Il PSIUP in Piemonte:
Alessandria e Torino
La gestazione del PSIUP
E’ per noi inevitabile spostare il ragionamento sul PSIUP dal
piano esclusivamente nazionale a quello anche alessandrino e piemontese. E’ un
terreno difficile, per chi l’abbia vissuto giorno per giorno, anche se sono
passati cinquant’anni dall’inizio e oltre quaranta dalla fine degli eventi in
questione. E’ molto facile proiettare nel passato le nostre idee d’oggi, e
storicamente va evitato. Allora ad esempio non c’era nessuno, nel PSIUP, che si
dicesse fedele alla Costituzione e annesso parlamentarismo, visti da tutti come
dimensione tattica in vista di un salto di sistema sociale. Si era stati
“costituzionali” da sinistra prima del Sessantotto e soprattutto prima del ’64.
Ma con molte contraddizioni. Ricordo perfettamente il salone di via Faà di
Bruno in Alessandria quando Amaele Abbiati, certo in modo schematico, nel ’63,
prima della scissione, chiedeva a Canestri se riconosceva che preso
democraticamente il potere bisognasse mollarlo in base al voto alle elezioni
successive se questo fosse stato sfavorevole alla sinistra (diversamente da
quel che avevano fatto i comunisti una volta ottenuto il governo, nel mondo).
Non gli si rispose certo: “Sì, senza dubbio”, come ora non esiteremmo a fare
neanche per un secondo (io come Canestri). Più oltre non si era certo su tali
posizioni “costituzionali di sinistra” quando si guardava al castrismo o a Mao
(io Mao me lo sono risparmiato, ma nel ’68, per amor di Lenin, giustificavo
l’URSS, di cui pure riconoscevo, come tutti noi riconoscevamo, la
“degenerazione burocratica”). Persino Foa, che era stato un padre costituente,
credo il più giovane costituente, e ciò dopo che aveva trascorso nove anni “in prigione” sotto Mussolini,
dava risposte su ciò sorprendenti. Nel ’67 prese a uscire per la Feltrinelli un
quindicinale intitolato “La sinistra”,
diretto da Lucio Colletti, allora marxista rivoluzionario (infine, di criticismo
in criticismo, questo grande studioso del marxismo di sinistra divenne senatore
di Forza Italia). Bene, possiamo andare a vedere in uno dei primi due o tre
numeri l’intervista a Foa e quel che diceva della Costituzione. Per lui era
puramente borghese. La posizione del coniugare insieme parlamentarismo e lotte
di massa era di Ingrao, ma mentre tutti noi ritenevamo allora un obiettivo
minimo positivo, necessario e possibile spostare il PCI sulle posizioni di
Ingrao, nessuno si sarebbe fermato lì. Semmai quella posizione ingraiana era “identica” a quella sostenuta, con
accentuazioni più di sinistra, proprio dalla Direzione del PSIUP, dai
filocomunisti, ma tra molti distinguo: non certo dalla sinistra del PSIUP. Lì,
anzi, se uno diceva così passava subito per un mezzo sociademocratico. I tempi
erano così. Anche i “bassiani”, tanto più che nel ’68 Basso uscì dal partito,
su ciò avevano avuto, come minimo dal ’68, un’evoluzione (che oggi possiamo
dire involuzione, fosse questa una ferma convinzione o una concessione ai tanti
“ragazzi rossi” in circolazione).
Il riferimento
storico e autobiografico di Canestri, nel bel dialogo con Amodei, spazia su due
fasi della storia alessandrina e piemontese: quella del decennio, o meglio
tredicennio, tra il 1955 e il 1968 e quello del quadriennio successivo. E fa bene, anche se per sé accentua molto la
continuità tra i due periodi. Essendo solo di sette anni più giovane di
Canestri, ed avendone però settantatre anni
(“Ragazzi come passa il tempo”, diceva Totò in una famosa gague apprendendo della morte di
Diocleziano), mi sento di fare l’affermazione che segue. Se dovessi fare un
profilo biografico di Canestri (facciamo gli scongiuri perché vogliamo vivere
ancora tanti anni tutti quanti), io direi che gli anni di gran lunga migliori
della sua vita culturale e politica siano proprio quelli compresi tra il 1955 e
il 1965 (sino al ‘68 come termine “ad quem”; e oltre, ma “meno”). Anche se
tutto quel che dice - sul suo ruolo nell’Associazione Difesa Scuola Pubblica
(ADESPI), sulle origini del Sindacato Scuola della CGIL a livello nazionale,
sul suo ruolo nell’ISRAL, su Città Futura, eccetera - è assolutamente vero. Ma
l’acme - che in ogni vita c’è - per lui secondo me è stato il primo lungo
periodo cui ho accennato. Come deputato ha certo operato bene, ma mi sembra un
capitolo meno originale. Quello che dico, ad esempio, vale per “L’idea
socialista”, di cui fu lo storico direttore, non so da che anno, ma credo per
gran parte del periodo compreso tra 1955 e 1963 (o comunque lo fu di fatto
anche quando forse il direttore formalmente era Giampaolo Cellerino, un vero
morandiano intelligente e anche un po’ spigoloso, poi nenniano autonomista,
secondo solo ad Abbiati in Alessandria tra quelli di tale area). E quando
Canestri nell’intervista a lui e ad Amodei dice che quel che era stato “Mondo
nuovo” diretto da Libertini era “L’idea socialista” qui, ha ragione ed è anzi
molto convincente; ma prima del PSIUP; poi, per ragioni economiche, “L’idea
socialista” “si tacque”. Rinacque nel 1969 grazie al nuovo segretario dal 1966,
il caro e compianto amico Angelo Rossa; ma per ragioni economiche la sua
periodicità fu allora sempre precaria, tanto che se ne fecero non più di una
decina di numeri durante la vita del PSIUP.
