Se
ne va nel silenzio l’”altro” importante pensatore
alessandrino del Novecento…
Il recente frastuono mediatico locale (per
certi versi, francamente, un po’ provincial-surreale: metterà conto forse il
tornarci sopra a ogni passione almeno intiepidita…) sulla re/intitolazione a
Umberto Eco del liceo classico, ha probabilmente reso Alessandria ancora un po’
meno disponibile a occuparsi dell’appena intervenuta scomparsa (a Roma, venerdì
17, a 89 anni) di Armando Plebe, il peraltro notissimo, e in passati decenni
dibattutissimo, sebbene nei più recente periodo un po’ accantonato dalla
memoria pubblica, filosofo concittadino.
Che con Eco condivise oltretutto –ignoro,
da parvenu non indigeno quale sono,
se si conoscessero già allora anche di persona- un duplice orizzonte cittadino:
il liceo “Plana”, appunto, che a sua volta frequentò fino alla precoce maturità
nel 1945, tornandovi momentaneamente pochi anni dopo, al debutto professionale
da docente di lettere, dopo essersi laureato a Torino prima in filosofia e poi
in filologia classica, con una tesi sulla vexata
quaestio del secondo libro della Poetica
di Aristotele (maestro cui, almeno a lui, sarebbe rimasto fedele tutta la
vita). Lo separavano, da Eco, cinque anni di età, proprio quelli che in genere
al liceo non permettono, fatidicamente, l’incontro conoscitivo tra maturando e futuro
nuovo allievo. Ma chissà: abitavano anche, e probabilmente avevano entrambi
giocato prima nella medesima piazza, che è anche la stessa del “Plana”. Nella
vita avrebbero poi conosciuto percorsi e orientamenti ben divergenti, ma una
cosa alla volta.
C’è voluta l’impagabile memoria storica di
ex-liceale di Emma Camagna, attivissima nel censire quotidianamente il
progressivo congedarsi della generazione più avanti, per riportare, sulla
“Stampa” di lunedì, pur sacrificata nell’ineffabile edizione miscellanea
regionale di inizio settimana, l’attenzione cittadina sulla sua figura: “Alcuni anziani ex-liceali lo ricordano come
giovanissimo insegnante che nascondeva la timidezza dietro una patina di
severità -ma si capiva che era destinato
a diventare qualcuno, aveva un’intelligenza fuori dal comune, ricorda ora Giulia Cristoferone che lo ebbe docente di
italiano l’anno della maturità. E che fosse intellettualmente molto dotato lo
ha ampiamente dimostrato nella sua lunga esistenza”. Ma è corretto e leale
segnalare anche l’articolo online del 22 marzo di Aldo Rovito su “Varese Press”;
Alessandro Gnocchi si era distinto, per il consueto stile aggressivo della casa,
sul “Giornale” di domenica 19: ma riguardo all’osservazione che i maggiori
quotidiani abbiano tirato dritto non si può che dargli ragione.
Di filosofia mastico proprio più niente
che poco, e mi periterei di scriverne, se non fosse che le strane circostanze
della vita mi hanno consentito, mezzo secolo fa, di avvicinarlo e conoscerlo di
persona. Da giovane neo-collaboratore della rivista romana “Filmcritica” di
Edoardo Bruno, che nella seconda metà degli anni Sessanta lo deteneva come
fiore all’occhiello nel suo comitato di direzione, unitamente a Galvano della
Volpe, mancato poi nel ’68, ma a lui accomunato, oltre che dalla reciproca
docenza universitaria sicula (a Palermo Plebe; a Messina, pur se da poco
collocato a riposo, il più anziano e illustre Galvano) dall’allora
temporaneamente condiviso, ancor che diversamente modulato, riferirsi al
marxismo.
