Alfredo Reichlin: meriti ed errori

A tre anni dalla morte, un libro ricco di contributi di studiosi e politici, edito nella autorevole “Biblioteca della Enciclopedia Treccani”, “Alfredo Reichlin. Una vita”, ripercorre la vicenda politica ed intellettuale del noto esponente del Partito comunista italiano e della sinistra. Reichlin mi ha onorato della sua amicizia. Da responsabile per la cultura della federazione provinciale di Lecce del partito dei Democratici di Sinistra, tra la fine degli anni Novanta e i primi anni del Duemila, l’ho invitato di frequente a tenere seminari, a partecipare a convegni, a presiedere assemblee, e in quelle occasioni si stava a lungo insieme. Avevamo posizioni diverse e discutevamo con passione e ragione. Naturalmente, lo ascoltavo con attenzione e rispetto, imparavo da lui ma non mi abbandonava la sensazione che quello che mi dava corroborasse ancora di più i miei convincimenti. La differente valutazione politica divenne per così dire pubblica in occasione del congresso provinciale DS in preparazione della nascita del Partito Democratico: lui presiedeva l’assemblea congressuale e sosteneva, naturalmente, la mozione della maggioranza; io rappresentavo la mozione Mussi che, nel mio intervento sostenni con molta fermezza. Reichlin, nel suo intervento conclusivo, contrappose le sue ragioni alle mie con altrettanta fermezza, ma anche con garbo e con la signorilità che lo ha sempre connotato. Dopo, ci siamo persi di vista, ma il tempo credo che abbia confermato i miei dubbi sull’operazione PD. Lo stesso Reichlin, nell’ultima fase della sua vita, ha espresso non poche perplessità sul valore politico della nascita del PD e sul fatto di essere stato uno dei più convinti sostenitori del nuovo partito. D’altronde, per documentare questo, non c’è niente di più esplicito del suo ultimo articolo per “l’Unità”. Qui, nella sua critica, non rinuncia anche a una certa autoironia (morirà dopo qualche giorno soltanto) quando scrive: <<Al Lingotto con un magnifico discorso ci allineammo al liberismo allora imperante>>. E indica una netta inversione politica –senza la quale <<la sinistra rischia di restare sotto le macerie>>-: quella <<di liberarsi dalle gabbie ideologiche della cosiddetta Seconda Repubblica>>. Arriva perfino a giustificare e comprendere (condividere?) la scelta di coloro –come D’Alema e Bersani- che lasciano, da scissionisti, il PD (<<Mi pare che questi sentimenti non sono negati da chi ha deciso di uscire dal Pd>>). Ma in questo libro in suo onore non c’è traccia di un travaglio che assomiglia molto ad un sostanziale ravvedimento. Perciò esso è parziale, incompleto, partigiano: la prova indiretta che anche l’area politica e culturale più influente del PD non riesce a fare i conti sino in fondo con i fallimenti storici della sinistra post-Pci. Non c’è dubbio, però, che Reichlin sia stato uno dei “teorici” più ascoltati di tutte le svolte successive alla fine del PCI e della nascita del PD. Vincenzo Visco nel suo intervento ne parla con grande trasporto e soddisfazione (p. 189) vantando soprattutto il fatto che per la prima volta, proprio col contributo di Reichlin, la sinistra mette a punto un programma neoliberista –che andava a lesionare fortemente la funzione del pubblico- nell’ <<occupazione, la sanità, la contrattazione, il pubblico impiego, le privatizzazioni>>. Di fatto, la sinistra al governo dal 1996 al 2001 attuerà proprio quel programma, operando una vera e propria mutazione genetica della sua cultura che la porterà inevitabilmente alla dolorosa sconfitta del 2001. Che invece di essere spiegata venne rimossa. Il campanello d’allarme non fu ascoltato. Anzi, si continuò ad andare avanti sulla stessa strada nella convinzione di aver governato bene e che i rimedi da adottare dovessero riguardare il modo per dare al neoliberismo maggiore incisività (<<Il modo come stiamo governando è la cosa più di sinistra>>; <<almeno dagli anni Settanta non abbiamo inciso sulla realtà italiana come stiamo incidendo in questi anni>>(p.100) ). A questo punto, separando nettamente le scelte di governo dal consenso negato, l’alterazione culturale poteva dirsi compiuta: il governo della cosa pubblica diventava un fatto tecnico indifferente alla durezza con cui poteva colpire pensionati, lavoratori, scuola, sanità, sindacato, pubblico impiego. C’era alla base del nuovo pensiero di Reichlin la convinzione che i vecchi vincoli “ideologici” dovessero essere superati perché tra socialismo e modernità il divorzio era definitivamente consumato: <<tutto il vecchio impianto su cui si era costruito il pensiero del socialismo non regge più>>, diceva. Di fronte alle novità epocali della globalizzazione, dell’economia della conoscenza, dell’immateriale <<che tende a invadere non più solo i mercati delle merci, ma i significati e i valori della vita>> il socialismo si rivela ormai un arnese inutile(p.215). Senza più la possibilità del socialismo e con una sinistra ormai convertita al credo neoliberista, era chiaro che dovesse cambiare anche lo strumento operativo della sinistra: il partito. Reichlin lancia così la proposta del <<partito della nazione>>: né di sinistra, né socialista, né di classe, ma <<un soggetto politico nuovo capace di fare coalizione, un partito più nazionale>>(p.101). Viene dato così l’ultimo colpo alla sopravvivenza di una sinistra capace di cultura autonoma, con un proprio punto di vista sulla modernità. Il PD, da Reichlin salutato come partito epocale, di epocale aveva solo la autocertificazione della fine della sinistra. Per lui, un partito di sinistra, di “classe”, non poteva essere anche un partito nazionale. Qualche rinvio al pensiero di Gramsci serviva forse proprio a portare fuori strada: a rendere meno evidente il concetto gramsciano del partito che deve diventare nazionale, “universalizzarsi” senza perdere la sua natura di classe, la sua “parzialità”, la sua autonomia culturale e ideale. Alfredo Reichlin va certamente ricordato e onorato, e in questo senso il libro svolge in parte la sua funzione. Ma va ricordato e onorato soprattutto il Reichlin che giovanissimo entra nella Resistenza; l’illuminato direttore di “Rinascita”; il meridionalista tenace e intelligente che da segretario regionale della Puglia obbliga il suo partito ad una riflessione nuova e approfondita sul Mezzogiorno ; il direttore dell’ “Unità” che contro il terrorismo conduce una battaglia inflessibile. Nel dopo-PCI è una figura smarrita e confusa: un naufrago –culturalmente e politicamente-, come l’intero stato maggiore della sinistra.

Egidio ZACHEO

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