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Un film su Stefan Zweig in Sud America
Patrizia Gioia

 

Al recente Festival cinematografico di Locarno è stato proiettato un film da non perdere, concernente uno scrittore austriaco molto famoso, specie negli anni Venti e Trenta del Novecento, come autore di romanzi, opere teatrali e soprattutto biografie romanzate: Stefan Zweig. Ebreo, emigrò nel ’34 e si suicidò nel 1942, sconvolto dagli orrori del suo popolo e della guerra. Il film s’intitola “Vor der Morgenröte”, è diretto da Maria Schrader e interpretato da Barbara Sukowa, Aenne Schwarz e Matthias Brandt.

   Scriveva Zweig nell’Introduzione a “Fouché” nel 1929: “Il tempo nostro vuole e ama le biografie eroiche, giacché esso, povero di personalità dominanti e politicamente creatrici, cerca esempi sublimi  nel passato. Ora io non nego affatto che le biografie eroiche servano alla elevazione spirituale e all’eccitamento delle energie. Dai giorni di Plutarco in poi esse furono sempre necessarie ad ogni nuova generazione e ad ogni nuova giovinezza. Ma dal punto di vista politico esse racchiudono in sé il pericolo di una falsificazione storica, lasciando credere che sempre nel passato le personalità veramente dominanti abbiano anche dominato le effettive vicende del mondo. Non vi è dubbio che una figura eroica, per il fatto solo della sua esistenza, domina per decenni e per secoli la vita spirituale. Nella vita dei fatti e della realtà – nella sfera della politica – ben di rado sono le figure eccezionali, gli uomini dalle idee pure, a decidere: decide invece la specie molto più meschina, ma più abile, degli uomini di sfondo. Nel 1914 come nel 1918 abbiamo potuto vedere che le risoluzioni di portata universale di guerra e di pace non furono prese dalla ragione e dalla responsabilità, bensì da creature celate nell’ombra, di carattere ambiguo e di mediocre intelletto.”
  
Così parlava Zweig, che ci viene ora raccontato in questo film sui suoi ultimi anni di esilio in Brasile. Non una ricostruzione lineare, ma sei episodi cruciali della sua vita nel nuovo mondo, dopo che aveva dovuto lasciare Vienna. Ne esce il ritratto in chiaroscuro di un uomo dilaniato e stremato, illuminato da struggenti momenti di un profetico sguardo che conosce ormai il suo feroce destino.
Ebreo viennese, abbandona la sua patria nel 1934, l'anno successivo al falò di tutti i suoi libri ed alla perdita di tutto: casa, beni, amici.
Lo troveranno suicida accanto alla seconda giovane moglie Lotte, nel letto della loro camera d'esilio a Petropolis nel 1942.
Un caro amico di quegli ultimi tempi così scrive di lui: “Egli credeva negli uomini e soprattutto negli amici. Era un genio dell’amicizia (…). Ma come l’amicizia e il contatto vitale con gli uomini costituirono l’elemento essenziale della sua vita, così doveva risultargli fatale la distruzione di tali rapporti.” 

   Credo che vedendo il bel film molti tra noi si potranno interrogare su quest’aspetto essenziale della nostra vita: l'avere fiducia negli uomini e soprattutto negli amici.
E credo anche che molti di noi, come Zweig , sentiranno una stretta al cuore, la stretta di una solitudine sempre più struggente che obbliga - chi se la sente addosso - ad uno sguardo lucido  sulla povertà che ci circonda: povertà non di danaro o potere, ma di umanità e di amicizia. Eppure sono questi i legami che creano la "polis"; è la capacità di intimità e di confidenza che ci fa sentire non buttati nel mondo, ma “in un” mondo. Questo, però, è ormai violentato, e votato al virtuale, in cui umanità e amicizia sono quotidianamente calpestate e derise, per lasciare il posto a immagini "postate" di miseria e volgarità.

   Stefen Sweig era un uomo gentile, il suo sguardo poetico cadeva come rugiada sulle cose e sulle parole, camminava lieve esiliando ogni forma di odio dalla sua vita.
   Come poteva una simile anima sopportare la violenza umana che s'abbatté sul mondo in quel folle tempo?
Ma la domanda la pongo anche alle nostre anime, che come i tanti profughi i quali stanno arrancando verso una spiaggia di salvezza, con un'aspirazione di tregua, verso una possibile pace che solo la piccola luce che ognuno di noi può tenere accesa illuminerà , ma non si sa quando.

   L'anonimato che sempre più nel web copre la follia di uomini e donne che non hanno ancora conosciuto il loro "nome" non può vivere con la necessaria responsabilità che ogni essere deve avere per le proprie parole e le proprie azioni. Questo dovrebbe essere uno dei tanti possibili cambiamenti che possiamo mettere in atto: impedire l'anonimato a tutto quello che potrà essere messo in rete, così da rendere ognuno responsabile di quello che pensa e scrive e riprende.
E' di questa "eternità" che ora si ha paura ( tutto quello che lì si mette, lì rimane ).
Di quella sacra che ci fa responsabili" qui e ora" , nessun garante c'è: se non io e te.


patrizia gioia
i semi della gioia
www.spaziostudio.net

27/09/2016 15:24:13
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