La presenza di Plebe, apparentemente poco
spiegabile in quella congrega di cinéfili impenintenti, non risultava in realtà
casuale. Erano gli anni della rincorsa dei critici cinematografici di più lungo
corso, fino ad allora forzatamente “militanti” oggi si direbbe free lance- nati nel primo trentennio
del secolo (Chiarini e Aristarco, Verdone padre -altro alessandrino ma per caso-
e Baldelli; Sala, Canziani e appunto
Bruno, il mio primo direttore) alle incipienti cattedre universitarie che gli
atenei italiani venivano dischiudendo sotto la spinta opportunisticamente
ineludibile del “nuovo”, pur se malvolentieri (avrebbe fatto eccezione in
questo senso, grazie al compianto Benedetto Marzullo, da lì a pochi anni solo
il fortissimamente neocostituito Dams di Bologna, sempre poi imitato mai
eguagliato: e tornano in scena gli alessandrini Eco e Ferrero). Con Palermo Plebe a metà degli anni Sessanta
era già potentemente qualcuno, ordinario di storia della filosofia e direttore
dell’Istituto corrispondente, secondato con fervore dal suo assistente Gianni
Puglisi, che avrebbe poi percorso il più strabiliante, forse, dei cursus honorum accademici di area
umanistica nell’intera storia degli atenei italiani del ventesimo secolo. E il
buon Edoardo, pur legittimamente timoroso del settimanale atterraggio a Punta
Raisi con quella montagna che ogni volta sembra venirti incontro, proprio a
Palermo veniva iniziando la propria carriera di amato docente di storia del
cinema, poi destinata a prendere definitivo corpo a Firenze. A metà degli anni
Sessanta, la sua peraltro già gloriosa rivista non attraversava un momento di
robustezza: si era appena consumata la scissione col gruppo di Aprà, Ponzi,
Rispoli, Roncoroni e Faccini, che dopo averle dato nerbo e sostanza per la
prima metà del decennio, se ne erano andati a fondare “Cinema & Film”
(portando con loro anche… il fascettario degli abbonati, lamentava neppur
troppo scherzosamente il rinnegato direttore). Non ricordo se la cooptazione
dell’illustre filosofo alessandrin-palermitano, ma già forse trapiantato
residenzialmente a Roma, fosse stata causa o effetto, rispetto a quell’addio di
gruppo. Certamente in qualche modo c’entrava, e del resto le posizioni non
avrebbero potuto pensarsi più antitetiche. Aprà & amici avevano con merito,
se pure per ragioni di anagrafe tardivamente (tendenzialmente una decina d’anni
li separava da Truffaut, Godard e soci ex-“giovani turchi!”: erano troppo
giovani aver potuto abbeverarsi in diretta alla rivista parigina già nei
Cinquanta) importata in Italia, debitamente adattandola e aggiornandola, la
lezione autorial-nouvelle vague dei
“Cahiers du Cinéma”. Plebe invece si batteva come un leone a favore della
“popolarità del film” (leggasi pure semplicemente: agevole comprensibilità), in
funzione acremente polemica nei confronti di ogni avanguardia e di ogni da lui
giudicata intellettualistica astrusità. Ne ricordo ad esempio una divertente
battuta redazionale al fulmicotone, poi messa anche per iscritto sulla rivista:
“Sfido qualunque persona normale e di
buon senso a dichiarare che Capriccio
italiano [Edoardo Sanguineti,
