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Tornati ai Tourneur: 1. Il padre, Maurice
Nuccio Lodato
 L'importante retrospettiva a Locarno 70, lo scorso agosto


Chi per caso tra i lettori abbia avuto la masochistica pazienza di sorbirsi anche la seconda puntata del mio precedente articolo originato dalla recentissima uscita del postumo Libro contro la morte di Elias Canetti ("Il Sole, la Morte e il telefono": attorno al 20 luglio), avrà notato -magari con sorpresa, a meno che non risieda in grandi centri e ne frequenti i radi cineclub superstiti, o sia un grosso fruitore di film in pay-tv- il riferimento, tra i grandi cineasti deceduti quarant'anni fa, oltre che ai supremi Rossellini, Chaplin e Hawks, anche al decisamente meno noto Jacques Tourneur, la cui contemporanea dipartita venne oscurata dall’esatta sovrapposizione di quella dei due grandi maestri americani.  Al punto che non tutti i quotidiani dell'epoca, schiacciati tra la mancata uscita di S. Stefano e l’accumulo dei lutti, riuscirono a registrane la notizia.

Che Tourneur non sia stato però proprio un Signor Nessuno -anzi...- lo ha testimoniato, oltre al valore oggettivo di numerose sue opere, anche la decisione del giovane recente neodirettore del Festival di Locarno (che compie settant'anni: auguri da un piucchecoetaneo!), il valdostano Carlo Chatrian, di dedicargli lo scorso agosto l'ambiziosa rassegna retrospettiva della manifestazione di Piazza Grande, affidandone la cura a due competenti di eccezionale vaglia quali Rinaldo Censi e Roberto Turigliatto.

Scriveva tanti anni fa un programmino mensile del CUC Genova, nei mitici anni in cui ne  veniva programmato il cinema "Centrale" fuori Brignole:«Maurice Tourneur ha dato due grandi cose al cinema: suo figlio Jacques e la propria grandezza nel muto».

Infatti il discorso, se vogliamo essere precisi e completi, non si esaurisce con Jacques, che è pure la figura dominante e la sola cui è stata consacrata la rassegna ticinese, e di cui ci si occuperà in una seconda puntata. Si il caso, com’è del resto noto, che il nostro fosse figlio d'arte, in quanto suo padre Maurice era stato a sua volta uno dei più rilevanti cineasti del periodo muto, pur riuscendo ad affacciarsi con le sue ultime produzioni anche al quindicennio iniziale del sonoro (ci fu un periodo, più o  meno corrispondente alla durata del secondo conflitto mondiale, in cui padre e figlio calcarono separatamente ma in simultanea, come si vedrà, i rispettivi sets hollywoodiani di serie B...).

Maurice (parigino di Belleville, cognome anagrafico Thomas, famiglia agiata, classe 1873: di nuovo nella ville Lumière chiuderà gli occhi nel ’61…), prima di esordire dietro la macchina da presa, si era fatalmente, come molti cineasti “primitivi”, fatto le ossa in in teatro. Da attore, era andato in… tournée in Europa e nelle Americhe, sul finire del secolo, con la compagnia della grande Réjane (che per Proust sarebbe stata insieme uno dei modelli della Berma nella Recherche, tra le prime lettrici del capolavoro e addirittura, grazie alla mediazione del figlio Jacques Porel, la padrona di casa del suo ultimo domicilio conosciuto di rue Laurent-Pichat dal 1919) e aveva collaborato col non meno grande demiurgo profetico della regìa scenica André Antoine.

Si accosta al cinema nel 1907 (lo stesso anno in cui, al di là dell’Atlantico, lo fa Griffith…) entrando come assistente all’Eclair, per passare alla direzione nel ’12. La prima ventina di film (la cui durata media era all’epoca assai ridotta, non lo si dimentichi) in un biennio in Francia, poi durante il ’14 il gran salto negli Usa, col collega e amico Chautard, favoriti dalla perfetta conoscenza dell’inglese, in lui rinsaldata dalle peregrinazioni teatrali, e dalla decisione dell’Eclair di aprire una sede nel New Jersey, secondo uno schema espansivo tracciato, all’epoca, da più di una casa produttrice della nazione che aveva orgogliosamente tenuto a battesimo il neonato cinema. L’identica traversata aveva compiuto, poco prima, da Londra anche Chaplin, che però era andato anonimamente alla ventura con la compagnia di Fred Karno. Mentre Maurice era, con Albert Capellani inviatovi dalla Pathé lo stesso, il primo europeo già di nome affermato a farlo, dall’alto dei suoi 41 anni contro i 25 dell'imminente Charlot. Nel ’17 li avrebbe imitati Léonce Perret.

