50 anni dello Statuto dei Lavoratori: una introduzione di Maurizio Landini

Sembra ieri…ma sono passati già cinquant’anni dall’approvazione ufficiale dello “statuto dei lavoratori”. Un tempo lunghissimo. Pensate a quanto era cambiato il mondo fra il 1780, con i fermenti dell’Illuminismo, le Monarchie in via di trasformazione e il 1830, con una nuova rivoluzione liberale e dopo la tempesta napoleonica. Un abisso temporale. Una trasformazione profonda di pensiero e società. Oppure, avvicinandoci ai nostri tempi, pensiamo a quanto è cambiato il mondo fra il 1910 e il 1960. Anche qui cinquant’anni filati, zeppi di avvenimenti, guerre, distruzioni, crisi epocali, piani mondiali di rilancio, premesse per la crescita successiva. Di nuovo due mondi diversi, due epoche profondamente lontane. Bene. Non ce ne rendiamo conto ma il mondo di oggi non è quello degli anni Settanta dell’altro secolo. Non c’è spinta a migliorarsi, non ci sono nemmeno le possibilità concrete di migliorarsi. Non c’è, o ce n’è molto poca, percezione di un futuro positivo. Si puo’ far finta, ma siamo segnati dentro e si vedono pochi spiragli. Deve essere stata questa la molla che ha portato il segretario generale della CGIL a riproporre i punti salienti dello “statuto dei lavoratori”.  Un ritorno alle origini non per  provare un impossibile “rewind” tentando di cancellare le delusioni ma, semplicemente, per capire dove si è fatto bene e dove si è sbagliato. Una prefazione che è un manifesto politico, un j’accuse frutto della conoscenza profonda dei problemi e della frequentazione autentica del mondo del lavoro. (n.d.r)

Prefazione di Maurizio Landini *

Ci sono voluti oltre diciassette anni dalla prima ipotesi di uno «statuto del lavoratore» affinché l’ordinamento la recepisse, con la legge numero 300 del 20 maggio 1970 intitolata Norme sulla tutela della libertà e dignità dei lavoratori, della libertà sindacale e dell’attività sindacale nei luoghi di lavoro e norme sul collocamento. La prima indicazione di una legge definita «Statuto» la si deve a Giuseppe Di Vittorio, tra il 1952 e il 1953, finalizzata a tutelare il lavoratore in quanto portatore dei diritti sanciti dalla Costituzione: la proposta di Di Vittorio, formulata al terzo congresso della CGIL, era pensata per contrastare le pratiche discriminatorie in voga, in epoca di piena guerra fredda, contro chi era sospettato di militare in organizzazioni politiche o sindacali «nemiche», ossia socialcomuniste. Di qui la necessità di salvaguardare la possibilità dei lavoratori di esprimere la loro opinione senza il rischio di ritorsioni, che andavano dal licenziamento alla creazione di «reparti ghetto» nelle fabbriche. Insomma, per ripetere le parole di Di Vittorio poi divenute famose a suggello della legge conquistata, si trattava di «far entrare la Costituzione nelle fabbriche».

Erano tempi di divisione, non solo politica e internazionale, ma anche sindacale. La proposta non riscosse consensi favorevoli da parte né della CISL né della neocostituita (1950) UIL. All’interno della CISL si sviluppò invece, sulla falsariga della cultura personalistica cristiana, una teoria volta a riconoscere il lavoratore nell’ambito della sua attività, ovvero come membro di formazione sociale (risuona qui l’articolo 2 della Costituzione). Fu probabilmente anche questa diversità di approccio, assieme al clima di forte tensione sociale tipico degli anni Cinquanta e Sessanta, a non consentire all’ipotesi di uno Statuto di fare passi avanti. Ci volle la ripresa di lotte unitarie tipiche del biennio ’68-’69, con la conquista per via contrattuale del diritto di assemblea (in questo fu importante il comportamento distinto dell’Intersind, l’associazione delle imprese a partecipazione statale), prima che il legislatore giungesse, finalmente, al varo della legge oggi nota con il nome di Statuto dei diritti dei lavoratori. La legge risente proprio della duplice fonte culturale di origine: a ben vedere è lecito far risalire all’impostazione di Di Vittorio e della CGIL i primi diciotto articoli, mentre a quella della CISL gli articoli che vanno dal 19 al 28.