Feltrinelli 1963: in pieno imperversare di quel Gruppo 63 di cui era magna pars, se pure con autoironico
distacco, proprio Eco] sia un romanzo
avvincente!”. Se la memoria non
inganna, ci fu anche un convegno romano sull’argomento –la popolarità, non
Sanguineti…- con la partecipazione estrema dello stesso Della Volpe, che si
sarebbe poi spento l’anno successivo. Il tenace mensile (si pubblica tuttora e
marcia verso il n. 700) si trovò a dover ripopolare le fila: giocoforza dare
luogo a un’operazione d’emergenza e spregiudicata, perché venni issato a bordo
anch’io, e questo dimostrava ampiamente quanto si fosse raschiato il fondo. E
tuttavia, grazie alla sagacia e all’autorevolezza di Plebe e Bruno (e
all’allora opulenta generosità degli enti del turismo…) avrebbe poi proseguito
coi convegni annuali “sul linguaggio filmico”, ambientandoli nello scenario
d’incanto dell’hotel allora “Cappuccini-Convento” di Amalfi, e chiamando a
relatori studiosi di estetica, storici della cultura, filosofi e filmologi del
calibro di Guido Morpurgo Tagliabue ed Emilio Garroni, Ignazio Ambrogio e
Antimo Negri, Roberto Paolella e Antonio Napolitano (da ritardatario e un po’
ritardato laureando in lettere di provincia, ci andavo trepidante di emozione; mi
pareva di sognare, e una volta affidarono persino a me una relazione sul Verosimile filmico di della Volpe!). Le
posizioni non sembravano poi così divergenti: avrei addirittura imprudentemente
accomunato, citandoli, Plebe e l’amico Ferrero in un lavoro sul nuovo cinema
inglese per la rivista nel ’67. Lo stesso anno della fatale uscita, grazie a
Mondadori e alla bravura di Ettore Capriolo, della traduzione italiana di Contro l’interpretazione di Susan
Sontag: un libro che avrebbe folgorato me e alcuni altri sulla via di Damasco
(è passato mezzo secolo, ma l’effetto folgore è ancora… folgorante: oltre
vent’anni dopo sarebbe venuto a riprova il grandissimo George Steiner di Vere presenze) con l’effetto finale di
chiudere senza clamori l’esperienza con la rivista, nel cui ambito la sopravvenuta
inclinazione non era proprio condivisa. Ma avevo anche letto coscienziosamente
i libri di Plebe che allora andavano per la maggiore ed erano più strettamente
attinenti a quanto si sarebbe dovuto affrontare in quella sede: segnatamente La nascita del comico, il Processo all’estetica (a proposito del
quale il concittadino Adelio ironizzava volentieri) e il più recente Discorso semiserio sul romanzo.
A separare però un po’ troppo rapidamente
la mia personale strada dalla frequenza gioiosa della stupenda sede redazionale
di Piazza del Grillo (lo stesso cortile dove si affacciavano congiuntamente lo
studio di Renato Guttuso frequentato
dalla contessa e l’abitazione privata di Lucio Magri: il Sordi di Monicelli era
ancora di là da venire) sarebbero comunque giunti di lì a poco la laurea, il
servizio militare e la necessità assoluta di “mettersi a lavorare”. In quegli
anni di incipiente scuola media dell’obbligo, bastava dimostrarsi casualmente
alfabeti, e ti supplicavano di metterti a insegnare, quasi a tua insaputa:
l’immediata nomina valse il confino biennale nello scenario, ancora selvaggio allora, dell’alta Valseriana.
