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Dialogo sull'Italia repubblicana e sul PSIUP (II)
Franco Livorsi
Il PSIUP in Piemonte: Alessandria e Torino

   La gestazione del PSIUP

E’ per noi inevitabile spostare il ragionamento sul PSIUP dal piano esclusivamente nazionale a quello anche alessandrino e piemontese. E’ un terreno difficile, per chi l’abbia vissuto giorno per giorno, anche se sono passati cinquant’anni dall’inizio e oltre quaranta dalla fine degli eventi in questione. E’ molto facile proiettare nel passato le nostre idee d’oggi, e storicamente va evitato. Allora ad esempio non c’era nessuno, nel PSIUP, che si dicesse fedele alla Costituzione e annesso parlamentarismo, visti da tutti come dimensione tattica in vista di un salto di sistema sociale. Si era stati “costituzionali” da sinistra prima del Sessantotto e soprattutto prima del ’64. Ma con molte contraddizioni. Ricordo perfettamente il salone di via Faà di Bruno in Alessandria quando Amaele Abbiati, certo in modo schematico, nel ’63, prima della scissione, chiedeva a Canestri se riconosceva che preso democraticamente il potere bisognasse mollarlo in base al voto alle elezioni successive se questo fosse stato sfavorevole alla sinistra (diversamente da quel che avevano fatto i comunisti una volta ottenuto il governo, nel mondo). Non gli si rispose certo: “Sì, senza dubbio”, come ora non esiteremmo a fare neanche per un secondo (io come Canestri). Più oltre non si era certo su tali posizioni “costituzionali di sinistra” quando si guardava al castrismo o a Mao (io Mao me lo sono risparmiato, ma nel ’68, per amor di Lenin, giustificavo l’URSS, di cui pure riconoscevo, come tutti noi riconoscevamo, la “degenerazione burocratica”). Persino Foa, che era stato un padre costituente, credo il più giovane costituente, e ciò dopo che aveva trascorso nove anni “in prigione” sotto Mussolini, dava risposte su ciò sorprendenti. Nel ’67 prese a uscire per la Feltrinelli un quindicinale  intitolato “La sinistra”, diretto da Lucio Colletti, allora marxista rivoluzionario (infine, di criticismo in criticismo, questo grande studioso del marxismo di sinistra divenne senatore di Forza Italia). Bene, possiamo andare a vedere in uno dei primi due o tre numeri l’intervista a Foa e quel che diceva della Costituzione. Per lui era puramente borghese. La posizione del coniugare insieme parlamentarismo e lotte di massa era di Ingrao, ma mentre tutti noi ritenevamo allora un obiettivo minimo positivo, necessario e possibile spostare il PCI sulle posizioni di Ingrao, nessuno si sarebbe fermato lì. Semmai quella posizione ingraiana era “identica” a quella sostenuta, con accentuazioni più di sinistra, proprio dalla Direzione del PSIUP, dai filocomunisti, ma tra molti distinguo: non certo dalla sinistra del PSIUP. Lì, anzi, se uno diceva così passava subito per un mezzo sociademocratico. I tempi erano così. Anche i “bassiani”, tanto più che nel ’68 Basso uscì dal partito, su ciò avevano avuto, come minimo dal ’68, un’evoluzione (che oggi possiamo dire involuzione, fosse questa una ferma convinzione o una concessione ai tanti “ragazzi rossi” in circolazione).

   Il riferimento storico e autobiografico di Canestri, nel bel dialogo con Amodei, spazia su due fasi della storia alessandrina e piemontese: quella del decennio, o meglio tredicennio, tra il 1955 e il 1968 e quello del quadriennio successivo.  E fa bene, anche se per sé accentua molto la continuità tra i due periodi. Essendo solo di sette anni più giovane di Canestri, ed avendone però settantatre anni  (“Ragazzi come passa il tempo”, diceva Totò in una famosa gague apprendendo della morte di Diocleziano), mi sento di fare l’affermazione che segue. Se dovessi fare un profilo biografico di Canestri (facciamo gli scongiuri perché vogliamo vivere ancora tanti anni tutti quanti), io direi che gli anni di gran lunga migliori della sua vita culturale e politica siano proprio quelli compresi tra il 1955 e il 1965 (sino al ‘68 come termine “ad quem”; e oltre, ma “meno”). Anche se tutto quel che dice - sul suo ruolo nell’Associazione Difesa Scuola Pubblica (ADESPI), sulle origini del Sindacato Scuola della CGIL a livello nazionale, sul suo ruolo nell’ISRAL, su Città Futura, eccetera - è assolutamente vero. Ma l’acme - che in ogni vita c’è - per lui secondo me è stato il primo lungo periodo cui ho accennato. Come deputato ha certo operato bene, ma mi sembra un capitolo meno originale. Quello che dico, ad esempio, vale per “L’idea socialista”, di cui fu lo storico direttore, non so da che anno, ma credo per gran parte del periodo compreso tra 1955 e 1963 (o comunque lo fu di fatto anche quando forse il direttore formalmente era Giampaolo Cellerino, un vero morandiano intelligente e anche un po’ spigoloso, poi nenniano autonomista, secondo solo ad Abbiati in Alessandria tra quelli di tale area). E quando Canestri nell’intervista a lui e ad Amodei dice che quel che era stato “Mondo nuovo” diretto da Libertini era “L’idea socialista” qui, ha ragione ed è anzi molto convincente; ma prima del PSIUP; poi, per ragioni economiche, “L’idea socialista” “si tacque”. Rinacque nel 1969 grazie al nuovo segretario dal 1966, il caro e compianto amico Angelo Rossa; ma per ragioni economiche la sua periodicità fu allora sempre precaria, tanto che se ne fecero non più di una decina di numeri durante la vita del PSIUP.

