Ammasso informe o tesoro?

C’era un famoso detto, comune qualche decennio fa, che faceva più o meno così: “A che serve il lupo? A nulla…come Mozart!” (1) quasi come una giustificazione a far piazza pulita di ciò che non si sa apprezzare. Una scappatoia comoda per evitare di ragionare, di andare a fondo nelle cose. Perdendo, a volte, opportunità importanti.

E’ il caso del “Museo geologico – paleontologico” di Asti, presso il palazzo del Michelerio, che è sconosciuto ai più e, quel che è peggio, contiene reperti di enorme valore. Occasioni, se promosse nelle dovute maniere, che porterebbero lustro e flussi di visitatori di qualità nella storica città del Piemonte centrale e in tutto il territorio del nord ovest italiano. Sì, perché  i materiali presentati ad Asti sono dell’intero Piemonte e, in qualche caso, delle vicine Liguria e valle d’Aosta. Si tratta soprattutto di resti fossili di vegetali e animali vissuti in epoche passate nel nostro territorio e di documentazioni (tramite rocce, elaborazioni, diorami, ricostruzioni) di come si è andato a formare il c.d. “bacino terziario piemontese”. Ci sono anche le “pietre da cantoni” tanto comuni nelle case di campagna del nostro Monferrato che, da poco, hanno trovato nuovi motivi di interesse. Sono proprio questi parallelepipedi geometricamente scalpellati a costitutire gli angoli dei palazzi sette-ottocenteschi di centri piccoli e grandi della regione, a volte piazzati in orizzontale intercalati a file di mattoni rossi oppure, più di rado, a costituire l’intera struttura dell’edificio in pietra. Solitamente più antichi, questi ultimi, quando era meno costoso raccogliere pietre lungo le colline, trasportarle per diversi chilometri e piazzarle, piuttosto che acquistare mattoni rossi da fornaci, all’inizio solo per i più abbienti.

Bene. La nostra storia parte esattamente da uno di questi blocchi, uno dei tanti ammassi grigio-giallastri  che caratterizzano le cave all’aperto del basso e dell’alto Monferrato. Ce ne sono a Cassine, a Vignale M.to, a Ottiglio, a Castello d’Annone, a Mombello, a Camino e a Moleto (eccetera). Ogni cava con una sua sfumatura particolare, con residui sabbiosi più o meno grandi di quello che era un fondale o una costiera del cosiddetto mare padano, con alternanze di tessiture fini e grezze, sempre nuove, sempre diverse. Il mare, praticamente l’attuale Adriatico, che arrivava su su fino alle porte di Torino e a sud oltre Alba aveva lasciato con questi spessi sedimenti la sua impronta indelebile. Una enorme distesa marina circondata a sud da quelli che sarebbero diventati gli Appennini e a nord delimitata dalla caratteristica linea frastagliata delle Alpi. Una storia lunghissima durata dalla notte dei tempi fino a due o tre milioni di anni fa che, come è facile immaginare, ha lasciato molti indizi. Bellissimi minerali lanceolati di salgemma, residui del prosciugamento mediterraneo prepliocenico, foreste pietrificate con strutture silicee simili a pezzi di carbone  visibili in mezzo a distese di campi o lungo corsi d’acqua, resti di pesci o granchi ammassati in ristrette aree presumibilmente rimaste isolate e progressivamente  senza ossigeno. Fino a intere scogliere coralline ancora oggi perfettamente riconoscibili con pezzi di madrepora pietrificati o aggregati di polipi corallini  riconoscibili per le strutture calcaree da loro formate. Senza dimentica i resti di conchiglie di ogni tipo ed i frustoli legnosi che, con facilità, possono essere identificati e segnalati da chiunque, anche da chi ha l’occhio meno esperto.

Ecco, noi siamo questo. Un enorme libro della natura che ci parla di come era affascinante e diversa – nella successione dei tempi – la nostra terra, proprio questo lembo di nord ovest di Italia che non sempre valorizziamo al meglio. Fra le tante, una occasione di rilancio potrebbe essere questa.