In ogni caso c’è tutta una storia della sinistra
socialista prima del PSIUP che lo
storico locale non dovrà lasciarsi sfuggire. Lì c’è stato veramente un cantiere
del cambiamento, in cui tutto quel che vi si troverà su quel che venivano scrivendo,
dicendo e facendo tra i nenniani i famosi Abbiati e Giampaolo Cellerino, e con
loro e oltre a loro e poi contro di loro i vari Giorgio Canestri, Giuseppe
Ricuperati, Adelio Ferrero, Giorgio Piccione, Luigino Capra e altri apparirà
degno di nota. E molto. Ho detto con i nenniani e oltre perché non è vero che
si sia sempre stati contro l’alleanza con
la Democrazia Cristiana. Almeno non è vero per Canestri e Ricuperati.
Perché rimuovere un aspetto che potrebbe anzi essere stato un merito storico? –
Giorgio Canestri e Giuseppe Ricuperati erano stati due “autonomisti”, certo del
tipo più prossimo, poi, a Riccardo Lombardi che a Nenni. C’è un numero glorioso
di “Problemi del socialismo” che contiene un testo che mi pare si intitolasse Lettera di due ex autonomisti, non
saprei se del 1960 o del 1961, numero che dà conto proprio del loro passaggio
alla posizione bassiana, ossia alla piccola gloriosa corrente di “Alternativa
democratica”, cui aderii io pure nel 1962, collaborando pure all’”Idea
socialista” sin da allora, anche se già nel ’63 ero diventato marxista
operaista e foano, per cui fui ben felice
dell’unificazione tra corrente di Basso e di Vecchietti avvenuta nel ‘63. Ma
dapprincipio neanche Basso escludeva l’alleanza tra PSI e DC: solo che la
definiva “tattica, ma non strategica”, ossia la intendeva come un’operazione
atta a sfondare il centrismo, che per lui era stato addirittura un nuovo regime
autoritario come il fascismo, in
vista di un’alternativa democratica di sinistra in cui una grande area
socialista, comprensiva pure dei comunisti, formata di non credenti e credenti,
dopo un lungo lavorio antagonistico nella società civile (i contropoteri, per
lui culturali e sociali), avrebbe preso il potere. In una logica tutta di
alternativa democratica di sinistra, di governo e di sistema sociale. Ma per
essere “tattico” il centrosinistra non avrebbe dovuto essere un’alleanza
“organica” e, soprattutto, non avrebbe dovuto ammettere alcuna chiusura a sinistra, almeno tramite convergenze
parlamentari concordate e palesi e soprattutto alleanze negli enti locali (per
Basso in vista non solo del per lui ovvio graduale incontro tra centrosinistra
e comunisti, ma anche e soprattutto del superamento, socialista, della frattura
tra comunisti e socialisti del 1921, verso un nuovo socialismo unitario “di sinistra”
ed europeo).
Correnti del PSIUP
alessandrino e piemontese
Il centrosinistra come patto di legislatura e con rottura
dell’alleanza con i comunisti persino negli enti locali, bruciò pure tale
possibilità tattica e indusse i socialisti di sinistra, che non potevano
ammettere fratture a sinistra, a fondare il PSIUP. Si formarono due tendenze
interne. La prima era quella che con Canestri si può ben dire massimalista di
sinistra, legata soprattutto all’accettazione dell’appartenenza a un campo
comune comprensivo del comunismo, soprattutto italiano, ma anche mondiale (e
quindi o filosovietico o, nella “Sinistra”, più simpatizzante con la Cina, e
soprattutto, e trasversalmente, con il castrismo e guevarismo). Su ciò si
davano, qui come a Torino, diversi accenti. Tutti quanti erano critici - salvo
naturalmente le solite teste “di pietra” che non mancano in nessun movimento - sia della linea ufficiale
del PCI che dell’URSS. L’area comunista, pur riconosciuta da tutti come alleato
sociale e politico imprescindibile, era considerata più o meno burocratica, ma
soprattutto tendente a inserirsi nel centrosinistra invece che all’alternativa
di sinistra. Ma man mano che si diffondeva la cultura del marxismo di sinistra,
l’eco dei movimenti rivoluzionari del mondo, e la comprensibile reazione contro
il burocratismo autoritario sovietico, facevano sì che il massimalismo degli
“psiuppini” - si sdoppiasse o triplicasse. Emergeva, in una minoranza cospicua,
un massimalismo di sinistra che era tendenzialmente filocinese o castrista,
anche per forte insofferenza verso il burocratismo sovietico e verso lo stesso
PCI, come si vedeva in Libertini come in Canestri e nei loro amici. Inoltre si
evidenziava pure un massimalismo unitario, che pur dicendo cose molto simili
non voleva mai spingere la divisione a sinistra a livelli di scontro vero e
proprio, perseguendo una politica di condizionamento e non di alternativa al
PCI: politica su ciò concordavo io, concordava Angelo Rossa, e concordavano
tanti altri, che poi confluiranno, allo scioglimento del PSIUP del 1972, in gran parte nel
PCI e taluno, come Rossa, di nuovo nello PSI. C’era poi una terza posizione “di
sinistra”, foana, che voleva costruire l’alternativa di sinistra organizzando
l’antagonismo a livello sociale, in primo luogo nelle grandi fabbriche.