   In ogni caso  c’è tutta una storia della sinistra socialista prima del  PSIUP che lo storico locale non dovrà lasciarsi sfuggire. Lì c’è stato veramente un cantiere del cambiamento, in cui tutto quel che vi si troverà su quel che venivano scrivendo, dicendo e facendo tra i nenniani i famosi Abbiati e Giampaolo Cellerino, e con loro e oltre a loro e poi contro di loro i vari Giorgio Canestri, Giuseppe Ricuperati, Adelio Ferrero, Giorgio Piccione, Luigino Capra e altri apparirà degno di nota. E molto. Ho detto con i nenniani e oltre perché non è vero che si sia sempre stati contro l’alleanza con  la Democrazia Cristiana. Almeno non è vero per Canestri e Ricuperati. Perché rimuovere un aspetto che potrebbe anzi essere stato un merito storico? – Giorgio Canestri e Giuseppe Ricuperati erano stati due “autonomisti”, certo del tipo più prossimo, poi, a Riccardo Lombardi che a Nenni. C’è un numero glorioso di “Problemi del socialismo” che contiene un testo che mi pare si intitolasse Lettera di due ex autonomisti, non saprei se del 1960 o del 1961, numero che dà conto proprio del loro passaggio alla posizione bassiana, ossia alla piccola gloriosa corrente di “Alternativa democratica”, cui aderii io pure nel 1962, collaborando pure all’”Idea socialista” sin da allora, anche se già nel ’63 ero diventato marxista operaista e foano[1], per cui fui ben felice dell’unificazione tra corrente di Basso e di Vecchietti avvenuta nel ‘63. Ma dapprincipio neanche Basso escludeva l’alleanza tra PSI e DC: solo che la definiva “tattica, ma non strategica”, ossia la intendeva come un’operazione atta a sfondare il centrismo, che per lui era stato addirittura un nuovo regime autoritario come il fascismo[2], in vista di un’alternativa democratica di sinistra in cui una grande area socialista, comprensiva pure dei comunisti, formata di non credenti e credenti, dopo un lungo lavorio antagonistico nella società civile (i contropoteri, per lui culturali e sociali), avrebbe preso il potere. In una logica tutta di alternativa democratica di sinistra, di governo e di sistema sociale. Ma per essere “tattico” il centrosinistra non avrebbe dovuto essere un’alleanza “organica” e, soprattutto, non avrebbe dovuto ammettere alcuna chiusura  a sinistra, almeno tramite convergenze parlamentari concordate e palesi e soprattutto alleanze negli enti locali (per Basso in vista non solo del per lui ovvio graduale incontro tra centrosinistra e comunisti, ma anche e soprattutto del superamento, socialista, della frattura tra comunisti e socialisti del 1921, verso un nuovo socialismo unitario “di sinistra” ed europeo).

 

Correnti del PSIUP alessandrino e piemontese

Il centrosinistra come patto di legislatura e con rottura dell’alleanza con i comunisti persino negli enti locali, bruciò pure tale possibilità tattica e indusse i socialisti di sinistra, che non potevano ammettere fratture a sinistra, a fondare il PSIUP. Si formarono due tendenze interne. La prima era quella che con Canestri si può ben dire massimalista di sinistra, legata soprattutto all’accettazione dell’appartenenza a un campo comune comprensivo del comunismo, soprattutto italiano, ma anche mondiale (e quindi o filosovietico o, nella “Sinistra”, più simpatizzante con la Cina, e soprattutto, e trasversalmente, con il castrismo e guevarismo). Su ciò si davano, qui come a Torino, diversi accenti. Tutti quanti erano critici - salvo naturalmente le solite teste “di pietra” che non mancano in  nessun movimento - sia della linea ufficiale del PCI che dell’URSS. L’area comunista, pur riconosciuta da tutti come alleato sociale e politico imprescindibile, era considerata più o meno burocratica, ma soprattutto tendente a inserirsi nel centrosinistra invece che all’alternativa di sinistra. Ma man mano che si diffondeva la cultura del marxismo di sinistra, l’eco dei movimenti rivoluzionari del mondo, e la comprensibile reazione contro il burocratismo autoritario sovietico, facevano sì che il massimalismo degli “psiuppini” - si sdoppiasse o triplicasse. Emergeva, in una minoranza cospicua, un massimalismo di sinistra che era tendenzialmente filocinese o castrista, anche per forte insofferenza verso il burocratismo sovietico e verso lo stesso PCI, come si vedeva in Libertini come in Canestri e nei loro amici. Inoltre si evidenziava pure un massimalismo unitario, che pur dicendo cose molto simili non voleva mai spingere la divisione a sinistra a livelli di scontro vero e proprio, perseguendo una politica di condizionamento e non di alternativa al PCI: politica su ciò concordavo io, concordava Angelo Rossa, e concordavano tanti altri, che poi confluiranno, allo scioglimento del PSIUP del 1972, in gran parte nel PCI e taluno, come Rossa, di nuovo nello PSI. C’era poi una terza posizione “di sinistra”, foana, che voleva costruire l’alternativa di sinistra organizzando l’antagonismo a livello sociale, in primo luogo nelle grandi fabbriche. Quest’ultima era la posizione cui io – pur ritenendo tatticamente imprescindibile un certo massimalismo unitario, verso il PCI, ben oltre quel che pensassero gli altri operaisti – aderii sin dall’inizio, diventando dal 1964 al 1972 il responsabile del lavoro politico di fabbrica della federazione di Alessandria del PSIUP. Canestri a ciò era molto aperto, e anche Verna. Canestri era stato il giovane carismatico leader non solo dei bassiani, ma della sinistra socialista; il direttore dell’”Idea socialista” e il vero protagonista della scissione del ’64, dapprincipio un vero maestro, di vita e politico, per tutti noi. Dopo la fondazione del PSIUP, un generoso e concreto massimalista unitario, Mario Verna, era diventato il segretario e funzionario, Canestri il vicesegretario e membro del Comitato Centrale. Dapprincipio la loro segreteria dette un grande spazio al lavoro politico di fabbrica, che io ritenevo fondamentale perché non si annegasse in un mare di chiacchiere di estrema sinistra senza sugo, contrassegnate da microdocumenti di estrema sinistra di cui, a quel che ritenevo già allora, a ragione o a torto, dal più al meno non importava niente a nessuno.