Gli articoli che compongono la prima parte (il Titolo I) della legge 300 riguardano infatti la tutela del lavoratore come persona: divieto di controllare le opinioni, indicazione esplicita e formale del personale addetto alla vigilanza, divieto di ricorrere a riprese audiovisive per controllare chi lavora, tutela in campo infortunistico, corretto inquadramento professionale rispetto alla mansione effettivamente svolta, garanzia di un corretto svolgimento di ogni contestazione disciplinare, divieto di istituire sindacati di comodo da parte del datore di lavoro, fino alla «logica conclusione» di ogni misura di tutela, in altre parole la reintegrazione nel posto di lavoro in caso di licenziamento giudicato illegittimo dal giudice (il famoso articolo 18).

Gli articoli successivi, invece, tutelano il lavoratore in quanto facente parte di un’organizzazione, e infatti cambia il soggetto: la (sua) organizzazione può promuovere la costituzione di una rappresentanza nel luogo di lavoro; ha diritto a riunirsi in assemblea durate l’orario di lavoro con i suoi colleghi se l’assemblea è indetta dalla rappresentanza sindacale; ha diritto a partecipare a referendum; può devolvere una parte della sua retribuzione in favore del suo sindacato, e tutto ciò è presidiato da una norma finale (l’articolo 28) che proibisce l’attività contro il sindacato da parte del datore di lavoro.

Come si vede, si tratta di una sintesi di alto profilo, opera di un legislatore intelligente e attento a quanto si muove nella società, e in grado di operare in termini superiori alla mera rappresentazione di ciò che si muove nel «proprio campo»: lo Statuto tutela quindi il lavoratore in quanto persona, difendendolo dall’arbitrio padronale fino alla tutela contro il licenziamento, e al contempo promuove la possibilità del singolo di aggregarsi con i propri colleghi, di darsi uno strumento (la rappresentanza) in grado di rappresentarne i bisogni e le aspirazioni, e tutela questa attività impedendo che essa sia ostacolata o boicottata dal datore di lavoro.

C’è però un altro aspetto che va evidenziato. L’approvazione dello Statuto risale al maggio 1970, ovvero arriva dopo uno straordinario ciclo di lotte operaie. In quegli anni, infatti, si affermarono temi e rivendicazioni nuovi: il salario, ma anche la contestazione dei ritmi, del cottimo, delle gerarchie. Insomma, era messa in discussione l’intera organizzazione del lavoro della fabbrica «fordista». Inoltre, da quell’esperienza nacquero nuovi organismi di rappresentanza – i consigli di fabbrica – attraverso l’elezione diretta dei delegati di reparto.

Il paese fece una grande esperienza di democrazia diffusa nei diversi ambiti della vita sociale. È in quel retroterra sociale, politico, culturale, che presero corpo riforme e conquiste fondamentali: prima lo Statuto dei lavoratori e, in seguito, la riforma del Servizio sanitario nazionale, la legge 180 per il superamento dei manicomi, la legalizzazione dell’aborto, il nuovo diritto di famiglia, la parità uomo-donna, le 150 ore per il diritto allo studio.

Alla fine degli anni Settanta questa stagione si chiude. A una fase intensa di lotte operaie si risponde riorganizzando i cicli produttivi, decentrando le produzioni che prima si svolgevano nella grande impresa, esternalizzando parti del processo produttivo ora affidate a piccole imprese dove i salari sono più bassi e i diritti aleatori. L’obiettivo esplicito è quindi una riduzione dei costi dell’impresa e una conseguente riduzione dei diritti del lavoro. Processi che conoscono un vero e proprio salto di qualità con la completa liberalizzazione dei flussi di capitale.