Quest’ultima era la posizione cui io – pur ritenendo tatticamente
imprescindibile un certo massimalismo unitario, verso il PCI, ben oltre quel
che pensassero gli altri operaisti – aderii sin dall’inizio, diventando dal
1964 al 1972 il responsabile del lavoro politico di fabbrica della federazione
di Alessandria del PSIUP. Canestri a ciò era molto aperto, e anche Verna.
Canestri era stato il giovane carismatico leader non solo dei bassiani, ma
della sinistra socialista; il direttore dell’”Idea socialista” e il vero
protagonista della scissione del ’64, dapprincipio un vero maestro, di vita e
politico, per tutti noi. Dopo la fondazione del PSIUP, un generoso e concreto
massimalista unitario, Mario Verna, era diventato il segretario e funzionario,
Canestri il vicesegretario e membro del Comitato Centrale. Dapprincipio la loro
segreteria dette un grande spazio al lavoro politico di fabbrica, che io
ritenevo fondamentale perché non si annegasse in un mare di chiacchiere di
estrema sinistra senza sugo, contrassegnate da microdocumenti di estrema
sinistra di cui, a quel che ritenevo già allora, a ragione o a torto, dal più
al meno non importava niente a nessuno.
Anche se non ho
conservato il testo – ma qualcuno a Casale l’avrà, o ci sarà nell’Archivio del
PSIUP di Roma in cui ha lavorato Agosti – nel 1965 facemmo per gli operai della Eternit uno dei numeri di
giornalini di fabbrica in cui io mi ero venuto specializzando. Riunivo gli
operai del PSIUP o, se ce n’erano che accettassero, del PCI o senza partito,
attorno a un tavolo. Registravo o prendevo appunti su ogni intervento in modo
dettagliatissimo, frase per frase, e poi sbobinavo o ricostruivo i discorsi di
operai, esattamente come fa il bravo Franco Castelli per raccogliere la cultura
orale, ma con un’assiduità che noi, che facevamo tutte le parti in commedia,
non potemmo mai uguagliare. Bene. Comunque l’idea era quella di far emergere i
motivi di conflitto sociale con la voce stessa degli operai per generalizzarli
immediatamente, il che aveva effettivamente effetti dirompenti nella base
operaia. Era la lezione e l’esperienza di Raziero Panzieri, Vittorio Foa e Pino
Ferraris, il secondo e terzo del PSIUP dall’inizio alla fine. Comunque posso
assicurare che già allora, nel 1965,
noi in un opuscolo di “Filorosso” alla Eternit che dava voce agli operai,
denunciammo le morti per amianto. Non per merito mio personale, sia chiaro, ma
perché c’erano alcuni operai più svegli
che ce l’avevano raccontato in modo dettagliatissimo. Ricordo che dicevano –
sono certo che scarpettando si potrebbe ritrovare il testo – più o meno così:
“Molti dicono che andrà meglio quando saremo in pensione. Ma ben pochi
arriveranno vivi alla pensione e se ci arriveranno moriranno prestissimo di
cancro, come tra noi capita quasi a tutti”. Facemmo giornalini simili anche
alla Montecatini di Spinetta Marengo, dove poi per anni e anni divenimmo una
presenza molto frequente, sino alla fine del PSIUP. Provate un poco a chiedere
all’allora segretario dei chimici della CGIL, Mantovanelli, ancora tra noi (in
Sinistra e Libertà), con cui avevamo un rapporto di incontro-scontro. La cosa
fu così efficace che gente come Gianfranco Faina e Gianfranco Della Casa,
professori di Filosofia nella nostra città, avrebbero voluto collaborare con
noi, presentando persino un’inchiesta sull’Italsider di Novi. Su ciò ho diverse
loro lettere. Ma la segreteria della federazione del PSIUP di Alessandria,
impersonata da Verna e Canestri dal 1964 al 1966, si era trovato sottoposto a
forti critiche da parte di quello che Canestri chiama massimalismo
unitario. Perciò quando io mi arrampicai
a insegnare sui bricchi lasciò sbollire la cosa. Fosse per mancanza di voglia,
o per tatticismo, o per entrambe le ragioni.
Così la segreteria provinciale
del PSIUP impersonata da Verna e Canestri divenne a Dio spiacente e “alli
nemici suoi”. Non piaceva ai massimalisti unitari, non piaceva a taluni
bassiani storici, che paventavano una deriva estremistica “filocinese”, e forse
avevano anche antichi dissapori che nei partiti non mancano mai; e non piaceva neppure
a me, che a ragione o a torto allora ritenevo sterile un antagonismo lontano
dal lavoro politico tra gli operai, e che per tale “lontananza” trovavo
verbalistico quel massimalismo. E alla vigilia del secondo congresso nazionale
del PSIUP, che in realtà era il primo perché il primo era stato un’assemblea
fondativa, nel 1966 ila segreteria di federazione Verna-Canestri fu messa in minoranza. Ci fu un vecchio amico
che si fece prestare la Volksfagen della Federazione, per non farsi dare del
frazionista, per fare il giro contattando i più autorevoli membri del Direttivo
provinciale. Il parlarsi tra membri del Direttivo del resto era ritenuto
perfettamente ammissibile. Ricordo che alla guida c’era Adriano Marchegiani.