   Anche se non ho conservato il testo – ma qualcuno a Casale l’avrà, o ci sarà nell’Archivio del PSIUP di Roma in cui ha lavorato Agosti – nel 1965 facemmo per gli operai della Eternit uno dei numeri di giornalini di fabbrica in cui io mi ero venuto specializzando. Riunivo gli operai del PSIUP o, se ce n’erano che accettassero, del PCI o senza partito, attorno a un tavolo. Registravo o prendevo appunti su ogni intervento in modo dettagliatissimo, frase per frase, e poi sbobinavo o ricostruivo i discorsi di operai, esattamente come fa il bravo Franco Castelli per raccogliere la cultura orale, ma con un’assiduità che noi, che facevamo tutte le parti in commedia, non potemmo mai uguagliare. Bene. Comunque l’idea era quella di far emergere i motivi di conflitto sociale con la voce stessa degli operai per generalizzarli immediatamente, il che aveva effettivamente effetti dirompenti nella base operaia. Era la lezione e l’esperienza di Raziero Panzieri, Vittorio Foa e Pino Ferraris, il secondo e terzo del PSIUP dall’inizio alla fine. Comunque posso assicurare che già allora, nel 1965, noi in un opuscolo di “Filorosso” alla Eternit che dava voce agli operai, denunciammo le morti per amianto. Non per merito mio personale, sia chiaro, ma perché  c’erano alcuni operai più svegli che ce l’avevano raccontato in modo dettagliatissimo. Ricordo che dicevano – sono certo che scarpettando si potrebbe ritrovare il testo – più o meno così: “Molti dicono che andrà meglio quando saremo in pensione. Ma ben pochi arriveranno vivi alla pensione e se ci arriveranno moriranno prestissimo di cancro, come tra noi capita quasi a tutti”. Facemmo giornalini simili anche alla Montecatini di Spinetta Marengo, dove poi per anni e anni divenimmo una presenza molto frequente, sino alla fine del PSIUP. Provate un poco a chiedere all’allora segretario dei chimici della CGIL, Mantovanelli, ancora tra noi (in Sinistra e Libertà), con cui avevamo un rapporto di incontro-scontro. La cosa fu così efficace che gente come Gianfranco Faina e Gianfranco Della Casa, professori di Filosofia nella nostra città, avrebbero voluto collaborare con noi, presentando persino un’inchiesta sull’Italsider di Novi. Su ciò ho diverse loro lettere. Ma la segreteria della federazione del PSIUP di Alessandria, impersonata da Verna e Canestri dal 1964 al 1966, si era trovato sottoposto a forti critiche da parte di quello che Canestri chiama massimalismo unitario.  Perciò quando io mi arrampicai a insegnare sui bricchi lasciò sbollire la cosa. Fosse per mancanza di voglia, o per tatticismo, o per entrambe le ragioni.