Lo choc “plebeo” era però già subentrato,
per me come prima ancora per tutta l’Italia che seguiva i fatti della politica
e della cultura, nella primavera del 1972, nell’imminenza di quelle prime
elezioni anticipate della storia repubblicana, che avrebbero comunque fruttato
al mio contigente qualche settimana di graditissimo congedo anticipato. In una
sera di libera uscita dalla caserma “Cascino” dell’allora Gruppo Artiglieria da
Montagna omonimo di stanza a Susa, curiosando invincibilmente sui manifesti
elettorali neoaffissi, eccoti con sbigottimento la candidatura di “Plebe
Armando, nato ad Alessandria il 12 settembre 1927” in quel collegio
senatoriale, accanto al simbolo neonato del… Movimento Sociale Italiano –
Destra Nazionale! Provenendo da una
famiglia tradizionalmente nostalgica e missina, pur approdato personalmente da
anni all’opposta sponda, la cosa in sé non mi preoccupava: conoscevo bene
quell’ambiente fin dall’infanzia. Sensazionale era invece l’esserci approdato
del filosofo già marxista. Cos’era accaduto, nell’anno abbondante in cui mi ero
occupato beatamente solo di obici 105/14, radiofonia anglofona e… giganteschi
muli, in una lunga vacanza smemorata e forzosa nell’incanto sereno/solar/innevato
della valle oggi NO TAV? (Plebe sarebbe stato eletto, e riconfermato anche per
la successiva legislatura, rimanendo togato dell’oggi razzianamente
svalutatissimo laticlavio per sette anni, fino al 1979: senza il mio voto, lo
confesso: a quarantacinque anni di distanza, posso confessare che in
quell’occasione optai inutilmente per la lista del Manifesto, “preferendo”
Luigi Pintor e “il ballerino” –come ringhiava Pintor nei comizi- Valpreda).
Personalmente ritengo che la principale causa
effettiva della radicale virata del professore, al di qua degli eventuali
ribaltamenti di pensiero, possa essere stato il ’68, nonostante all’epoca fosse
appena quarantenne. Le reazioni baronali alla contestazione furono spesso di
annichilita e disperata sorpresa, e totale indignata incomprensione. Non è il
caso di fare i molti nomi esemplificativi possibili, vicini e lontani: si
ricordi solo come reagì proprio il povero Luigi Chiarini quando si trovò a
dover fronteggiare direttamente la contestazione come direttore della mostra
di Venezia.
Debbo riconoscere a denti stretti che il miglior
articolo almeno tra i letti da me sull’argomento è stato quello di Giuseppe
Parlato su… “Libero” del 18 u.s. (Marxista
a colori, missino e forzista sempre alla ricerca di un Principe, cui rinvio
anche in rete e che mi dispensa da ulteriori dettagli sulle successive
posizioni ed evoluzioni (o involuzioni…) del filosofo. Ma da questo punto di
vista, per non ripetere meno bene il già noto, preferisco andare… direttamente
alla fonte (tanto lo leggevo già in casa da ragazzino!) e riproporre citandolo
il peraltro impeccabile redazionale del “Secolo d’Italia” dello stesso giorno:
“Il suo abbandono
dell’ideologia marxista fu sancito dall’uscita del saggio Filosofia
della reazione (Rusconi, 1971), che venne salutato come
il manifesto intellettuale della destra nazionale, fase di apertura del Msi
all’esterno voluta proprio da Almirante. Un saggio che fu seguito un anno
dopo dal libro Quel che non ha capito Carlo Marx (Rusconi,
1972), un bestseller da 100mila copie.
Plebe iniziò la carriera accademica nel 1959
all’Università di Perugia come professore incaricato di storia
della filosofia, passando nel 1961 all’Università di Palermo. Amico (e forse
testimone di nozze) dell’editore Vito
Laterza, grazie alla sua intercessione aveva prima conosciuto Benedetto
Croce che lo convinse a pubblicare i suoi primi scritti. Il percorso
politico-ideologico di Plebe è apparso sempre tormentato, segnato da un
rapporto di amore-odio verso Marx. Difensore per un tratto dell’ortodossia
sovietica, nel 1967 pubblicò Che cosa ha veramente detto Marx (Ubaldini),
che fu uno dei testi più diffusi durante la contestazione studentesca del 1968.
Ma Plebe si dissociò dal ’68 e abbracciò una militanza con i socialdemocratici
di Giuseppe Saragat, che però fu breve. All’inizio degli anni ’70 Plebe ebbe una clamorosa rottura con il
pensiero del filosofo di Treviri e divenne fra i sostenitori
dell’anticomunismo politico-culturale di quel periodo schierandosi con il
leader missino Almirante che lo volle alla guida del Fuan e in particolare responsabile
del settore cultura del partito.