Poi c’era Andrea Foco, c’era Piccione e c’ero anche io. Oggi capisco che certo
pesarono anche vecchie ruggini tra dirigenti, dei vecchi partiti, che non
mancano mai. Ad esempio per la perdita della federazione del PSI, conquistata
di misura dai nenniani di Abbiati, all’ultimo congresso del PSI prima della
nascita del PSIUP, e forse anche per le elezioni amministrative del 1964, provinciale
e di Alessandria, in cui il PSIUP ebbe un buon risultato, eleggendo Verna
consigliere provinciale e Canestri consigliere comunale. Quali fossero, oltre
alle primarie motivazioni ideali e politiche, le ragioni più attinenti a
vecchie o recenti ruggini, è un fatto che i contattati dagli avversari della
segreteria provinciale di Verna e Canestri furono concordi sulla necessità di rimuoverli
dal loro incarico. Uno disse il suo sì mentre aveva una gamba ingessata sospesa
per aria, dopo un incidente d’auto, a Casale. Ci fu un Direttivo, in cui io
intervenni ampiamente, e questi cari amici, Verna e Canestri, vennero messi in
minoranza. Assentirono pure amici a Giorgio carissimi per la vita, allora e al
congresso nazionale, in cui furono consultati. La politica a volte è spietata
e, per l’aspetto nazionale congressuale, come dirò, assolutamente ingiusta. Era
già stato concordato che Angiolino Rossa, che era il segretario provinciale
della Federbraccianti (e che, nel nostro Direttivo, Piccione disse “sciupato” a
quel posto), sostituisse o si desse il cambio con Verna a livello di partito
(come poi avvenne). Ma “i nostri”, giunti come delegati al congresso nazionale
- erano Piccione, Rossa. Verna e Angelo Migliora - decisero – ovviamente contro
Verna - di “liquidare” Canestri dal Comitato Centrale. Non me l’ero aspettato e
quando alla successiva conferenza provinciale d’organizzazione, che prendeva
atto del cambio di segreteria, nel salone della CGIL di via Cavour, il tutto fu
ratificato, io intervenendo ebbi persino un malore. Abbozzai, com’era ovvio, Ma
storicamente ritengo che sia stato non solo un atto umanamente ingiusto in
sommo grado, ma assurdo politicamente. Era ingiusto umanamente perché tagliava
le gambe al dirigente che tra noi aveva meglio meritato, nel settore
propagandistico, giornalistico, culturale e scolastico: uno che aveva sì
qualche punta di massimalismo verbalistico, ma che certo era migliore di tanti
altri. Mi fu detto che nella rosa dei candidati al Comitato Centrale apprestata
da Vecchietti, che evidentemente era in ordine preferenziale, in cui i primi 25
erano la Direzione nazionale, Canestri era il numero 26, ossia quasi un membro
della Direzione. I compagni che avevano compiuto quel blitz dicevano che
altrimenti tutta l’operazione alessandrina sarebbe stata vana perché l’egemonia
sarebbe rimasta a Canestri, con i tratti politici che criticavamo. Ma era un
grave errore – nonostante i problemi che si sarebbero dovuti altrimenti
affrontare - perché esasperava artificialmente, e prolungava necessariamente
nel tempo, contrasti che invece l’etica della responsabilità avrebbe dovuto
indurci a ricomporre al più presto. Infatti durarono vivi e forti sino al 1970,
anche se dal 1969 mi
ritrovai molto attivo come conciliatore delle nostre differenze, specie con
Canestri. Nonostante ciò il maggio del 1968 registrò alle elezioni – per
protesta di lavoratori contro l’unificazione “socialista” tra Nenni e Saragat
realizzata nel 1966, ma anche per la grande apertura di tutto il PSIUP alla
contestazione studentesca ed operaia - un notevole successo del PSIUP, intorno
al 4,5% a livello nazionale e quasi al 5 in Alessandria, dove Giorgio Canestri, che
aveva trentatre anni, divenne sino al 1972 il deputato del PSIUP.
Come ho ricordato,
dal 1966 la segreteria era impersonata da Angelo Rossa. Nello stesso 1966
divenni membro del Comitato Esecutivo provinciale e responsabile del lavoro
politico di fabbrica, che seguitò, sempre più intenso, sino allo scioglimento
del PSIUP. Nel 1965 ero andato a insegnare e abitare a Pontecurone. Ebbene lì
sperimentai non solo l’operaismo marxista e foano, ma anche l’operaismo in una
relazione vera, polemica e unitaria, spessa del tutto amichevole, con i
comunisti, che lì, al pari dei nostri compagni, erano quasi tutti operai ed
operaie. Facemmo nelle fornaci e al Bustese un lavoro di opposizione sociale
costante, che ci fece diventare persino amici fraterni dei migliori e più
combattivi compagni di quella comunità di operai e di operaie. Del PSIUP e
comunisti. Su ciò potrei raccontare moltissimo, ma me ne astengo. Fui io a
indicare e far approvare il sindacalista che ci rappresentava nella CGIL, il
mio compianto amico già leader naturale dei fornaciai Marcello (“Marcellino”)
Castellani, che andava a sostituire Rossa (spostato al PSIUP come segretario).
