L'inutile e insana passione che nutro -fin da quando al liceo l'insegnante di greco ci parlava di Aristarco di Samotracia, quella di italiano di “Aristarco Scannabue”/Baretti, mentre cominciavo a leggere il «Cinema
Nuovo» di Guido Aristarco...-
per la critica (letteraria e artistica, musicale e teatrale, e persino cinematografica...) la sua storia e il suo lavoro passato, presente e futuro, è stata recentemente riacutizzata da clamorose letture: l'incredibile ridda di pareri distruttivi e apologetici contrapposti, che ha contrassegnato le recensioni alla nuova edizione delle Nozze di Figaro mozartiane in scena alla Scala dal 26 ottobre al 27 novembre.
Mentre preparavo un modesto intervento in merito (tuttora al montaggio), è intervenuto un interessante incontro con un giovane e decisamente brillante laureando, con tesi in storia del cinema, che ho incontrato molto volentieri, anche al di là dell'innegabile nostalgia che provo per gli undici anni trascorsi a Pavia nella prima fase del nuovo millennio. La dissertazione che viene elaborando riguarda proprio la crisi della cinecritica, anche in ragione del suo delicato trapasso dal mondo cartaceo alla rete. E ha ritenuto, temeraria bontà sua, di comprendermi tra i destinatari di un'intervista sullo stato di salute di quell'attività, oggi.
Nel fornirgli le richieste risposte, che riassumo nel pezzo che segue, mi ha fatto tornare alla mente un remotissimo “contributo” (mah...) a uno dei tanti, fervidi quanto inconcludenti, dibattiti sull'argomento venutisi via via sviluppando sulla stampa specializzata (Nuovi inverni,
altri
uragani
sul
critico
“responsabile”, «Cineforum»,
308, settembre
1991...). Mi sono chiesto
come lo riformulerei oggi, anche alla luce di quanto recentemente
affermato nella parte conclusiva
dell'intervento al Premio Ferrero
(gentilmente letto da Barbara
Rossi in mia involontaria
assenza, e caricato da «Città Futura»
il 22 ottobre scorso: Ferrero Morandini Pellizzari Vescovo: anche nella vita ci
sono le stagioni).
Riepilogando: i miei temerari
2,5 lettori,
se mai (purtroppo per loro...) esistono,
vanno incontro
a una triplice svalangata:
questa prima uscita, la seconda di riscrittura dell'antico
pezzo reloaded,
e infine
la stupefatta
rassegna delle inusitate reazioni
al Figaro scaligero...
[ n.l. ]
Sono intervenute e stanno tuttora verificandosi mutazioni a più vasto e vertiginoso raggio, dei quali la riduzione degli spazi accordati alla critica filmica da quotidiani, settimanali e
mensili, a loro volta davvero non in buona salute (il “Corriere” degli
Albertini negli anni prefascisti “tirava” più copie dell'attuale; l'abbinata
obbligatoria domenicale, non più solo estiva, “la Repubblica/”L'Espresso” parla
da sé: e ci limitiamo alle testate più diffuse) è stata solo una conseguenza tra le più secondarie. Si tratta di fenomeni, attinenti al mondo dell'informazione, della comunicazione e dell'intrattenimento, ma anche dei modi e degli stili di vita globalmente intesi, paragonabili a quelli della globalizzazione per quanto riguarda i rapporti economici e l'organizzazione del lavoro.
Il primo fattore mutante è forse il fatto che oggi “la gente” in generale sia pervenuta a “non crederci più”: basti osservare quanto sta accadendo, a livello di comportamenti politici e di voto, ad esempio, sulla scena italiana, europea, mondiale, almeno da un quarto di secolo a questa parte.
La precedente stagione di splendore, se così vogliamo ottimisticamente considerarla, era anche connessa all'”unicità” di determinanti fenomeni: la circuitazione esclusiva delle pellicole in sala in un circuito di
visioni gerarchicamente organizzato e capillare (o tutt'al più, poi, in una tv ancora mono o bicanale), coniugata alla supremazia della stampa cartacea quotidiana e periodica come veicolo informativo.