Portando con sé i già riconosciuti dalla critica d’epoca "acuto spirito d'osservazione, immutabile garbo e crescente sensibilità figurativa", Tourneur sr può altresì contare su di una squadra di collaboratori artistici e tecnici fissa e di primordine: lo scenografo Carré, portato con sé dalla madrepatria; il direttore della fotografia Andriot, che l’aveva addirittura preceduto di un anno nella traversata, presto affiancato dal tedesco John van de Broek (morirà tragicamente a soli ventitrè anni sul set del loro film Woman) e lo sceneggiatore statunitense Maigne, passato poi a sua volta alla regìa. Tutte garanzie a priori di un livello ricercato, per non dire addirittura sofisticato per il gusto medio dell’epoca, nella produzione.

Un cineastaalto” e importante, con il gusto spiccato per le trascrizione letterarie, cui si rifarà presso che sistematicamente, e che lo indurrà a trasporre sullo schermo, tra gli altri, via via, per non parlare degli autori i cui nomi oggi non ci dicono più nulla, e delle numerose commedie nuove di successo a Broadway trasposte al volo. Gyp (l’allora popolare romanziera discendente di Mirabeau: L’ultimo perdono, 1913), Dumas padre (La signora di Monsoreau, 1913) e Courteline (L’allegro squadrone, id.: lo rifarà sonoro appena tornato in Francia nel ‘32), Poe (Il sistema del dr. Catrame e del prof. Piuma, id.); Leroux (Rouletabille e L’ultima incarnazione di Larsan, 1913), Willy (lo sciagurato Pigmalione di Colette: Le friquet, 1914: l’avrebbe ripreso cinque anni dopo da noi Zambuto con Leda Gys) e O.Henry (Alias Jimmy Valentine, 1915), George du Maurier (nonno di Daphne: Trilby, 1915) e addirittura Ibsen (Casa di bambola, 1918) e Conrad (Vittoria, 1919, a soli quattro anni dall’uscita del romanzo). Stevenson (L’isola del tesoro, 1920) e Cooper (L’ultimo dei Mohicani, id.), Verne (L’isola misteriosa, 1926-29: firma un altro illustre immigrato, Christensen, ma ci mettono anche le mani tanto Tourneur che lo stesso sceneggiatore Lucien Hubbard, in una disgraziata via crucis realizzativa Metro aspirante al colore, ma su cui già incombe l’avvento del sonoro). Cormon e d’Ennery dopo il ritorno in Francia (Le due orfanelle, 1933: ci aveva già provato Griffith con le Gish nel ’21; ci torneranno ancora sopra da noi Gallone nel ’42, Gentilomo nel ’54 e Freda nel ’65!), e infine, nel ’43-44, istant film da un Maigret da Simenon, Cecile est morte, che in questa versione non ci è mai stato dato di vedere in Italia.

Una produzione vasta e ricca: l’esplorarla maggiormente trascenderebbe i limiti di questo piccolo memento. I film a lui riconducibili come regista superano, tra muto e sonoro, il centinaio (la sua attività si concluderà in Francia con Impasse des Deux Anges, 1948, con Simone Signoret e e Paul Meurisse, mai importato in Italia: problematicamente rintracciabile su youtube, ma ben visibile in dvd francese). La parallela attività di sceneggiatore e produttore si se stesso è a sua volta imponente, mentre per solo tre volte Maurice tornerà ad… agirsi occasionalmente da interprete, dall’altra parte dell’obiettivo.

Osserviamo allora un po’ più da vicino solo un limitato numero di film, facendo talora leva –lo si ripeterà a maggior ragione nel prossimo giro per il figlio Jacques- sulla diversa valutazione che Morandini e Mereghetti ne hanno fornito nei loro rispettivi lessici.  L’Uccellino Azzurro (1918) dall'allora recente Maeterlinck, a un decennio appena dalla prima mondiale inscenata da Stanislavskij al suo Teatro dell’Arte di Mosca. Pur situato nella parte iniziale della carriera, è probabilmente il capolavoro di Tourneur, su sceneggiatura di Maigne, con un fascino visivo e una forza di penetrazione narrativa che resistono intangibili ai novant’anni trascorsi. La stupenda fiaba sarebbe stata ripresa da Walter Lang nel ’40 (Alla ricerca della felicità, con Shirley Temple: in Italia, complice la guerra, allora non si vide: è stato necessario attendere il dvd) e dal grande George Cukor a fine parabola nel ’76 in una strana, per allora, coproduzione Usa-Urss (Il giardino della felicità: rutilante divertimento con trimurti da cast stellare, Liz Taylor-Ava Gardner-Jane Fonda: ebbi l’ardire di programmarlo nelle prime settimane di cinema del Comunale di Alessandria, ben sapendo che il pubblico non si sarebbe accapigliato…). Non deluderà il successivo Lorna Doone (1922), sostenuto da un plot popolarissimo nella cultura angloamericana, che avrebbero ripreso Dearden nel ’34 e Karlson nel ’51, oltre a svariate, successive produzioni televisive. Al ritorno in Francia, il remake courteliniano de Lo squadrone bianco consolida in determinante misura l’attacco di carriera del giovane Gabin. L’anno successivo la stessa cosa con Madeleine Renaud per Donna di lusso, che fece parte, come ricorda Morandini, della retrospettiva tv 1977 che in patria portò alla riscoperta del grande regista, completamente dimenticato, anche per la sovrapposizione del grande successo popolare del figlio. L’anno dopo il convegno di Brighton avrebbe cominciato il grande sdoganamento mondiale del cinema muto, iniziato nel ’75 col centenario della nascita di Griffith. Il successivo Le due orfanelle, già menzionato, è “ben pettinato, scenograficamente fastoso, convenzionale” per Morandini. Tourneur avrebbe voluto ambientarlo all’epoca dell’incoronazione imperiale di Bonaparte, la produzione lo indusse a mantenere la temperie pre rivoluzionaria del testo originale (il negativo integrale di 100’ è andato perduto, la versione circolante è più corta di 13).