Logica avrebbe voluto che Castellani andasse a lavorare nel settore in cui era
stato un operaio assai popolare, la FILLEA, il settore dei lavoratori del
laterizio (cui facevano capo anche i lavoratori della Eternit, oltre a
fornaciai e muratori), di cui era segretario il nostro compagno Angelo
Migliora: un tipo “in gamba”, ma con un carattere molto “scontroso”. Questi non
volle Castellani “tra i piedi” e “Marcellino” fu posto tra i metalmeccanici,
dove ebbe una coesistenza non facile con Dovano, il comunista segretario
provinciale della FIOM, benché “Marcellino” fosse subito diventato popolarissimo
– forse troppo, per sua sfortuna - tra gli operai. Dopo di che si fece assumere
dalla CISL, diretta allora da Franco Coscia, in cui il suo “brazo libertario”
ebbe modo di sfogarsi. La CISL per il PSIUP è stata importante. A Torino
moltissimi compagni operai erano della FIM-CISL. Anche qui c’era simpatia. Ma
quando Vittorio Bellotti, segretario della FIM-CISL, chiese di aderire al
PSIUP gli fu detto di no. I compagni del
PSIUP dovevano essere della CGIL. Qui sì che si vede il massimalismo unitario
di cui parla Canestri. Grave errore, in tal caso.
Comunque dal primo
all’ultimo giorno di vita il PSIUP fu di un attivismo assoluto. A pensarci,
quasi sbalorditivo. Infatti in termini
di numero di iniziative, come comizi, volantini e giornalini, presenza e promozione
di dibattiti, dall’inizio alla fine non fummo secondi a nessuno, avendo un solo
funzionario e non una quindicina o più come i comunisti. La debolezza, di cui
confluito nel PCI nel 1972 colsi l’immensa portata, era nella forma-partito.
Infatti il PCI non aveva bisogno di avere una gran proiezione esterna, cospicua
ma non troppo, per essere “nel” nostro mitico movimento politico di massa: era “in
se stesso” movimento politico di massa, seppure con tratti di
autoreferenzialità, e di incentramento assoluto del lavoro politico in un
apparato vasto e verticale - pur sempre burocratico - che a mio parere ne impedirono
l’autoriforma in senso socialista democratico europeo quando quest’autoriforma,
alla e dalla metà degli anni Settanta e non già vent’anni dopo circa, si
sarebbe imposta per realizzare un’alternativa democratica di sinistra
arcimatura in Italia, come nelle grandi socialdemocrazie mondiali
Il lavoro politico
del PSIUP, anche in Alessandria, fu creativo anche dopo il ’68, e più che
mai. Lo studioso del futuro che vorrà
percorrere gli innumerevoli opuscoli e volantini e articoli alla e sulla
Montecatini, Italsider, PAS, Bustese, Morteo, Arfea e tante altre, e i
notiziari della “vita di partito” sul “Filorosso”, “L’idea socialista”, “Operai
e Studenti”, e i comunicati e annunci delle tante iniziative sul “Piccolo”, e
valutare le innumerevoli manifestazioni al “Circolo Mondo Nuovo” di via
Savonarola in Alessandria, in cui passarono Ivan Della Mea, Amodei, Liliana
Lanzardo, Clemente Ciocchetti e tanti altri, potrà toccarlo con mano. Anche il
Sindacato Scuola della CGIL, di cui Canestri era stato un padre nobile a Roma e
anche qui, fu costruito soprattutto dopo il Sessantotto, da un terzetto di
compagni legatissimo a me ed a Rossa e tra i primi a voler confluire nel PCI
(Adriano Marchegiani, Andrea Foco e Pippo Amadio). L’idea che a parte un po’ di
comunicati e attivismo prima del Sessantotto, e tanto più dopo, qui ci fosse
stato il Circolo del Cinema o poco altro, è infondata. Se c’è bisogno di ulteriori
particolari, potremo pure darli.
La parabola dell’operaismo
marxista del PSIUP piemontese
Inoltre c’era un forte contatto con quell’operaismo marxista
cui Amodei e anche Agosti guardano con qualche rimpianto. Qui ho una
testimonianza non piccola da dare. Con
gli altri compagni della segreteria regionale come Mario Giovana. Giorgio
Gasparini e Franco Ramella, discutevo di continuo, in quel piccolo mondo di
buoni amici, rimasto tale sino al 1971. Ma il contatto continuo era con Pino
Ferraris e con la federazione di Torino. Pino nel ’66 (o ’67) era stato
chiamato a succedere a Dosio, dopo le buone prove date dall’operaismo a Biella,
come segretario della Federazione di Torino. Canestri, con affetto, li vedeva
con un po’ d’ironia: “Sono le terre di Fra Dolcino”, diceva riferendosi alla
loro radice biellese. A me sembrava la rinascita del consiliarismo gramsciano.