Nel 1976 ruppe con il Msi e aderì al gruppo parlamentare scissionista di
Democrazia Nazionale. Non rieletto nel
1979, lasciò la competizione politica attiva e successivamente tentò di
iscriversi al Partito Radicale, ma la sua richiesta fu respinta.
Terminata l’esperienza parlamentare tornò a insegnare all’Università di
Palermo e come storico
della filosofia, in particolare del pensiero greco, è stato tra i importanti interpreti di
Aristotele. Riavvicinatosi negli anni Novanta al marxismo (nel 1994
pubblicò Tornerà il comunismo? da Piemme), negli anni 2000 Plebe è
stato editorialista del quotidiano Libero. I suoi libri più recente
sono stati per lo più a carattere autobiografico: Manuale dell’intellettuale di
successo (Armando, 2005), Il quinto libro del
capitale. Marx contro i marxisti (Biblioteca di via
Senato, 2005), Il nuovo illuminista. Obiettivo
libertà (Biblioteca di via Senato, 2006), Memorie
di sinistra e memorie di destra. Un filosofo
negli anni ruggenti (Qanat, 2012). Plebe si definiva come un
illuminista scettico sostenitore d’un anarchismo intellettuale”.
Una foto su vari
quotidiani lo raffigura infatti proprio alla Biblioteca di via Senato mentre
prende la parola accanto a uno dei suoi ultimi editori, l’allora senatore
Dell’Utri.
Erano anni strani: si
pensi solo, anche in Piemonte, al periodo di quanti si dichiaravano, sul
principiare degli anni Novanta, “afascisti”, essendo magari passati dal PSI al
MSI, come accadde ad esempio dalle nostre parti al deputato torinese, poi
temporaneo presidente del Teatro Stabile di Torino, Giorgio Mondino (vedere il
verbale della seduta del consiglio regionale piemontese dell’11 luglio 1995).
La realtà è che si stavano preparando i tempi di quella riscossa di destra che
avrebbe trovato la propria incarnazione nella discesa in campo stravincente di
Silvio Berlusconi, e in tutto il successivo bailamme operatosi nella politica
non solo italiana nell’ultimo trentennio, col valore aggiunto dirompente della
crisi da dieci anni a questa parte. In questo senso, il Plebe convertitosi alla
fiamma così repentinamente aveva solo, dal suo punto di vista, anticipato i
tempi di più di un… ventennio!
Oggi tutto questo,
ogni passione spenta, si rievoca con distacco ed equanime serenità (chi mi
avrebbe mai detto che avrei utilizzato due testate che mai acquisterei dal
giornalaio per un articolo qui?). Il fatto è che dal ’94 in poi (anzi, dal ’93:
lo “sdoganamento” del povero Fini candidato sindaco di Roma da parte
dell’incombente Berlusconi, moltissimo tempo prima dell’incautissimo “che fai,
mi cacci?” e ora dell’infelice detenzione morale al … Tullianum) abbiamo visto talmente di tutto, che oggi digeriamo con
almeno superficiale disinvoltura Trump e la Le Pen, la Polonia e l’Ungheria
come si presentano, Salvini e Grillo. Ma allora un cambiamento di fronte così
radicale e repentino faceva ancora impressione. Plebe sarebbe poi stato
superato –fatte ovviamente le debite proporzioni a suo vantaggio-
dall’altrettanto da poco scomparso Pasquale Squitieri, prima lottacontinuista e
addirittura autonomoperaio, poi anche lui senatore di AN e infine radicale.
Proprio come il filosofo mandrogno: al quale oggi altro non possiamo fare che
augurare un eterno riposo più sereno ed equilibrato della vita. E magari
leggerne o rileggerne i libri –cosa che in sé non guasta mai, neppure per Mein Kampf- cercando di capire qualcosa
di più nella tormentata ascesa e discesa a tornanti ripidi del suo
pensiero.