È in questi processi che negli ultimi venticinque anni la legislazione del lavoro ha cambiato segno: depotenziare tutele e diritti è stato il tratto comune delle riforme fatte in questi ultimi due decenni.

È pur vero che in questo periodo il sistema produttivo italiano ha dovuto far fronte a cambiamenti rilevanti delle condizioni di mercato, ma ha dato il più delle volte una risposta tesa a garantire più i margini di profitto che la competitività. La maggior parte delle imprese italiane, infatti, ha fatto un ricorso sempre più accentuato a contratti di lavoro «atipici» caratterizzati dalla temporaneità del rapporto. Una flessibilità al ribasso che mirava a una competizione basata sulla compressione del costo e dei diritti del lavoro. E alla pressante domanda del mondo imprenditoriale di liberalizzare l’utilizzo della forza lavoro tramite contratti flessibili hanno risposto, in modi largamente confluenti nell’ispirazione di fondo, tanto i governi di centro-destra quanto quelli di centro-sinistra succedutisi alla guida del nostro paese.

Il fatto è che questo modello di competizione, di organizzazione del mercato del lavoro e della società si sta rivelando drammaticamente inefficiente e, oggi, affiorano pesanti contraddizioni interne relative sia alla perdita di competitività delle imprese, sia alla difficile sostenibilità dei costi di un welfare tarato sulla costruzione di un sistema strutturato e non in funzione di vite lavorative frastagliate e precarie, sia di mancanza di prospettiva individuale e di crescita sociale.

Si è così avuta, attraverso tutte le forme di contratto di lavoro atipico, subordinato, autonomo-parasubordinato o autonomo tout court (tra cui le «famigerate» partite Iva), la proliferazione del lavoro precario che ha messo in discussione la stabilità economico-sociale, le opportunità e l’effettività dei diritti non solo dei lavoratori dipendenti, ma anche di ampie fasce di lavoratori autonomi, persino appartenenti a settori tradizionali delle professioni intellettuali e protette.

Questo livellamento egualitario verso il basso dei diritti e dei salari dei lavoratori, perseguito con l’introduzione della nuova normativa del contratto di lavoro, lungi dal prevedere un nuovo tipo di contratto a tempo indeterminato e a effettive «tutele crescenti», alla fine ha introdotto, semplicemente, una disciplina che ha ridotto drasticamente la tutela dei lavoratori subordinati a tempo indeterminato contro i licenziamenti illegittimi, riportando l’orologio indietro di cinquant’anni, generalizzando la condizione di precarietà del lavoro subordinato a tempo indeterminato di nuova generazione.

I danni e i limiti dell’impostazione giuridica, economica e politica, che hanno ridotto i diritti e aumentato la precarietà, stanno emergendo in tutta la loro evidenza. La crescita nulla se non negativa del PIL, i dati del mercato del lavoro, le condizioni sociali delle nuove generazioni, la sofferenza di chi oggi lavora, quella di chi vorrebbe giustamente andare finalmente in pensione, sono lì a dimostrare il fallimento di una risposta alla globalizzazione basata sulla riduzione dei costi e sulla compressione dei diritti.

Anche l’Europa ha preso atto della fondatezza delle nostre critiche a tale impostazione, e recentemente il Comitato europeo dei diritti sociali ha riconosciuto come il Jobs Act, una delle legislazioni più coerenti nello smantellare i diritti nati con lo Statuto dei lavoratori, violi il diritto delle lavoratrici e dei lavoratori a ricevere un «congruo indennizzo o altra adeguata riparazione» in caso di licenziamento illegittimo, così come sancito dalla Carta sociale europea.

(*) Introduzione al Libro pubblicato da Garzanti: Statuto dei lavoratori, ne “i piccoli grandi libri”, con prefazione di Maurizio Landini

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