Un caro amico, il geologo – paleontologo Piero Damarco si è gentilmente prestato a farci da cicerone riguardo l’ultima scoperta fatta in Piemonte, proprio nel territorio della provincia di Alessandria. Una ri-scoperta che è avvenuta su reperti che erano già stati donati al museo di Asti e che ci si impegnava ad analizzare con calma, cercando di scoprire, fra le gibbosità della roccia , qualche indizio di vita o di storia geologica. Esattamente ciò che è successo di recente all’equipe del dott. Damarco che, con esperienza ed intuito, è riuscito ad identificare parti dello scheletro di una balena antichissima, la più antica fra quelle trovate nel Mediterraneo, risalente a circa 20 milioni di anni fa, riuscendo nella non facile impresa di ricreare – scientificamente – tutto il syuo particolarissimo mondo di allora. Una realtà marina caratterizzata da una vita rigogliosa, da scogliere di tipo tropicale e da taglie notevole di pesci, molluschi e di tutto quanto costituiva il bioma antico. Grandi squali (di cui si sono trovate tracce incontrovertibili (soprattutto denti), delfini, pesci di ogni tipo, crostacei, echinodermi, alghe eccetera. Una realtà perfettamente in equilibrio ed in costante, ma lentissima evoluzione, quella che cambia le cose – solitamente in meglio – senza danneggiare gli equilibri delicati dell’ecosistema Terra. Una lezione per noi oggi.

La proposta è tutta qua. Non sarebbe difficile integrare il già bellissimo e attrezzato Museo del “Michelerio” con ulteriori sale a tema, con apparati informatici di qualità e conseguenti ricostruzioni mozzafiato. Combinate, magari, con una visita sul sito (in questo caso a Moleto) per cercare di capire dal vivo co è realmente successo in quei periodi remoti. Il tutto, ovviamente, promosso a dovere ed inserito in un piano visite e approfondimenti fra lo scientifico e il promozionale (non dimenticando che i nostri territori sono famosi per la storia, l’architettura e l’enogastronomia. Ma…ci vuole inventiva, organizzazione e capacità di reperimento fondi …E su questo punto mi fermo.

Per capire meglio l’entità di quanto è stato scoperto sentiamo dalla viva voce del dott. Damarco come sono andate le cose (intervista rielaborata all’indomani della presentazione della scoperta, estate 2020).  (2)

.D. Grandi novità al Museo del Michelerio di Asti. Riconosciuta una nuova balena fossile che va ad arricchire il quadro evolutivo di questa grande famiglia di mammiferi. Piero Damarco, in qualità di esperto, cosa ci puoi raccontare?

.R. L’  Atlanticetus lavei l’abbiamo ricostruita in base a comparazioni effettuate con la specie americana, Atlanticetus patulus, e gli altri misticeti. E’ probabile che avesse il dorso nero, il ventre bianco, poche pieghe golari (meno di 10) e nessuna pinna dorsale. La lunghezza è stata stimata intorno a 7 metri e 70 centimetri. Come sempre queste valutazioni si fanno prendendo a modello specie attuali o fossili particolarmente studiati e di cui si hanno reperti completi. Per quanto ci riguarda abbiamo anche una bella ricostruzione  artistica curata da M. Bisconti.

.D. Possiamo avere qualche elemento informativo ulteriore?

.R. Si chiama Atlanticetus lavei. E’ un importante reperto fossile ed è stato oggetto di una tesi di laurea, di un tirocinio universitario e di uno studio dettagliato che hanno chiarito alcuni processi ecologici in cui il Mediterraneo è stato coinvolto circa 20 milioni di anni fa. Perché lo studio di una balena fossilizzata, di come è morta, di ciò che le è rimasto intorno, della matrice stessa in cui è stata conservata per milioni di anni, sono tutti elementi fondamentali di “paleoecologia”. Sostanzialmente un modo per ricostruire un habitat in modo dettagliato, arrivando anche a capire quali fossero le condizioni delle acque marine o fluviali, dell’atmosfera e di tutti gli indicatori ambientali più significativi.

.D. Quando si è cominciato a parlare, ad un certo livello, del ritrovamento?

