Sabato sera alla Casetta del quartiere Europa si è
verificato uno degli eventi teatrali più significativi della stagione: davanti
a circa 150 spettatori la rappresentazione di VOCI DALLA COLLINA, azione
scenica dall’Antologia di Spoon River della compagnia Max Aub con la regia di
Laura Bombonato.
Voglio solo ricordare la rassegna “Voglia di Teatro”,
che proseguiva altre analoghe, presso la Ristorazione Sociale, comprendendo 26
spettacoli da fine ottobre 2015 al 26 maggio 2016, alcuni replicati o ripresi,
con numerosi ospiti di valore: attori, registi, musicisti: Eleonora Jones
Bonzano, DanielaTusa e Andrea Negruzzo, Marlene Pizzo e Marco Marenco, Filippo
Gambetta, Eugenio Solinas, Luigi Di Carluccio, Paola Tomalino, Daniele Ceva,
Giorgio Penotti e Enrico Ciampini, Alberto Giusta e Antonio Zavatteri, Paolo
Scepi e Angelo Repetto, Paolo Archetti Maestri; quest’anno: Ian Bertolini,
Mauro Parriniello, Giorgia Cerruti, Andrea Benfante e Anna Giarrocco, Federica Sassaroli,
oltre naturalmente agli spettacoli di Laura, e della sua compagnia Max Aub,
sopra tutti “Lussuria” alla sala Ferrero con Silvia Belfiore al pianoforte.
Tutto organizzato e gestito da sola, senza finanziamenti, prezzo 5 euro,
aumentati a 10 in presenza di diritti Siae.
Lo spettacolo “Voci dalla collina” (la cui
preparazione è durata sei mesi) è registicamente splendido: geniale l’idea di
fare dei 14 attori, tutti vestiti di nero, una processione, aperta e chiusa dai
due maschi, che si muove, senza soluzione di continuità, in orizzontale, forma
piccoli gruppi, si disfa, si incrocia, talora camminando lentamente talora
correndo, in un perenne avanti e indietro. La sala, ampia, era adatta;
l’atmosfera plumbea, connotata dal colore del buio, interrotto ogni tanto da
piccole lampade, poste in terra nel retropalco, a illuminare tenui l’attore che
recitava il proprio epitaffio.
Rispetto al testo, dove ogni personaggio prima di tutto
sussurra il suo monologo in prima persona, si eclissa e si passa al successivo,
sia pure con continui richiami interni, Laura Bombonato ha optato con forza per
la coralità ; i morti sulla collina sono sodali, associati e ancorati dalle
proprie storie tristi, tutte diverse e tutte eguali, dando al gruppo coerenza e
coesione, mediante la sincronia dei movimenti e il dominante tono di voce
sommesso, perché sono i defunti al cimitero che in prima persona sussurrano,
non mai declamano, un pezzo della propria vita . Indi continueranno a dormire
sulla collina.
Tutti i bravi i 14 attori; ricordo Danilo Seregni, che
si staglia statuario nel monologo e guida il gruppo; dall’altro lato Flavio
Speranza perentorio nella presenza scenica e nell’eloquio scandito con calma;
Cristina Brunetto, l’unica che passa dal sussurro al registro in progressione
più acuto; perfetta Simona Serra, dal volto ispirato, allargato dai riccioli,
gli occhi vividi, sia nel ruolo di raccordo sia nel proprio personale; costante
e misurata Cristina Sferrella, intenta a riempire gli stacchi, spostandosi
dietro la fila, con la voce dal timbro costante e sicura dizione; Paola Gota
porge il proprio epitaffio con un parlare rotto, spezzato, con frasi puntiformi
per esprimere l’emozione che prova; sicura Daniela Musso, cui è toccato
l’ingrato compito di iniziare; Daniela Cassina aristocratica nella sua innata
eleganza di portamento; Monica Cortigiani perplessa e pensosa all’unisono;
Nicoletta Mensi dal piglio deciso e perentorio; Marinella Scagliotti tenerissima
e indifesa; poi Deborah Bencini, Federica Leone, Anna Ponzano, tutte ispirate e
perfettamente inserite nella parte, ripeto corale, in cui l’individualità
diventa un magma dai tratti indistinguibili, complici il buio e la sincronia
dei gesti.
Splendido l’effetto dell’incipit sulla canzone che
riprende “La collina”, l’introduzione (aggiunta da Masters nella seconda
edizione del 1916, dopo l’inatteso strepitoso successo della prima del 1915),
con i 14 corpi che simultaneamente si voltano indietro, piegandosi sinuosi,
sensuali, ritmati, dalla positura verticale fino al lento e misurato abbandono,
girandosi sul bancone retrostante. Un risultato scenico, che lascia lo
spettatore fulminato e stupefatto da tanta bravura.
