Terza Pagina
Il muro del paradiso
Francesco Roat
Il muro del paradiso ‒ questo il titolo del testo colloquiale, scritto a
quattro mani da Roberto Celada Ballanti e Marco Vannini, recentemente
pubblicato da Lorenzo de’ Medici Press ‒ riprende un’immagine, tratta dalla
letteratura mistica, di cui parla il Cusano illustrando ciò che egli chiama la
porta della coincidentia oppositorum:
soglia da varcare, dopo aver preso congedo dalle anguste stanze d’una assolutistica
razionalità discorsiva basata su distinzioni e opposizioni, onde poter pervenire
appunto alla vastità/libertà della dimensione paradisiaca. Ma è il sottotitolo
del saggio dei nostri due autori a essere più indicativo, accennando ai loro tre:
Dialoghi sulla religione per il terzo
millennio, che compongono il libro. Il primo inizia con una riflessione su
come, in pochi decenni, sia molto mutata nel nostro Paese la religiosità,
giacché nell’arco di una generazione siamo passati da un’Italia quasi tutta
sedicente cattolica (o tale almeno a livello formale) a un’Italia decisamente laica
o insofferente rispetto alla dogmatica ecclesiale. Tuttavia, nota Vannini,
questa laicità spesso mostra: “un atteggiamento sprezzante, di sufficienza, nei
confronti del religioso, come se esso riguardasse solo vecchiette ignoranti”. Anche
se, osserva con acutezza Celada Ballanti, la secolarizzazione alla quale da
qualche tempo sembra l’Occidente sia destinato non significa il “tramonto della
religione”, ma piuttosto una sua trasformazione, per cui il dio che
nietzschianamente risulta morto è solo
quello della teologia tradizionale e della metafisica. L’autentico umanesimo
religioso peraltro, ricorda Vannini, resta l’indicazione agostiniana
dell’interiorità insita nel profondo dell’anima quale ambito o luogo proprio
del divino, tramite una: “presenza universale, non ristretta a un popolo, a un
tempo, a una religione o a un libro”. Come a dire che la spiritualità non
abbisogna affatto di riti, liturgie, comandamenti o luoghi di culto, si
chiamino essi chiese, sinagoghe, moschee o templi di qualsivoglia tipologia.
Riportando l’invito di Celada Ballanti, occorre forse dunque: “reimpostare una
«grammatica» dell’umano e del religioso che muova ab origine, senza dare per scontato nulla”. Il
secondo dialogo tratta della
religiosità fra fede e ragione, nella consapevolezza che ormai è (dovrebbe
esser) sempre più chiaro a tutti che ogni credenza risulta l’espressione di un
paradigma culturale storicamente datato/connotato e appare arduo (inconcepibile?)
sostenere che un credo, una formula fideistico-confessionale sia migliore di
un’altra; a meno che non si voglia arruolarsi nelle file d’un fondamentalismo
dispotico e intollerante. Ma allora ha senso utilizzare ancora un vocabolo
quale il controverso termine religioso per antonomasia, ovvero la parola Dio? Sì, ritiene Vannini, precisando
come con essa ci si debba riferire non già a un ente, ma a quell’ineffabile
realtà spirituale a cui ci si può accostare: “quando si conosce noi stessi,
facendo il vuoto di ogni accidentale contenuto psichico, in modo che emerga,
dal fondo dell’anima, la nostra essenza”. Si tratta tuttavia ‒ secondo entrambi
gli autori del saggio ‒ d’una peculiare forma di conoscenza, di tipo intuitivo
o mistico, non certo logico-razionale. Del resto già Agostino invitava i teologi
a tacere rispetto al divino e di ‒ scrive il vescovo di Ippona ‒ “non pretendere di conoscere qualcosa su Dio”.
Il
terzo e ultimo dialogo si incentra
infine sul problema della pluralità delle religioni, nessuna delle quali oggi,
s’accennava sopra, dovrebbe più pretendere di dire/incarnare la verità
definitiva intorno al divino, all’uomo e all’etica cui questi dovrebbe fare
riferimento. Come non rifarsi, a tale proposito, alla considerazione fatta da
Ricoeur ad Hans Küng in merito alla parola religiosa che si riferisce al
mistero di quel non-detto che
rappresenta una sorta di sfondo mistico del fondamentale
mai formulabile in maniera esaustiva da alcuna lingua, da alcuna scrittura
sacra. A mio avviso dice bene Vannini, con accorata veemenza, allorché così afferma
allargando il discorso dalla religione alla filosofia: “L’intelligenza
pienamente dispiegata non costruisce sistemi, ma li distrugge”, e conclude
citando Meister Eckhart il quale, secoli prima di Nietzsche, predicava l’urgenza
di liberarsi dalla verità approdando
a quel socratico non-sapere che è poi forse l’unico nostro autentico sapere.
09/01/2018 16:17:51
20.03.2018
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Questa settimana vorremmo proporvi un
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17.03.2018
Marina Elettra Maranetto
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11.03.2018
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04.03.2018
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gli occhi grandi color...
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28.02.2018
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25.02.2018
Patrizia Gioia
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