Ho chiacchierato molte volte con Pino Ferraris, persino nella sua montagna
presso Valtournanche nell’estate 1964, e più ancora col caro Clemente
Ciocchetti, un ex normalista a Pisa (poi
non laureatosi, per “colpa” della politica), diventato l’anima del lavoro
operaio del PSIUP alla FIAT: una delle persone migliori che io abbia conosciuto
nella mia vita. A Torino, come deputato, dal ’68 c’era anche Lucio Libertini,
lui pure ottimo interlocutore, oratore assolutamente formidabile, in tal campo
persino più di Basso e Foa (che naturalmente per quel che dicevano, in termini
d’innovazione delle idee e di profondità concettuale, mi piacevano di più). La
Federazione di Torino sembrava una fucina. Potevi capitare in qualunque giorno
della settimana e trovavi sempre sia studenti di sinistra che operai di
fabbrica in senso stretto. A decine.
Improvvisamente
cominciò la rottura tra i massimalisti unitari del partito (e più ancora del
sindacato, come Paolo Franco, dei metalmeccanici, e pure come la “grande anima”
di Gianni Alasia, a seguire) e operaisti torinesi (Ferraris, Ciocchetti e gli
altri). Fu tirato in mezzo anche Vittorio Foa, in una famosa assemblea, in cui
c’ero io pure e intervenni a favore della federazione di Torino di Ferraris:
assemblea in cui come ex sindacalista Foa aveva accettato di dare una mano ai
suoi amici della CGIL, benché Ferraris fosse pure il suo pupillo ed amico, per
la vita, sino alla fine. Foa, in quel 1969 inoltrato, fece uno straordinario
discorso, che però pendeva di più dalla parte del sindacato, il cui ruolo era
imprescindibile e doveva essere dialetticamente complementare al nostro. Fece
anche un grande discorso, che colpì molto anche Clemente, sulla doppia natura
dell’operaio (e quindi pure del movimento operaio organizzato, ossia del
sindacato di classe; ma questo Clemente forse non lo coglieva): da un lato
Forza Lavoro del Capitale e dall’altro Persona e per ciò irriducibile al
Capitale, di cui è sempre l’antitesi irriducibile. Echi di questa discussione,
ripresa anni dopo con Ferraris, ci sono anche nelle straordinarie memorie di
Foa, Il cavallo e la torre. Lì
secondo me c’è anche il positivo superamento del movimentismo di cui ho detto e
che l’aveva portato a trascurare l’impegno da segretario o cosegretario
possibile del PSIUP dopo il ’70: lì – nel Cavallo
e la Torre - persino con parole autocritiche, che mi hanno fatto piacere
perché già allora, in quel ’70-71, io la pensavo così. La novità del Cavallo e la torre, rispetto al Foa
anteriore, per me consiste nel suo
coniugare la visione della politica come politica delle masse, propria del
luxemburghismo, del “panzierismo” e del
pensiero suo proprio forse addirittura dal Trenta (i quaderni di “Giustizia e
Libertà”, col tema dell’”autonomia” e della libertà operaia, in scritti del
giovane Foa, ovviamente sotto pseudonimo), con quello che si chiama
decisionismo. Il vero e necessario politico rivoluzionario (o riformatore) è
colui che oltre a comprendere dove si dirigano i movimenti di massa emergenti,
sa indovinare la mossa giusta per orientarli nei momenti chiave: non però
dall’esterno (come in Carl Schmitt e forse pure in Lenin o in Togliatti, in cui
la leadeship valeva “anche” in quanto tale), ma dall’interno, direi come uno
che sappia viaggiare sull’onda – dei movimenti profondi – come chi faccia surf,
nei momenti decisivi. Questo, secondo Foa, sapeva fare Di Vittorio, che egli
perciò considerava suo maestro.
C’è però da
chiedersi perché Lucio Libertini e Mario Giovana, e tutti i massimalisti di
sinistra e unitari, si siano orientati contro Ferraris e compagni liquidandoli
politicamente nel 1971: operazione cui io fui contrario, cercando di pararla
d’intesa con Ramella e Clemente, almeno nel Regionale. Certo ci fu una reazione
del sindacato verso la pretesa di far politica tra gli operai prescindendone,
ma questo non fu certo il dato decisivo.
Non è che Ferraris nel ’71 fosse cambiato, né tantomeno gli altri operaisti.
Semmai si erano un po’ ammorbiditi. Naturalmente ci sono pure, come sempre, i
fatti personali. Ad esempio nel 1968, al congresso di Napoli in cui io fui
delegato, io e Rossa fummo ufficialmente consultati dal senatore Passoni, per
conto di Vecchietti (non per la nostra bella faccia, ma perché Alessandria era
la seconda Federazione del Piemonte), su Pino Ferraris e Mario Giovana. Avevano
pari merito per entrare in Direzione, anche perché uno era segretario di Torino
e uno segretario regionale. Ci chiamavano a far pendere la bilancia in un senso
o nell’altro. Io, con Rossa concorde per varie ragioni, consigliai vivamente
Ferraris. E entrò Ferraris. Certo questo non lasciò indifferente l’escluso, che
aveva una grande storia alle spalle sin dai tempi del mitra sulle montagne,
come un capo della Resistenza, e poi anche come storico e inviato speciale. Ma
c’è molto di più, e di più politico. Il
punto di svolta è sempre il 1970, con quel terzo di voti perso dal PSIUP,
che in elezioni parziali del ’71 giungeva quasi ai due terzi. L’ultimo canto
del cigno dell’operaismo marxista fu il convegno operaio del 1970, con forte
partecipazione e intenso dibattito, e molti documenti importanti, stranamente
sfuggiti all’occhio vigile di Agosti.