   Così la segreteria provinciale del PSIUP impersonata da Verna e Canestri divenne a Dio spiacente e “alli nemici suoi”. Non piaceva ai massimalisti unitari, non piaceva a taluni bassiani storici, che paventavano una deriva estremistica “filocinese”, e forse avevano anche antichi dissapori che nei partiti non mancano mai; e non piaceva neppure a me, che a ragione o a torto allora ritenevo sterile un antagonismo lontano dal lavoro politico tra gli operai, e che per tale “lontananza” trovavo verbalistico quel massimalismo. E alla vigilia del secondo congresso nazionale del PSIUP, che in realtà era il primo perché il primo era stato un’assemblea fondativa, nel 1966 ila segreteria di federazione Verna-Canestri fu  messa in minoranza. Ci fu un vecchio amico che si fece prestare la Volksfagen della Federazione, per non farsi dare del frazionista, per fare il giro contattando i più autorevoli membri del Direttivo provinciale. Il parlarsi tra membri del Direttivo del resto era ritenuto perfettamente ammissibile. Ricordo che alla guida c’era Adriano Marchegiani. Poi c’era Andrea Foco, c’era Piccione e c’ero anche io. Oggi capisco che certo pesarono anche vecchie ruggini tra dirigenti, dei vecchi partiti, che non mancano mai. Ad esempio per la perdita della federazione del PSI, conquistata di misura dai nenniani di Abbiati, all’ultimo congresso del PSI prima della nascita del PSIUP, e forse anche per le elezioni amministrative del 1964, provinciale e di Alessandria, in cui il PSIUP ebbe un buon risultato, eleggendo Verna consigliere provinciale e Canestri consigliere comunale. Quali fossero, oltre alle primarie motivazioni ideali e politiche, le ragioni più attinenti a vecchie o recenti ruggini, è un fatto che i contattati dagli avversari della segreteria provinciale di Verna e Canestri furono concordi sulla necessità di rimuoverli dal loro incarico. Uno disse il suo sì mentre aveva una gamba ingessata sospesa per aria, dopo un incidente d’auto, a Casale. Ci fu un Direttivo, in cui io intervenni ampiamente, e questi cari amici, Verna e Canestri, vennero messi in minoranza. Assentirono pure amici a Giorgio carissimi per la vita, allora e al congresso nazionale, in cui furono consultati. La politica a volte è spietata e, per l’aspetto nazionale congressuale, come dirò, assolutamente ingiusta. Era già stato concordato che Angiolino Rossa, che era il segretario provinciale della Federbraccianti (e che, nel nostro Direttivo, Piccione disse “sciupato” a quel posto), sostituisse o si desse il cambio con Verna a livello di partito (come poi avvenne). Ma “i nostri”, giunti come delegati al congresso nazionale - erano Piccione, Rossa. Verna e Angelo Migliora - decisero – ovviamente contro Verna - di “liquidare” Canestri dal Comitato Centrale. Non me l’ero aspettato e quando alla successiva conferenza provinciale d’organizzazione, che prendeva atto del cambio di segreteria, nel salone della CGIL di via Cavour, il tutto fu ratificato, io intervenendo ebbi persino un malore. Abbozzai, com’era ovvio, Ma storicamente ritengo che sia stato non solo un atto umanamente ingiusto in sommo grado, ma assurdo politicamente. Era ingiusto umanamente perché tagliava le gambe al dirigente che tra noi aveva meglio meritato, nel settore propagandistico, giornalistico, culturale e scolastico: uno che aveva sì qualche punta di massimalismo verbalistico, ma che certo era migliore di tanti altri. Mi fu detto che nella rosa dei candidati al Comitato Centrale apprestata da Vecchietti, che evidentemente era in ordine preferenziale, in cui i primi 25 erano la Direzione nazionale, Canestri era il numero 26, ossia quasi un membro della Direzione. I compagni che avevano compiuto quel blitz dicevano che altrimenti tutta l’operazione alessandrina sarebbe stata vana perché l’egemonia sarebbe rimasta a Canestri, con i tratti politici che criticavamo. Ma era un grave errore – nonostante i problemi che si sarebbero dovuti altrimenti affrontare - perché esasperava artificialmente, e prolungava necessariamente nel tempo, contrasti che invece l’etica della responsabilità avrebbe dovuto indurci a ricomporre al più presto. Infatti durarono vivi e forti sino al 1970, anche se dal 1969 mi ritrovai molto attivo come conciliatore delle nostre differenze, specie con Canestri. Nonostante ciò il maggio del 1968 registrò alle elezioni – per protesta di lavoratori contro l’unificazione “socialista” tra Nenni e Saragat realizzata nel 1966, ma anche per la grande apertura di tutto il PSIUP alla contestazione studentesca ed operaia - un notevole successo del PSIUP, intorno al 4,5% a livello nazionale e quasi al 5 in Alessandria, dove Giorgio Canestri, che aveva trentatre anni, divenne sino al 1972 il deputato del PSIUP.

   Come ho ricordato, dal 1966 la segreteria era impersonata da Angelo Rossa. Nello stesso 1966 divenni membro del Comitato Esecutivo provinciale e responsabile del lavoro politico di fabbrica, che seguitò, sempre più intenso, sino allo scioglimento del PSIUP. Nel 1965 ero andato a insegnare e abitare a Pontecurone. Ebbene lì sperimentai non solo l’operaismo marxista e foano, ma anche l’operaismo in una relazione vera, polemica e unitaria, spessa del tutto amichevole, con i comunisti, che lì, al pari dei nostri compagni, erano quasi tutti operai ed operaie. Facemmo nelle fornaci e al Bustese un lavoro di opposizione sociale costante, che ci fece diventare persino amici fraterni dei migliori e più combattivi compagni di quella comunità di operai e di operaie. Del PSIUP e comunisti. Su ciò potrei raccontare moltissimo, ma me ne astengo. Fui io a indicare e far approvare il sindacalista che ci rappresentava nella CGIL, il mio compianto amico già leader naturale dei fornaciai Marcello (“Marcellino”) Castellani, che andava a sostituire Rossa (spostato al PSIUP come segretario). Logica avrebbe voluto che Castellani andasse a lavorare nel settore in cui era stato un operaio assai popolare, la FILLEA, il settore dei lavoratori del laterizio (cui facevano capo anche i lavoratori della Eternit, oltre a fornaciai e muratori), di cui era segretario il nostro compagno Angelo Migliora: un tipo “in gamba”, ma con un carattere molto “scontroso”. Questi non volle Castellani “tra i piedi” e “Marcellino” fu posto tra i metalmeccanici, dove ebbe una coesistenza non facile con Dovano, il comunista segretario provinciale della FIOM, benché “Marcellino” fosse subito diventato popolarissimo – forse troppo, per sua sfortuna - tra gli operai. Dopo di che si fece assumere dalla CISL, diretta allora da Franco Coscia, in cui il suo “brazo libertario” ebbe modo di sfogarsi. La CISL per il PSIUP è stata importante. A Torino moltissimi compagni operai erano della FIM-CISL. Anche qui c’era simpatia. Ma quando Vittorio Bellotti, segretario della FIM-CISL, chiese di aderire al PSIUP  gli fu detto di no. I compagni del PSIUP dovevano essere della CGIL. Qui sì che si vede il massimalismo unitario di cui parla Canestri. Grave errore, in tal caso.

