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"Il nulla è tutto". Parola di "guru"
Francesco Roat
Vedānta
significa in sanscrito la fine (anta)
dei Veda, ossia la parte conclusiva dell’omonimo corpus di scritture religiose
induiste. Tale parte è costituita dalle Upaniṣad: parola che deriva dalla
radice sanscrita sad (da cui il verbo
sedere) e dai prefissi upa e ni (vicino a) e che descrive
l’atteggiamento corretto del devoto che ha giusto da sedersi accanto al guru (maestro spirituale) per ascoltarne
la parola. Le Upaniṣad sono quindi sia una sorta di commentari
dell’insegnamento vedico sia il loro culmine, avendo esse per fine la
cosiddetta liberazione (mokṣa) dalla
condizione illusoria mondana (maya),
giacché per il Vedānta la realtà è ben altro rispetto a ciò che la nostra mente
discrimina separando il soggetto dall’oggetto, l’io dal mondo. Secondo i Veda,
infatti, e soprattutto secondo la scuola dell’Advaita Vedānta (il primo termine
significa: non duale), al di là dell’apparenza fenomenica, esiste solo una
unitaria realtà assoluta (il Brahman)
da cui erroneamente noi ci sentiamo separati.
L’indiano
Sri Nisargadatta Maharaj (1897-1981) è considerato uno dei maggiori esponenti
di detta scuola e la sua notorietà/autorevolezza lo ha fatto conoscere anche in
Occidente, dove i suoi libri – da lui mai scritti, ma che sono il risultato
della trascrizione degli innumerevoli discorsi tenuti ai discepoli – sono stati
pubblicati in svariate lingue, tra cui l’italiano. A questo proposito, Ubaldini
Editore ha recentemente dato alle stampe un nuovo testo del guru di Bombay, Il nulla è tutto. Discorsi inediti, il quale fa riferimento alle
registrazioni dei dialoghi intrecciatisi (durante gli ultimi due mesi del 1979)
tra il maestro e i numerosi visitatori che venivano a trovarlo/interrogarlo
ogni giorno. È questa una testimonianza storica di notevole valore: vuoi perché
ci permette di gustare le parole dell’ultimo
Maharaj, destinato a morire poco meno di due anni dopo, vuoi perché tali
discorsi riassumono in maniera chiara ed esemplare la filosofia di questo
grande personaggio.
Filosofia
che potremmo sintetizzare utilizzando una frase lapidaria, pronunciata dal Maharaj
davanti ad un perplesso ospite, giunto sin dall’Occidente a consultarlo: “Il brahman, ovvero Dio, è la tua vera
natura. Tale identità non muore. Tu temi la morte perché ti identifichi col
corpo. Se acquisirai fede, in base a queste parole, non conoscerai mai la
morte. E quindi non sentirai il bisogno di chiarimenti su questioni di
spiritualitàˮ. Tale affermazione è di una semplicità estrema ma mette in
discussione – vanificandole – razionalità, mente giudicante, conoscenza. E ciò
per il fatto che, a detta del maestro, non solo occorre trascendere la mera
fisicità ma la stessa coscienza, essendo quest’ultima un’attività
intellettuale, cioè generata dalla mente che, assieme al corpo, non esaurisce
certo in modo esaustivo il nostro essere.
È
un accorato invito a prendere le distanze dalla mera discorsività onde
approdare alla meditazione, nella quale vengono a cadere pensieri e parole per
consentire una più vasta comprensione.
L’obiettivo: pervenire ad uno stato non dualistico, ove: “c’è solo puro
essere”. Tuttavia una tale dimensione può risultare inquietante per l’uomo
assetato di sapere e di avere; se non altro la pace interiore. Ma il Maharaj,
per nulla consolatorio, si rivela assai tranchant: “L’assoluto è nirguna, ossia senza qualità o
connotazioni. C’è posto per la beatitudine finché c’è la coscienza, ma poi non
più”.
L’invito
è quindi di prendere le distanze da teorie e speculazioni, da dogmi e credenze
d’ogni tipo, meditando semmai su un’affermazione delle Upaniṣad – secondo la
quale è bene rendersi conto che l’anima individuale o Sé (ātman) coincide con il divino/Tutto (brahman) –, espressa attraverso la celebre formula: “quello sei tu”
(tat tvam asi), cui sin dall’inizio
della sua predicazione ha sempre fatto riferimento Nisargadatta Maharaj,
ricordando puntualmente ad ogni discepolo che: “Il tuo capitale è la
consapevolezza «io sono», usala. Medita su di essa. Grazie ad essa”.
Accanto
a una simile e liberatoria presa d’atto troviamo la sottolineatura d’una
imprescindibile umiltà di fondo, simile a quella socratica, intorno al nostro
presunto sapere. Nota infatti il nostro guru:
“«Non so» è l’atteggiamento migliore. Non possiamo dire che la Realtà sia
questo o quello. Possiamo solo affermare «neti
neti», che significa: «Non è questo, non è questo»ˮ. A causa di ciò il
saggio non si attacca a niente, né desidera nulla, considerando tutto:
“perfettamente a postoˮ. Condizione illuminata e illuminante che accosta il Maharaj
ai nostri grandi mistici occidentali: da Meister Eckhart a Edith Stein, da Giovanni
della Croce a Simone Weil. Tutti propugnatori di un’accettazione/accoglienza
incondizionata e forti della capacità di abbandonarsi fiduciosamente alla vita
o, in termini religiosi, a Dio. In tal caso persino la sofferenza estrema può
trasmutarsi in grato miracolo, poiché – nota la mistica francese: “Il dolore ci inchioda al tempo, ma
l’accettazione del dolore ci trasporta al termine del tempo, nell’eternitàˮ
07/04/2017 21:31:32
20.03.2018
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Questa settimana vorremmo proporvi un
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17.03.2018
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