Dal giorno dopo le
elezioni amministrative del 1970, tutti quanti quelli che avevano del sale
politico in zucca presero a interrogarsi sul “che fare?”. Il problema non era
ancora quello delle confluenze nel PCI o PSI, pur remotamente ipotizzate. Il
problema vero era che con quel risultato e contesto nuovo (fine del PSU, nuovo
PSI, demartinismo, PCI in crescita, crisi dei “movimenti” contestatori
dissoltisi in chiesette settarie), s’imponeva una linea più unitaria con il
PCI. Quella svolta, più che giusta, pareva incompatibile con l’operaismo di
Ferraris e compagni. Questo radicalizzava i motivi di dissidenza da parte della
CGIL,trasferendoli sul terreno politico. Oltre a tutto nel 1970 erano nate le
Regioni. Nei Consigli Regionali la contiguità gomito a gomito tra leader
comunisti e psiuppardi, ad esempio tra Giovana e il segretario del PCI di
Torino (e poi regionale), Adalberto Minucci, che tra l’altro era un fine
politico e intellettuale, certo non fu senza conseguenze. S’incuneò, nel grande
dialogo - segnato pure da un paio di incontri tra segreterie regionali del PSIUP e PCI
cui partecipai - l’ombra di Libertini, che proprio in quella fase trovò
utile impersonare il PSIUP a Torino (di cui poi divenne l’ultimo segretario di
federazione). Veleggiare verso il PCI essendo segretario di Torino e
soprattutto presentandosi come i liquidatori dell’”estremismo” operaista
torinese, che era tanta parte di quello italiano, era una tattica brutale, ma
non stupida. Convinse pienamente Minucci, ma non altri massimi dirigenti,
presso i quali forse perse lui stesso un po’ di prestigio per quell’apertura.
Essi avevano “strane idee” su Libertini, come Agosti benissimo documenta, ma
alla fine dovettero “abbozzare”, pur mantenendo le loro pregiudiziali.
La cosa paradossale
è che a volere deputato di Torino il Libertini, nel ’68, era stato proprio Pino
Ferraris, per il suo approccio tutto teleologico, ossia idealmente finalistico,
direi neokantiano, alla politica. Libertini era quello che nel ’58 aveva
scritto con Raniero Panzieri le Tesi sul
controllo operaio sulla produzione. Inoltre era un formidabile oratore.
Sembrava rafforzare tutta una battaglia politica “di” e “da” sinistra.
Al congresso del
PSIUP di Torino del ’71 Ferraris e compagni furono messi in minoranza. Chiesi
ai miei amici operaisti come fosse stato possibile. Mi spiegarono che nelle
sezioni territoriali - che nel loro stare sempre di fronte alle fabbriche o tra
loro erano certo state ingenuamente e colpevolmente trascurate da loro -
c’erano tanti vecchi compagni, che avevano votato contro di loro. I soliti
vecchi compagni che i “sinistri” trascuravano. Secondo me per essi, del tutto
giustamente, i Giovana, i Filippa, gli Alasia erano punti di riferimento forti,
spesso dal 1944. Così il gioco fu fatto.
Nel ’71 ci furono –
come ho accennato - altre elezioni parziali, che attestavano che il PSIUP,
rispetto al ’68 aveva perso altri voti, dimezzandosi o poco più. Allora iniziò,
prima sotterraneamente e poi manifestamente, il dibattito sulle confluenze. Dal
1970 in
poi io ero diventato vicesegretario unico della federazione di Alessandria,
sempre con Rossa segretario. Ma Rossa voleva tornare nel PSI, mentre io, che
oltre che operaista marxista mi
consideravo leninista, ritenevo che lo sbocco naturale per tutti noi, che
ci eravamo sentiti alla sinistra del PCI e ancora ci sentivamo tali, avrebbe
dovuto essere il PCI. Ciò
mi portò a unirmi all’area che voleva sfiduciare da sempre Rossa, quella di
Canestri, che sembrava disposta a entrare a suo tempo, se ce ne fossero state
le condizioni, nel PCI. Poi non lo fece, secondo me soprattutto per l’ostilità
a ciò di Adelio Ferrero. Comunque formammo una cosegretaria alla pari, tra me
(per breve tempo primo segretario, mai funzionario), Rossa e Canestri.
Di lì a poco fummo investiti dalle elezioni politiche
anticipate del 1972. Quest’anticipazione
impedì quella decantazione necessaria a far maturare opzioni meno
autodistruttive (io ad esempio speravo, e feci documenti in tal senso, che col
PCI si potesse fare una confederazione, in vista di un’unificazione federativa
di tutta la sinistra). Su ciò ho un’altra testimonianza importante da portare.