  Comunque dal primo all’ultimo giorno di vita il PSIUP fu di un attivismo assoluto. A pensarci, quasi sbalorditivo. Infatti  in termini di numero di iniziative, come comizi, volantini e giornalini, presenza e promozione di dibattiti, dall’inizio alla fine non fummo secondi a nessuno, avendo un solo funzionario e non una quindicina o più come i comunisti. La debolezza, di cui confluito nel PCI nel 1972 colsi l’immensa portata, era nella forma-partito. Infatti il PCI non aveva bisogno di avere una gran proiezione esterna, cospicua ma non troppo, per essere “nel” nostro mitico movimento politico di massa: era “in se stesso” movimento politico di massa, seppure con tratti di autoreferenzialità, e di incentramento assoluto del lavoro politico in un apparato vasto e verticale - pur sempre burocratico  - che a mio parere ne impedirono l’autoriforma in senso socialista democratico europeo quando quest’autoriforma, alla e dalla metà degli anni Settanta e non già vent’anni dopo circa, si sarebbe imposta per realizzare un’alternativa democratica di sinistra arcimatura in Italia, come nelle grandi socialdemocrazie mondiali

    Il lavoro politico del PSIUP, anche in Alessandria, fu creativo anche dopo il ’68, e più che mai.   Lo studioso del futuro che vorrà percorrere gli innumerevoli opuscoli e volantini e articoli alla e sulla Montecatini, Italsider, PAS, Bustese, Morteo, Arfea e tante altre, e i notiziari della “vita di partito” sul “Filorosso”, “L’idea socialista”, “Operai e Studenti”, e i comunicati e annunci delle tante iniziative sul “Piccolo”, e valutare le innumerevoli manifestazioni al “Circolo Mondo Nuovo” di via Savonarola in Alessandria, in cui passarono Ivan Della Mea, Amodei, Liliana Lanzardo, Clemente Ciocchetti e tanti altri, potrà toccarlo con mano. Anche il Sindacato Scuola della CGIL, di cui Canestri era stato un padre nobile a Roma e anche qui, fu costruito soprattutto dopo il Sessantotto, da un terzetto di compagni legatissimo a me ed a Rossa e tra i primi a voler confluire nel PCI (Adriano Marchegiani, Andrea Foco e Pippo Amadio). L’idea che a parte un po’ di comunicati e attivismo prima del Sessantotto, e tanto più dopo, qui ci fosse stato il Circolo del Cinema o poco altro, è infondata. Se c’è bisogno di ulteriori particolari, potremo pure darli.

  

La parabola dell’operaismo marxista del PSIUP piemontese

Inoltre c’era un forte contatto con quell’operaismo marxista cui Amodei e anche Agosti guardano con qualche rimpianto. Qui ho una testimonianza non piccola da dare.  Con gli altri compagni della segreteria regionale come Mario Giovana. Giorgio Gasparini e Franco Ramella, discutevo di continuo, in quel piccolo mondo di buoni amici, rimasto tale sino al 1971. Ma il contatto continuo era con Pino Ferraris e con la federazione di Torino. Pino nel ’66 (o ’67) era stato chiamato a succedere a Dosio, dopo le buone prove date dall’operaismo a Biella, come segretario della Federazione di Torino. Canestri, con affetto, li vedeva con un po’ d’ironia: “Sono le terre di Fra Dolcino”, diceva riferendosi alla loro radice biellese. A me sembrava la rinascita del consiliarismo gramsciano. Ho chiacchierato molte volte con Pino Ferraris, persino nella sua montagna presso Valtournanche nell’estate 1964, e più ancora col caro Clemente Ciocchetti, un ex normalista a Pisa[3] (poi non laureatosi, per “colpa” della politica), diventato l’anima del lavoro operaio del PSIUP alla FIAT: una delle persone migliori che io abbia conosciuto nella mia vita. A Torino, come deputato, dal ’68 c’era anche Lucio Libertini, lui pure ottimo interlocutore, oratore assolutamente formidabile, in tal campo persino più di Basso e Foa (che naturalmente per quel che dicevano, in termini d’innovazione delle idee e di profondità concettuale, mi piacevano di più). La Federazione di Torino sembrava una fucina. Potevi capitare in qualunque giorno della settimana e trovavi sempre sia studenti di sinistra che operai di fabbrica in senso stretto. A decine.

   Improvvisamente cominciò la rottura tra i massimalisti unitari del partito (e più ancora del sindacato, come Paolo Franco, dei metalmeccanici, e pure come la “grande anima” di Gianni Alasia, a seguire) e operaisti torinesi (Ferraris, Ciocchetti e gli altri). Fu tirato in mezzo anche Vittorio Foa, in una famosa assemblea, in cui c’ero io pure e intervenni a favore della federazione di Torino di Ferraris: assemblea in cui come ex sindacalista Foa aveva accettato di dare una mano ai suoi amici della CGIL, benché Ferraris fosse pure il suo pupillo ed amico, per la vita, sino alla fine. Foa, in quel 1969 inoltrato, fece uno straordinario discorso, che però pendeva di più dalla parte del sindacato, il cui ruolo era imprescindibile e doveva essere dialetticamente complementare al nostro. Fece anche un grande discorso, che colpì molto anche Clemente, sulla doppia natura dell’operaio (e quindi pure del movimento operaio organizzato, ossia del sindacato di classe; ma questo Clemente forse non lo coglieva): da un lato Forza Lavoro del Capitale e dall’altro Persona e per ciò irriducibile al Capitale, di cui è sempre l’antitesi irriducibile. Echi di questa discussione, ripresa anni dopo con Ferraris, ci sono anche nelle straordinarie memorie di Foa, Il cavallo e la torre.[4] Lì secondo me c’è anche il positivo superamento del movimentismo di cui ho detto e che l’aveva portato a trascurare l’impegno da segretario o cosegretario possibile del PSIUP dopo il ’70: lì – nel Cavallo e la Torre - persino con parole autocritiche, che mi hanno fatto piacere perché già allora, in quel ’70-71, io la pensavo così. La novità del Cavallo e la torre, rispetto al Foa anteriore, per me consiste nel suo coniugare la visione della politica come politica delle masse, propria del luxemburghismo, del  “panzierismo” e del pensiero suo proprio forse addirittura dal Trenta (i quaderni di “Giustizia e Libertà”, col tema dell’”autonomia” e della libertà operaia, in scritti del giovane Foa, ovviamente sotto pseudonimo), con quello che si chiama decisionismo. Il vero e necessario politico rivoluzionario (o riformatore) è colui che oltre a comprendere dove si dirigano i movimenti di massa emergenti, sa indovinare la mossa giusta per orientarli nei momenti chiave: non però dall’esterno (come in Carl Schmitt e forse pure in Lenin o in Togliatti, in cui la leadeship valeva “anche” in quanto tale), ma dall’interno, direi come uno che sappia viaggiare sull’onda – dei movimenti profondi – come chi faccia surf, nei momenti decisivi. Questo, secondo Foa, sapeva fare Di Vittorio, che egli perciò considerava suo maestro.

