Gerusalemme. Perché ora? Una breve analisi
Questo è un piccolo regalo che facciamo alla figlia di
un illustre medico di Istanbul da poco incarcerata in attesa di giudizio. La
ricordiamo solo per iniziali, anche se “chi di dovere”, anche solo con le iniziali, sa benissimo risalire alla destinataria dell’intervento. L. C. è una valente turca
laureata in Letteratura Francese con buona conoscenza
di parecchie lingue, tra cui l’italiano. Da sempre è attiva nei confronti di
chi ha bisogno, di chi è emarginato, di chi soffre sul serio, senza distinzione
di sesso, religione, credo politico, etnia. E una di quelle persone fiere di essere turche al
cento per cento e doppiamente fiera perché cerca in tutti i modi di far capire
cosa è successo (e cosa sta succedendo) ai circa venti milioni di “turchi” di
etnia curda e al milione fra armeni, assiri e arabi che sono a tutti gli
effetti residenti e cittadini della repubblica fondata da Kemal Ataturk. E’
orientata a sinistra e ha pagato già in altre occasioni questa sua scelta che è
“etica” ed "economica" prima di essere politica.
Lo
spunto per questo breve accenno ci viene dalla lettura di un testo di valore
che riporto nella sua interezza e che, alla fine commentiamo. Si tratta di un
recente articolo comparso sulla rivista on line (pubblicata nella Turchia
orientale a Diarbakiyr “Ufkumuz haber”) del prof. Cengiz Tomar (*)
“Gerusalemme. Perché ora? Una breve
analisi
C’è
un forte valore simbolico nella proposta di Donald Trump nel volere portare l’Ambasciata
Americana a Gerusalemme, con l’ufficializzazione della Città Santa come capitale
riconosciuta di Israele. Un’idea già presente nella mente di Allenby.
Il
generale britannico sir Allenby, infatti, il giorno 11 dicembre 1917, al
momento di prendere possesso della città, affermò che “il lungo periodo di
buio, iniziato alla fine delle Crociate, è finalmente finito”.
In
effetti non c’era bisogno di ingarbugliare ulteriormente la complicata matassa
mediorientale con un annuncio bomba, quello dello spostamento dell’Ambasciata
americana, che viene definito nell’aramaico di Damasco “fevkanin” cioè “caos”, “passo
pericoloso”. Una dichiarazione fatta a cinquant’anni dalla “Guerra dei Sei
Giorni” , quella del 1967, e a cento esatti dalla Dichiarazione Balfour, quella
che diede il via al percorso che ha portato alla nascita di Israele. Due date
non casuali. Ricordiamoci che ad inizio 1900 la popolazione ebraica “dichiarata”
in tutta la Palestina non raggiungeva il dieci per cento dei residenti
ufficiali. Che, giusto per ricordarlo, utilizzava l’arabo letterario (e in
alcune zone l’aramaico) come lingua corrente
nelle scuole, nei commerci e
negli affari istituzionali.
Ma
perché proprio oggi?
Una
prima risposta potrebbe risiedere nelle promesse elettorali fatte, durante la
lunghissima campagna per Primarie e “scontro finale”, ai potenti gruppi d’opinione
ebraici americani. Ma è una risposta al
tempo stesso troppo facile e insufficiente; la questione ha ben altri contorni.
La
particolare situazione di oggi ha la sua
vera origine nel periodo tra il 2010 e il 2012, quello denominato “delle
Primavere Arabe”, culminati nella richiesta di più democrazia e nel tentativo
di emarginare regimi quasi feudali e segnati dalla corruzione. Di lì sono
originate, a prescindere dagli esiti molto diversi che si sono avuti, una serie
di spinte e nuove consapevolezze che hanno portato scompiglio in un’area in
perenne ebollizione. Uno “stagno agitato” a partire dal 1973, in particolare,
con l’ultima guerra “impattata” con Israele e con l’inizio dello strapotere dei
regimi fondati sui “petrodollari”.
Una
condizione sicuramente in movimento che ha trovato nella mossa di Trump un
ulteriore elemento destabilizzante. Il
suo obiettivo è quello di manifestare chiaramente l’appoggio incondizionato ad
Israele, cercando di segnare una linea di confine fra “amici” e
(sostanzialmente) “nemici”.
D’altra
parte stiamo discutendo di uno spostamento già previsto dal Congresso degli
Stati Uniti nel 1995 e mai reso effettivo. Le motivazioni paiono ovvie e
diventano ancor più importanti se pensiamo a cosa ha provocato l’annuncio di
circa un mese fa.
Un
attivismo da mettere in competizione con la rinnovata forza dimostrata dalla Russia durante il
conflitto siriano e dal concomitante rafforzamento dell’Iran in diverse aree
mediorientali oltre che nella stessa penisola arabica (come stanno a significare
le recenti crisi in Bahrein e soprattutto in Yemen).