Leggendaria la storia autentica della traduzione della
Pivano, studentessa del Liceo classico D'Azeglio di Torino, rimandata assieme a
Primo Levi e Natalia Ginzburg in italiano alla Maturità, che aveva avuto Pavese
come docente, il quale le prestò alcuni libri americani La Pivano ragazzina fu colpita dai versi
"mentre la baciavo con l'anima sulla labbra/ l'anima d'improvviso mi
sfuggì", e tradusse in segreto l'Antologia, vergognandosi di tanto
ardire. Pavese scoprì la traduzione, non
disse nulla, la prese. La Pivano nel 1941 si laureò in lettere. Nel 1943 uscì
il libro col titolo ( per ingannare la censura fascista): Antologia di San River, quasi subito
sequestrato.
L’Antologia di Spoon River, contiene 244 epigrafi: 19
storie che coinvolgono 248 personaggi, appartenenti a tutti i ceti e mestieri
sociali. Ciascuna poesia ha la forma
dell’epitaffio, quello scritto sulla tomba; il linguaggio, in assenza di
metrica, oscilla verso la prosa, anche per la deliberata schiettezza con cui
Masters racconta storie di adulteri, aborti, tradimenti, omicidi, bancarotte,
banche strozzine, ispirandosi anche a fatti e personaggi veri. I concittadini
infatti protestarono (Gianni Riotta, La Stampa 29/12/16). Spoon River è un paese inventato, che
rispecchia però due villaggi vicini, ove visse fino all’età adulta l’autore,
quando fuggì a Chicago, destinata a diventare la capitale letteraria , per
cedere poi il posto a NewYork. L’Antologia (che si ispira lontanamente alla
silloge greco- ellenistico-bizantina Antologia Palatina, Masters aveva studiato
il greco) sembra un romanzo “mancato”,
redatto in prosa ritmata, come molta poesia del ‘900: una caustica critica del
capitalismo , della magistratura corrotta, della violenza della polizia, della
famiglia patriarcale ipocrita.
Edgar Lee Masters rivoluziona la giovane letteratura
americana, imponendole il realismo., e facendole “scoprire la tragedia”
(Agostino Lombardo). Censura la società
puritana (pensiamo alla “Lettera scarlatta di Hawthorne del 1846) con un atteggiamento puritano. La formula
apparentemente paradossale è abbozzata da Pavese e ripresa dalla Pivano. La
posizione di Lee Masters è quella di colui che accusa la rigidezza moralistica
e ipocrita del puritanesino in tutte le sue sfaccettature, ma lo fa da
puritano, con la veemenza, l’atteggiamento
ieratico del predicatore che accusa, diventato quasi un profeta. I puritani del Middle West erano convinti che
la grande città fosse il luogo della corruzione e dell’immoralismo, mentre la
campagna e i suoi villaggi si erano mantenuti ancorati ai valori
tradizionali. Masters si schiera dalla
parte del villaggio (come Walt Whitman, a cui si ispira, resta un regionalista)
non per difenderlo bensì per mostrarne
le nefandezze (vedi il grande film “Dogville” del 2003, con una memorabile
Nicole Kidman del visionario Lars Von Trier).
Tutti i morti
sulla collina di Spoon River “si lamentano di aver mancato la vita, con una
consapevolezza austera e fraterna del dolore di tutti”: la vita è un cimitero
di ambizioni fallite e sofferte. Non ci
sono simboli, tutto è vivo, materiato, attuale. E non si tratta di “una
rassegna di casi clinici”, perché Masters esprime “una consapevolezza austera e
fraterna del dolore e della vanità di tutti”. Le “spettrali, dolenti, terribili, sarcastiche
voci di Spoon River ci hanno commossi e toccati a fondo”. La ribellione, ricorrente nel libro, è quella
di anime stanche, che si fanno schiacciare o scompaiono (Pavese,”La cultura”
1931 e “Il Saggiatore”, 1943, con tagli).
Condannati, sono inchiodati per l’eternità al proprio epitaffio, eppure
in esso ritrovano un pezzo nostalgico della vita perduta., ma possono solo ripeterlo
verbalmente non cambiarlo.
Cahen cita lo choc, da cui il mondo letterario
americano, insieme al grande pubblico, fu colpito. Masters aveva tolto loro
ogni illusione, e aprì la strada alla Lost Generation, col suo linguaggio
chiaro e sempre preciso. A lui si ispireranno Fitzgerald, Dos Passos, la Stein,
Faulkner, Hemingway (Maxwell Geismar), non a caso tradotti da Pavese,
Vittorini, Montale, e la Pivano, gli uni e gli altri i romanzieri e poeti della
mia adolescenza.
Spettacolo da replicare assolutamente.
spectator