   C’è però da chiedersi perché Lucio Libertini e Mario Giovana, e tutti i massimalisti di sinistra e unitari, si siano orientati contro Ferraris e compagni liquidandoli politicamente nel 1971: operazione cui io fui contrario, cercando di pararla d’intesa con Ramella e Clemente, almeno nel Regionale. Certo ci fu una reazione del sindacato verso la pretesa di far politica tra gli operai prescindendone, ma questo non fu certo  il dato decisivo. Non è che Ferraris nel ’71 fosse cambiato, né tantomeno gli altri operaisti. Semmai si erano un po’ ammorbiditi. Naturalmente ci sono pure, come sempre, i fatti personali. Ad esempio nel 1968, al congresso di Napoli in cui io fui delegato, io e Rossa fummo ufficialmente consultati dal senatore Passoni, per conto di Vecchietti (non per la nostra bella faccia, ma perché Alessandria era la seconda Federazione del Piemonte), su Pino Ferraris e Mario Giovana. Avevano pari merito per entrare in Direzione, anche perché uno era segretario di Torino e uno segretario regionale. Ci chiamavano a far pendere la bilancia in un senso o nell’altro. Io, con Rossa concorde per varie ragioni, consigliai vivamente Ferraris. E entrò Ferraris. Certo questo non lasciò indifferente l’escluso, che aveva una grande storia alle spalle sin dai tempi del mitra sulle montagne, come un capo della Resistenza, e poi anche come storico e inviato speciale. Ma c’è molto di più, e di più politico. Il punto di svolta è sempre il 1970, con quel terzo di voti perso dal PSIUP, che in elezioni parziali del ’71 giungeva quasi ai due terzi. L’ultimo canto del cigno dell’operaismo marxista fu il convegno operaio del 1970, con forte partecipazione e intenso dibattito, e molti documenti importanti, stranamente sfuggiti all’occhio vigile di Agosti.

   Dal giorno dopo le elezioni amministrative del 1970, tutti quanti quelli che avevano del sale politico in zucca presero a interrogarsi sul “che fare?”. Il problema non era ancora quello delle confluenze nel PCI o PSI, pur remotamente ipotizzate. Il problema vero era che con quel risultato e contesto nuovo (fine del PSU, nuovo PSI, demartinismo, PCI in crescita, crisi dei “movimenti” contestatori dissoltisi in chiesette settarie), s’imponeva una linea più unitaria con il PCI. Quella svolta, più che giusta, pareva incompatibile con l’operaismo di Ferraris e compagni. Questo radicalizzava i motivi di dissidenza da parte della CGIL,trasferendoli sul terreno politico. Oltre a tutto nel 1970 erano nate le Regioni. Nei Consigli Regionali la contiguità gomito a gomito tra leader comunisti e psiuppardi, ad esempio tra Giovana e il segretario del PCI di Torino (e poi regionale), Adalberto Minucci, che tra l’altro era un fine politico e intellettuale, certo non fu senza conseguenze. S’incuneò, nel grande dialogo - segnato pure da un paio di incontri tra segreterie regionali del  PSIUP e PCI  cui partecipai - l’ombra di Libertini, che proprio in quella fase trovò utile impersonare il PSIUP a Torino (di cui poi divenne l’ultimo segretario di federazione). Veleggiare verso il PCI essendo segretario di Torino e soprattutto presentandosi come i liquidatori dell’”estremismo” operaista torinese, che era tanta parte di quello italiano, era una tattica brutale, ma non stupida. Convinse pienamente Minucci, ma non altri massimi dirigenti, presso i quali forse perse lui stesso un po’ di prestigio per quell’apertura. Essi avevano “strane idee” su Libertini, come Agosti benissimo documenta, ma alla fine dovettero “abbozzare”, pur mantenendo le loro pregiudiziali.

   La cosa paradossale è che a volere deputato di Torino il Libertini, nel ’68, era stato proprio Pino Ferraris, per il suo approccio tutto teleologico, ossia idealmente finalistico, direi neokantiano, alla politica. Libertini era quello che nel ’58 aveva scritto con Raniero Panzieri le Tesi sul controllo operaio sulla produzione. Inoltre era un formidabile oratore. Sembrava rafforzare tutta una battaglia politica “di” e “da” sinistra.      