Se Koenigsmark (1935), dal romanzo di Pierre Benoit, già trascritto da Perret un decennio prima, è “un convenzionale film in costume del buon artigiano” (Morandini), Sorridete con me (1936), al cui centro è Chevalier, rappresenta per lo stesso critico “un’apologia sperticata dell’ottimismo, con vivace descrizione dell’ambiente teatrale e protagonista in gran forma”, anche se l’anno della sua uscita non doveva poi indurre a spericolati slanci. Assai più complesso il quadro realizzativo de L’avventuriero di Venezia (1941). All’origine c’era niente meno che Volpone di Ben Jonson, nella riduzione scenica che tredici anni prima Charles Dullin si era  concesso il lusso di far ridurre per il suo teatro addirittura da Jules Romains su di una base di Stefan Zweig (che si sarebbe suicidato in Brasile nell’anno successivo al film, ponendo il sigillo definitivo al suo e universale Mondo di ieri). Le riprese le aveva iniziate de Baroncelli nel ’38-39, poi la guerra aveva congelato tutto (come successe a Renoir per la Tosca italiana poi conclusavi da Koch). L’esperienza di Tourneur riprese e salvò il film, sostenuto formidabilmente dalla teatralità irripetibile di Jouvet e dello stesso Dullin. Mezzo secolo fa, nell’attualizzare il classico inglese protosecentesco, Manckiewicz fece certamente meglio in Masquerade, potendo contare su Harrison, la Hayward e Maggie Smith, fotografati da un Di Venanzo già condannato dalla malattia.

L’ultimo Tourneur sr importato in Italia, La mano del diavolo (1943), trova finalmente d’accorso Morandini e Mereghetti: per il primo, “prodotto di buona qualità, che tiene in equilibrio il sapore popolare della vicenda, ricca di colpi di scena e di personaggi bizzarri, e la raffinatezza di regìa, scenografia, fotografia, montaggio”; per l’altro, “un film fantastico, dalla trama complicata e stravagante, ricca di personaggi e di colpi di scena, con piacere e talento evidenti, facendo leva su un ritmo febbrile e inquietante e affidandosi al senso plastico delle immagini ereditato dal muto”. Appunto.

 

Maurice Tourneur on line: la rete consente la visione, già anche solo a livello gratuito, di numerosi suoi film sia muti che sonori. Soltanto Youtube ne offre per parte sua una ricchissima scelta: soprattutto per chi non ne abbia dimestichezza, potrà essere interessante in particolare, superato l’eventuale disagio iniziale, accostarsi all’esperienza del muto, riscoprendone a poco a poco quella “musica della retina” di cui parlava Stan Brakhage…

Maurice Tourneur in home video: la bememerita serie bolognese Ermitage ha edito in Italia i muti L’uccello blu (1918) e Lorna Doone (1922); Mondadori Store L’ultimo dei Mohicani di Clarence Brown e Tourneur (1920). Ma, se non ci sono preclusioni sulle edizioni originali in altre lingue (raramente se non mai provviste di sottotitoli italiani…), la rete e i consueti Amazon, Ibs, Fnac, Feltrinelli e Mondadori, con molti altri, mettono a disposizione, comodamente a domicilio e senza grossa spesa, assai numerosi altri titoli dell’antico cineasta. Ad esempio il simenoniano Cecile est morte è disponibile presso la Fnac (che purtroppo si è ritirata dall’Italia) in edizione Gaumont.

 

[ Tornati ai Tourneur: 2. Il figlio, Jacques alla prossima puntata… ]

 

 

19/10/2017 16:10:23
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