In fondo, il critico “autorevole” o vissuto come tale (penso a Lanocita al “Corriere” o a Gromo alla “Stampa”, nel dopoguerra; come a Sacchi a “Epoca” o a Moravia sull'”Espresso”, entrambi per decenni, e ai loro immediati successori) era quello che consigliava bene il film del sabato sera alle torme di spettatori che allora prendevano -ma anche negli altri giorni...- la via delle sale, accordando credito alle parole di “quello che se ne intende(va)”. Non dimentichiamo che già dagli anni Trenta fino ai Sessanta-Settanta anche le riviste specializzate come “Cinema”, “Cinema Nuovo” e “Filmcritica” reggevano la distribuzione in edicola, laddove oggi vi sopravvivono a stento, con tutti i loro deliberati e forzosi limiti, solo organi volonterosi ma forzatamente “accomodanti” quali “Ciak” o “FilmTV”. Non è del resto un caso che, con qualche eccezione (Mereghetti al “Corriere”, Ferzetti al “Messaggero”, Valerio Caprara al “Mattino” su tutti; da poco tempo, insperatamente, il giovane e bravissimo Morreale col gruppo Debenedetti) le principali testate hanno sostituito il critico “vero” uscente con peraltro bravissimi giornalisti “generalisti”, peraltro poi trasformatisi in brillanti chiosatori per lo schermo: clamorose le parabole di Reggiani e poi della Tornabuoni alla “Stampa”, o quelle della Bignardi e più di recente della Aspeso a “Repubblica”: ma il discorso sarebbe lungo).
Diciamo anche che, nell'ultimo mezzo secolo, la “salvezza” della cultura cinematografica è stata in qualche modo garantita (direbbe l'ottimista) o liofilizzata se non surgelata (come ha sostenuto ad esempio un maestro autentico quale Fofi: ma che alternativa potrebbe esserci, Goffredo mio?) dal sospirato ingresso massiccio degli “addetti ai lavori” nel mondo accademico, che per la stragrande maggioranza, se hanno avuto la costanza di resistere fino all'ottenerlo, ha significato anche la certezza della pagnotta. In fondo, d'altra parte, l'intera tradizione culturale in ogni branca dello scibile poggia oggi ovunque sulle spalle della povera Università, e non credo solo da noi. O -pur se assai meno...- dalle (inopinate un tempo) brillante e ben remunerate carriere sviluppatesi
nel
quadro
delle
“direzioni
artistiche”
e
delle
collaborazioni parziali o temporanee di festival e rassegne: ma questo sarebbe un più spinoso e sviante discorso, perché presuppone una riflessione sul potere, o almeno sull'illusione di detenerne.
Resa anche assai più complessa (la riflessione), partendo dal fatto che -può sembrare un luogo comune, ma tanto ovvio quanto veritiero...- nel frattempo, a un dipresso, è letteralmente cambiato il mondo. Potrebbe essere riassunto un po' apoditticamente con l'interrogativo di chi si chiese: «A che tante parole quando le orecchie sono poche?» . O, se si preferisce, addirittura con un Papa d'antan: «L'uomo moderno, sazio di discorsi, si mostra spesso stanco di ascoltare e, peggio ancora, immunizzato contro la parola» (era Paolo VI...). Diciamo sinteticamente
che, in termini di... mercato, la domanda “sociale” di critica è nettissimamente
inferiore all'offerta.
Se colpe ci sono degli interessati per la constatata e talora lamentata “perdita di autorevolezza”, fatico un po' a individuarle. Le sole lamentele esplicite, per ovvie ragioni di interesse, da produttori/distributori/esercenti... Potrebbe esserci persino un risvolto positivo del ridimensionamento drastico, e se ne vede già qualche labile indizio: diminuzione dell'interesse spasmodico e immemore per il film nuovo di oggi a detrimento di quello già “superato” di ieri, per non parlare del dimenticatoio per l'altroieri, a vantaggio di un po' di ripresa d'interesse per il passato prossimo e remoto, la storia e i classici, come succede più spesso ai critici letterari, musicali, delle arti visive ecc.