    Al congresso del PSIUP di Torino del ’71 Ferraris e compagni furono messi in minoranza. Chiesi ai miei amici operaisti come fosse stato possibile. Mi spiegarono che nelle sezioni territoriali - che nel loro stare sempre di fronte alle fabbriche o tra loro erano certo state ingenuamente e colpevolmente trascurate da loro - c’erano tanti vecchi compagni, che avevano votato contro di loro. I soliti vecchi compagni che i “sinistri” trascuravano. Secondo me per essi, del tutto giustamente, i Giovana, i Filippa, gli Alasia erano punti di riferimento forti, spesso dal 1944. Così il gioco fu fatto.

   Nel ’71 ci furono – come ho accennato - altre elezioni parziali, che attestavano che il PSIUP, rispetto al ’68 aveva perso altri voti, dimezzandosi o poco più. Allora iniziò, prima sotterraneamente e poi manifestamente, il dibattito sulle confluenze. Dal 1970 in poi io ero diventato vicesegretario unico della federazione di Alessandria, sempre con Rossa segretario. Ma Rossa voleva tornare nel PSI, mentre io, che oltre che operaista marxista mi consideravo leninista, ritenevo che lo sbocco naturale per tutti noi, che ci eravamo sentiti alla sinistra del PCI e ancora ci sentivamo tali, avrebbe dovuto essere il PCI[5]. Ciò mi portò a unirmi all’area che voleva sfiduciare da sempre Rossa, quella di Canestri, che sembrava disposta a entrare a suo tempo, se ce ne fossero state le condizioni, nel PCI. Poi non lo fece, secondo me soprattutto per l’ostilità a ciò di Adelio Ferrero. Comunque formammo una cosegretaria alla pari, tra me (per breve tempo primo segretario, mai funzionario), Rossa e Canestri.

   Di lì a poco fummo investiti dalle elezioni politiche anticipate  del 1972. Quest’anticipazione impedì quella decantazione necessaria a far maturare opzioni meno autodistruttive (io ad esempio speravo, e feci documenti in tal senso, che col PCI si potesse fare una confederazione, in vista di un’unificazione federativa di tutta la sinistra). Su ciò ho un’altra testimonianza importante da portare. Nel Direttivo Regionale, l’organismo ristretto tra segreteria regionale e segretari di federazione, di cui facevo parte, in vista delle elezioni Libertini - che era ora il segretario di Torino oltre che, da sempre, membro della Direzione nazionale - ci disse che oltre alle liste comuni col PCI per il Senato – già fatte nel ’68 e allora contestate dalla sinistra e da molti tra noi - Vecchietti in Direzione aveva proposto di fare liste comuni anche alla Camera. Io colsi la palla al balzo e chiesi perché mai, con quei risultati prevedibili, non avremmo dovuto accettare. Libertini mi rispose: “Perché in questo caso non si tratterebbe di politica unitaria, ma di politica di unificazione”. In quella stessa occasione ci fu un simpaticissimo ingegnere tipicamente massimalista di sinistra, nostro segretario di federazione, lo stesso che nel 66 aveva iscritto Fausto Bertinotti al PSIUP[6], il quale disse: “Sì, anch’io potrei un giorno entrare nel PCI, se mi puntassero una pistola contro la schiena per farmi entrare”. Nel 1976 Fracchia mi portò, da Roma, i suoi amichevoli saluti; non solo era entrato nel PCI nel ‘72, ma era diventato suo deputato alle elezioni politiche (ma allora io non rivelai il divertente aneddoto). La storia va così e stupirsene sarebbe eccessivo.  Dopo la riunione del Direttivo Regionale di cui ho detto, a proposito delle liste unitarie eventuali alla Camera proposte da Vecchietti, Angiolino Rossa, che faceva parte della corrente di maggioranza (e forse far parte della corrente di maggioranza gli è sempre piaciuto un po’ troppo),  mi raccontò che in una riunione della sua area Vincenzo Gatto, il più autorevole rappresentante del PSIUP siciliano, si era rivolto al segretario di Milano e ai compagni che l’accompagnavano, come il direttore di “Mondo nuovo”, Andrea Margheri, dicendo loro: “Guardate che siamo tutti nelle vostre mani”. Il riferimento andava  al “quorum”, l’elezione di un deputato pieno (allora almeno cinquantamila voti in almeno un collegio elettorale), ritenuto possibile, in base alle previsioni, solo a Milano.

   In Alessandria i tre membri della segreteria provinciale – di fatto rappresentativi dell’ala filocomunista (io), filosocialista (Rossa) e di continuazione del PSIUP (Canestri) - furono tutti e tre candidati alla Camera, con buona affermazione da parte di ciascuno, e in primo luogo di Giorgio Canestri naturalmente. Come tutti sanno il “quorum” non fu realizzato e il PSIUP disperse quasi seicentomila voti della sinistra. Brutta fine che accelerò tutto in modo drammatico. Canestri, in tal caso – dopo anni di dissenso in cui Adelio Ferrero aveva sostenuto Rossa – si ritrovò col suo grande amico di una vita, Adelio Ferrero, che in effetti dopo il ’69 si era spostato molto a sinistra, scoprendo ad esempio la scuola di Francoforte[7]. I continuatori presero la maggioranza. Io diressi la confluenza dei filocomunisti nel PCI, tra cui c’erano compagni come Mario Verna, come Luciano Stella (il leader della contestazione studentesca che nel ’70 io avevo convinto a candidarsi come indipendente per il Consiglio Comunale e che poi era diventato del PSIUP, oltre che mio grandissimo amico per la vita), e come i tre segretari del Sindacato Scuola della CGIL (Adriano Marchegiani, Andrea Foco e Pippo Amadio). Canestri, io e Rossa svolgemmo le tre relazioni al congresso provinciale del 1972. Rossa alla fine interpretò bene, da quell’uomo di grande cuore che era, il sentimento comune: “Da oggi ciascuno di noi sarà un poco orfano”. In seguito i continuatori si fusero col “Manifesto” formando il Partito di Unità Proletaria (come sempre i comunisti, anche eretici, rifiutano di dirsi “socialisti”). In seguito Canestri e Ferrero si urtarono con un’ala che voleva interloquire, in vista delle elezioni del 1975, per fare liste unitarie, anche con Lotta  Continua, credo per formare Democrazia Proletaria, cui pure mi pare abbia aderito per un po’ Foa; e diventarono indipendenti di sinistra, sempre protagonisti della vita culturale della città. Rossa fu poi Presidente socialista della Provincia e anche del Consiglio Regionale. Io fui, nel decennio 1975-1985, prima membro della segreteria provinciale del PCI, poi assessore alla cultura e capogruppo nel Comune di Alessandria per tutto il decennio 1975-1985. Dal 1969 al 1974 sono stato professore di Filosofia, incaricato e poi di ruolo, presso l’Istituto Magistrale di Alessandria. Poi dal 1974, sino al mio pensionamento nel 2010, sono stato docente universitario, infine professore ordinario presso la Facoltà di Scienze Politiche dell’Università degli Studi di Milano.