Nel Direttivo Regionale, l’organismo ristretto tra segreteria regionale e
segretari di federazione, di cui facevo parte, in vista delle elezioni Libertini
- che era ora il segretario di Torino oltre che, da sempre, membro della
Direzione nazionale - ci disse che oltre alle liste comuni col PCI per il
Senato – già fatte nel ’68 e allora contestate dalla sinistra e da molti tra
noi - Vecchietti in Direzione aveva proposto di fare liste comuni anche alla
Camera. Io colsi la palla al balzo e chiesi perché mai, con quei risultati
prevedibili, non avremmo dovuto accettare. Libertini mi rispose: “Perché in
questo caso non si tratterebbe di politica unitaria, ma di politica di
unificazione”. In quella stessa occasione ci fu un simpaticissimo ingegnere
tipicamente massimalista di sinistra, nostro segretario di federazione, lo
stesso che nel 66 aveva iscritto Fausto Bertinotti al PSIUP, il
quale disse: “Sì, anch’io potrei un giorno entrare nel PCI, se mi puntassero
una pistola contro la schiena per farmi entrare”. Nel 1976 Fracchia mi portò,
da Roma, i suoi amichevoli saluti; non solo era entrato nel PCI nel ‘72, ma era
diventato suo deputato alle elezioni politiche (ma allora io non rivelai il
divertente aneddoto). La storia va così e stupirsene sarebbe eccessivo. Dopo la riunione del Direttivo Regionale di
cui ho detto, a proposito delle liste unitarie eventuali alla Camera proposte
da Vecchietti, Angiolino Rossa, che faceva parte della corrente di maggioranza
(e forse far parte della corrente di maggioranza gli è sempre piaciuto un po’
troppo), mi raccontò che in una riunione
della sua area Vincenzo Gatto, il più autorevole rappresentante del PSIUP
siciliano, si era rivolto al segretario di Milano e ai compagni che
l’accompagnavano, come il direttore di “Mondo nuovo”, Andrea Margheri, dicendo
loro: “Guardate che siamo tutti nelle vostre mani”. Il riferimento andava al “quorum”, l’elezione di un deputato pieno
(allora almeno cinquantamila voti in almeno un collegio elettorale), ritenuto
possibile, in base alle previsioni, solo a Milano.
In Alessandria i
tre membri della segreteria provinciale – di fatto rappresentativi dell’ala
filocomunista (io), filosocialista (Rossa) e di continuazione del PSIUP
(Canestri) - furono tutti e tre candidati alla Camera, con buona affermazione
da parte di ciascuno, e in primo luogo di Giorgio Canestri naturalmente. Come
tutti sanno il “quorum” non fu realizzato e il PSIUP disperse quasi
seicentomila voti della sinistra. Brutta fine che accelerò tutto in modo
drammatico. Canestri, in tal caso – dopo anni di dissenso in cui Adelio Ferrero
aveva sostenuto Rossa – si ritrovò col suo grande amico di una vita, Adelio
Ferrero, che in effetti dopo il ’69 si era spostato molto a sinistra, scoprendo
ad esempio la scuola di Francoforte. I
continuatori presero la maggioranza. Io diressi la confluenza dei filocomunisti
nel PCI, tra cui c’erano compagni come Mario Verna, come Luciano Stella (il
leader della contestazione studentesca che nel ’70 io avevo convinto a
candidarsi come indipendente per il Consiglio Comunale e che poi era diventato
del PSIUP, oltre che mio grandissimo amico per la vita), e come i tre segretari
del Sindacato Scuola della CGIL (Adriano Marchegiani, Andrea Foco e Pippo
Amadio). Canestri, io e Rossa svolgemmo le tre relazioni al congresso
provinciale del 1972. Rossa alla fine interpretò bene, da quell’uomo di grande
cuore che era, il sentimento comune: “Da oggi ciascuno di noi sarà un poco
orfano”. In seguito i continuatori si fusero col “Manifesto” formando il
Partito di Unità Proletaria (come sempre i comunisti, anche eretici, rifiutano
di dirsi “socialisti”). In seguito Canestri e Ferrero si urtarono con un’ala
che voleva interloquire, in vista delle elezioni del 1975, per fare liste
unitarie, anche con Lotta Continua,
credo per formare Democrazia Proletaria, cui pure mi pare abbia aderito per un
po’ Foa; e diventarono indipendenti di sinistra, sempre protagonisti della vita
culturale della città. Rossa fu poi Presidente socialista della Provincia e
anche del Consiglio Regionale. Io fui, nel decennio 1975-1985, prima membro
della segreteria provinciale del PCI, poi assessore alla cultura e capogruppo
nel Comune di Alessandria per tutto il decennio 1975-1985. Dal 1969 al 1974
sono stato professore di Filosofia, incaricato e poi di ruolo, presso
l’Istituto Magistrale di Alessandria. Poi dal 1974, sino al mio pensionamento
nel 2010, sono stato docente universitario, infine professore ordinario presso
la Facoltà di Scienze Politiche dell’Università degli Studi di Milano.
Pino Ferraris entrò
più oltre nell’Ufficio Studi della CGIL, e in seguito divenne professore
associato di Sociologia all’Università di Camerino e, infine, un protagonista
dell’ISSOCO, la Fondazione già di Basso. L’ex studente della Normale di Pisa e
protagonista del lavoro politico di fabbrica alla FIAT, Clemente Ciocchetti,
anonimamente, allo scioglimento del PSIUP andò a fare l’operaio in una fabbrica
di Torino di ottomila dipendenti e infine divenne un restauratore di mobili,
soprattutto antichi, attestando sino alla fine quale radicalità esistenziale
avesse assunto per lui l’essere parte del movimento degli operai. Il destino di
altri è più noto.