Senza
dimenticare il nuovo ruolo che va via via svolgendo, specie tramite gli
Hezbollah, il governo di Teheran in Libano e in Iraq. Anche la Turchia ha messo
in moto, immediatamente dopo i due tentativi di golpe, una serie di operazioni
di cui non si vede ancora il termine: l’occupazione dell’enclave siriana a
maggioranza turcomanna nel nord dello Stato martire, la dura repressione
continuata nei confronti del Partito Kurdo dei Lavoratori (PKK) e delle milizie
- soprattutto siriane - di PYD/YPG, un’intensa
attività diplomatica che ha interessato vicini importanti tra cui la Russia e l’Iran
post Khomeinista. Un’attività di
controllo, contenimento e contrasto che caratterizza da sempre il governo Erdogan.
Inoltre, in questo scacchiere molto agitato sta venendo fuori in modo veemente
la presenza “forte” dell’Arabia Saudita che trova, addirittura, in Israele –
oltre che in Egitto – sponde importanti.
E
questa triangolazione Arabia Saudita, Israele, Stati Uniti è la chiave autentica
che può aiutare a capire ciò che sta
succedendo. I quasi due miliardi di dollari di armi nel 2016 (per l’80%
statunitensi) acquistate dai Sauditi ed il continuo travaso di materiali ad
alta tecnologia (anche bellica) fra USA e Israele la dicono lunga su cosa
potremo aspettarci nei prossimi mesi. E la nuova amministrazione (fortemente
influenzata dai militari) di Al Sisi in Egitto guarda con interesse a questo
nuovo asse, tanto è vero che ha promesso due isole contese all’Arabia Saudita e
cerca in tutti i modi di aumentare la forza finanziaria ed economica dello
Stato dei Faraoni, guardando con occhi nuovi ai potenti vicini.
Fino
ad ora, dopo la mossa, quasi da gioco degli scacchi, di Donald Trump, si sono
avute forti proteste da Iran, Iraq, molti Paesi a maggioranza islamica e
soprattutto da Giordania e Turchia. Il comportamento prossimo di Egitto e
Arabia Saudita sarà fondamentale e, di certo, consoliderà o bloccherà
definitivamente la mossa americana.
Nel frattempo l’ONU
si è espressa praticamente all’unanimità, sconsigliando agli USA ogni ulteriore
passo pericoloso. Posizione sostenuta da tutta Europa (Gran Bretagna compresa)
con l’incognita costituita da Repubblica Ceca e Romania. Questi due ultimi
Stati, insieme all’Honduras, sono stati gli unici – fino ad ora – a prospettare
un trasferimento delle ambasciate a Gerusalemme. Passaggio che, oltre a
riconoscere di fatto in Gerusalemme la capitale di tutto Israele, costituisce
una forma di “outing” pro-USA che può sempre servire in un mondo sempre più
frammentato e con interessi difficilmente conciliabili. E questo in attesa di
ulteriori sviluppi che non tarderanno a venire…"
“I
nostri orizzonti - notizie” è – in traduzione – il titolo della rivista in lingua turca
che riporta l’articolo di Tomar e proprio a “nuovi orizzonti” bisognerebbe
riferirsi per andare verso soluzioni condivise che permettano a tutti di
esprimersi, lavorare e muoversi liberamente. Le parole dell’ “Angelus”
natalizio del Santo Padre, che ha affermato chiaramente : “si arrivi a due
Stati autonomi in Palestina”. Con una soluzione concordata per Gerusalemme “capitale
dell’Umanità” e con confini ben definiti e, anche questi, condivisi. L’attivismo
turco del Presidente Erdogan trova nelle parole di Tomar una conferma, anche
sulla questione degli sconfinamenti in Siria che – purtroppo - si sono trasformati in vera occupazione. E’ sempre lo stesso “Ufkumuz” d’altronde
ad aver pubblicato fra i primi le foto di un recente incontro a tre tra il
presidente dell’Iran, Erdogan e Putin, in cui a farla da padrone sono state
soprattutto due questioni: dove far passare “da amici” gli oleodotti
petroliferi (vera garanzia di ricchezza per tutti e tre) e come mantenere
divisi e sotto controllo le decine di milioni di persone di nazionalità Kurda
che proprio a causa di Allenby e Balfour si trovano ad essere divise in quattro
tronconi. Sul testo poco da aggiungere… pubblicato alla vigilia di Natale e
sostanzialmente con l’approccio comunicativo a cui siamo abituati qui in Europa…
con l’augurio che questa voce proveniente dall’est della Turchia possa ancora
svolgere il suo lavoro.
Ed
è proprio per un’attività di documentazione indipendente che si trova in attesa
di giudizio la nostra cara L.C. a cui va tutta la nostra stima e amicizia. Sentimenti
sinceri che saranno manifestati con una “presenza in loco” in occasione di una
delle prime udienze di analisi dei fatti contestati (questa prima fase si terrà
in un Tribunale adiacente ad uno dei carceri di massima sicurezza della
provincia di Ankara).
...
[Prof. Dr. Cengiz Tomar Marmara Üniversitesi Siyasal Bilgiler Fakültesi öğretim üyesidir]
[Prof. Dr. Cengiz Tomar è membro della facoltà della Marmara University Faculty of Political Sciences]
...
Traduzione, presentazione e commenti a cura di "plc" in collaborazione con l'ass. VERSO IL KURDISTAN di Alessandria.