Se come modestissima corporazioncina i “critici” di cinema hanno fallito, la punizione è già inesorabile nelle cose: il vorticoso diminuire tendente all'azzeramento delle tirature cartacee di libri e riviste (le cifre aggiornate del più recente periodo, per chi le conosce, sono raccapriccianti oltre l'incredibile). Del coefficiente di autorevolezza della pubblicistica on line, pur con splendide
e
note
eccezioni,
preferirei
sinceramente non occuparmi. L'umana vicenda -facendo le debite proporzioni, per carità!- è piena di vittime della Storia: denominatore
comune
a
tutti,
in
linea
di
massima,
il
non
essersene
assolutamente accorti: il non averne avuto il ben che minimo sospetto mentre il tritacarne agiva. Ma chiederne addirittura conto autogiustificativo diretti interessati, con l'aria che tira, mi sembrebbe francamente un po' eccessivo.
Personalmente credo, nonostante tutto, che il lavoro della critica continui ad essere indispensabile in almeno due direzioni (per chi ci crede e ne ravvisa la necessità, ovviamente). La prima, quella di collaborare con gli autori nell'analisi delle loro opere. A posteriori, beninteso: personalmente neppure io ho mai creduto né alla necessità né all'opportunità della cd. “critica programmante”, che ambiva dire agli autori cosa avrebbero dovuto fare, a cosa dedicarsi: tipo il classico rapporto Guido Aristarco > Luchino Visconti
tra
Senso e Il Gattopardo, ad esempio).
Col
passare
del
tempo,
l'attenzione dei registi alla critica è diminuita fino alla conclamata, questa sì programmatica, scomparsa, tranne eccezioni rare (come ad esempio fu Francesco Rosi, che saggiamente si dichiarava grato ai suoi commentatori perché li riconosceva capaci di indicargli nei suoi film cose delle quali lui stesso non si era reso conto realizzandoli), dell'attenzione o anche solo del rispetto riservati dagli autori ai loro critici (la recente lettera di protesta di una persona peraltro notoriamente mite come Giuseppe Piccioni a un quotidiano, per il “trattamento” tributato al suo … ne è l'ultima riprova). Certo, i tempi mitici in cui Fellini e lo stesso Aristarco litigavano tutta la notte in un bar del Lido dopo la proiezione de La strada (o di Cabiria, non ricordo
ma
ha
poca
importanza)
col
risultato
di
togliersi
il
saluto
vita
natural
durante
a
causa
di
quel
solo
reciproco
dissentire,
sono
distanti
anni
luce
non
solo
cronologici
ma
anche
valorial-culturali (potrei confessare che li rimpiango, ma sarebbe patetico...). Del resto proprio i due numeri uno, Fellini e Visconti, all'epoca del loro riappacificarsi reciproco e incattivirsi insieme (quando si tributarono lodi reciproche per Satyricon e Caduta degli dei, finivano
gli
anni
Sessanta)
inaugurarono la voga dello sbattersene dei recensori, teorizzandola. Da parte sua Rossellini, “il maestro di tutti noi” secondo l'altro maestro, De Sica, della critica si era sempre infischiato, come di (quasi) tutto il resto: e a giudicare di cosa avevano scritto di quasi tutti i suoi film all'atto dell'uscita, nel caso aveva ragione lui...
La seconda, e mi sembra più attuale e interessante a dispetto di tutto e tutti: garantire col proprio lavoro la massima sottrazione possibile di autori, opere, poetiche (apprezzato il frasario “datato”) e tendenze al lavoro spietato del Tempo, che talora sa incarnarsi in Rivalutazione e Riscoperta, ma più spesso si tramuta definitivamente in Oblìo. E di questo anche i Maestri, fin che ci sono stati, e anche i non, fino a oggi, avrebbero forse dovuto tenere e tuttora conservare un minimo di maggior conto.