tra la realtà e il suo cinema, la caratteristica di un realismo oggi non più soltanto suo, perché risvegliato sullo schermo dai tempi che stiamo vivendo.