   Pino Ferraris entrò più oltre nell’Ufficio Studi della CGIL, e in seguito divenne professore associato di Sociologia all’Università di Camerino e, infine, un protagonista dell’ISSOCO, la Fondazione già di Basso. L’ex studente della Normale di Pisa e protagonista del lavoro politico di fabbrica alla FIAT, Clemente Ciocchetti, anonimamente, allo scioglimento del PSIUP andò a fare l’operaio in una fabbrica di Torino di ottomila dipendenti e infine divenne un restauratore di mobili, soprattutto antichi, attestando sino alla fine quale radicalità esistenziale avesse assunto per lui l’essere parte del movimento degli operai. Il destino di altri è più noto.

 



[1] F. LIVORSI, Prospettive di una politica di classe, “L’idea socialista”, n. 9, 11 maggio 1963 e n. 10, 25 maggio 1963. Questa sorta di saggio oggi mi pare non solo un po’ ingenuo, ma criptico. In parte ciò era legato alla volontà di affrontare temi per quel tempo non del tutto alla mia portata teorica, in parte al gergo dei “Quaderni rossi” che avevo interiorizzato.

[2] L. BASSO, Due totalitarismi: fascismo e democrazia cristiana. Garzanti, Milano, 1951.

[3] Lì era stato compagno di studi di un professore di Filosofia nei licei alessandrini, il nostro Amico Dante Argeri. Questi mi raccontava che allora, credo intorno al ’60, Clemente era stato un entusiasta assoluto della filosofia di Plotino. Quando lo ricordai a fine anni Sessanta a Clemente, raccontandogli che io ero stato nietzscheano, mi fece notare che allora tutti noi avevamo dovuto cercare una nostra difficile strada, mentre “oggi” – allora – si scopriva subito quello che per noi era stata una difficile conquista.

[4] V. FOA, Il Cavallo e la Torre. Riflessioni su una vita, Einaudi, Torino, 1991, pp. 211-212. Si tratta di uno dei libri più straordinari di tutta la storia del socialismo e marxismo, tra i quattro o cinque libri più importanti della mia vita.

[5] Sintomaticodi questa transizione, e anche di tutto il lavoro che venivo compiendo intorno al PCI, è l’approfonditoconfronto tra il sottoscritto, Carlo Pollidoro, Carlo Gilardenghi e Felice Borgoglio: 50 annidi storia del PCI e delle sinistre di fronte alla crisi del Paese, “Nuove prospettive”, Alessandria, nn. 1-2, luglio 1971, pp. 4-11., 

[6] Bertinotti era stato sin lì seguace di Riccardo Lombardi. Nel ’65 fu assunto alla CGIL di Novara, tra l’altro con il necessario assenso di Dino Sanlorenzo, allora segretario del PCI (non c’era ancora l’autonomia sindacale). Ironia della storia essendo stato Sanlorenzo un migliorista decisissimo, e della prima ora, più oltre. Ricordo il Regionale del PSIUP in cui questo compagno segretario del PSIUP di Novara diceva, del non ancora iscritto Fausto: “Al sindacato, a Novara, ora c’è un certo Bertinotti. Non è ancora con noi, ma è più a sinistra di noi. “ Era vero. Per parte sua Giachino mi diceva di aver conosciuto il giovanissimo Bertinotti nel ’59, al congresso del PSI di Napoli. Bertinotti gli aveva detto: “Guarda che io sono trockijsta”. Idee e vocazioni che venivano da lontano e sarebbero andate lontano, ora con esiti importanti e ora con opzioni disastrose, come l’aver fatto cadere, o contribuito a far cadere, il primo governo Prodi.

[7] Forse l’Adelio Ferrero di quegli anni risentiva pure di un forte spostamento a sinistra di quasi tutti i cinefili di quel tempo, che poteva persino assumere forme molto curiose. Ad esempio l’ultima volta in cui io sentii Guido Aristarco in Alessandria – il maestro di Adelio, il mitico direttore di “Cinema nuovo”, lukàcsiano convinto, e che poi avrebbe rotto con Ferrero – fu quando questi venne a presentare  “Blow-Up” (1966) di Michelangelo Antonioni, credo a fine ’67 o inizio ’68. Arrivò vestito con la sahariana blu caratteristica delle guardie rosse di Mao. I tempi erano così, anche se la cosa mi stupì non poco-

19/09/2014 23:40:09
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