.R. Il 19 agosto 2020, la rivista Papers in Palaeontology  ha pubblicato un articolo con un titolo che, in italiano, recita così: “La più antica balena del Mediterraneo: implicazioni su vasta scala relative a un talassoterio del Miocene inferiore del Piemonte, Italia”. La scoperta ha avuto un’ampia risonanza sui social media dato che i circa 20 tweet che hanno citato l’articolo hanno totalizzato quasi 38.000 visualizzazioni e hanno raccolto commenti carichi di interesse da parte di un’audience internazionale. Segno di un interesse per un periodo, quello di passaggio fra Miocene e Pliocene, ritenuto fondamentale per i successivi sviluppi dell’intero sistema Terra

.D. Come è avvenuto il ritrovamento? 

.R. L’articolo è il risultato di una ricerca svolta dal Museo Paleontologico Territoriale dell’Astigiano, gestito dall’Ente di Gestione del Parco Paleontologico dell’Astigiano con sede ad Asti. Gli autori sono un gruppo di ricercatori e tecnici dello stesso parco e del Dipartimento di Scienze della Terra dell’Università degli Studi di Torinocoordinati da Giorgio Carnevale. Lo studio, come già anticipato, ha riguardato un reperto proveniente da Moleto (in provincia di Alessandria) che è stato ri-scoperto nella collezione dei cetacei conservata al Museo di Asti da un appassionato di fossili che periodicamente collabora con il museo.
Il reperto si trovava in un armadio dove giaceva in attesa di preparazione. Verificata la provenienza, l’età geologica e la natura del reperto si è capito che i blocchi di Pietra da Cantoni (una roccia sedimentaria diffusa in Monferrato casalese) che lo incapsulavano stavano nascondendo qualcosa di potenzialmente importante. Una precedente analisi dei microfossili aveva infatti rivelato che l’affioramento di Pietra da Cantoni di Moleto ha un’età compresa tra i 16 e i 19 milioni di anni.

.D. Ci puoi dire qualcosa di più su genesi e svolgimento della scoperta (anzi ri-scoperta)

.R. Poiché dai blocchi spuntava una bulla timpanica (parte dell’apparato uditivo dei cetacei) di dimensioni piuttosto grosse, si è capito subito che i resti fossili scoperti dovevano appartenere ad un qualche tipo di balena e, vista l’età della roccia, doveva trattarsi di una delle più antiche balene fossili italiane. Su questa base nella mia qualità di conservatore del Museo, ho attivato una procedura di preparazione del reperto coinvolgendo una studentessa del Corso di Laurea in Scienze Naturali, Selina Mao, che ha svolto il proprio tirocinio imparando le tecniche di preparazione dei vertebrati fossili proprio su questo reperto, sotto la guida dei tecnici del museo.

.D. Che tipo di evoluzione hanno avuto le fasi di studio?

.R. Una volta completata la preparazione delle parti più rilevanti del fossile, è iniziato lo studio anatomico vero e proprio. In seguito, Michelangelo Bisconti del Dipartimento di Scienze della Terra dell’Università degli Studi di Torino, essendo specializzato nella paleontologia dei cetacei, ha effettuato una serie di analisi comparative valutando la forma delle singole ossa  e confrontandole con le corrispondenti parti scheletriche di tutti i cetacei con fanoni (misticeti) fossili pubblicati finora. Le valutazioni così effettuate e i risultati ottenuti sono stati poi inseriti in un diagramma ad albero in cui sono state ricostruite le relazioni di parentela di più di 80 specie di misticeti attuali e fossili. Questa analisi ha rivelato che il reperto di Moleto è particolarmente simile a un misticete, grosso modo della stessa età, conservato alla Smithsonian Institution di Washington e che era stato descritto nel 1968 da Remington Kellogg con il nome Aglaocetus patulus.

Il reperto americano è più completo del fossile di Moleto che è molto frammentario. Tuttavia, proprio le ossa uditive sono risultate determinanti per l’identificazione del reperto di Moleto attraverso questa lunga e complessa analisi comparativa.

.D. Quindi anche da pochi reperti, seppure di grosse dimensioni, si è risaliti al philum di specie?

.R. La forma delle bulle timpaniche e dei periotici  (che corrispondono alla parte petrosa dell’osso temporale nell’uomo) sono infatti legate a specifiche funzioni legate al transito di nervi ed elementi vascolari importanti perchè diversificati nelle varie specie nel corso dell’evoluzione. Per questo motivo, le strutture uditive dei cetacei sono fondamentali nella determinazione delle specie fossili. Per mia (e nostra) fortuna anche le parti restanti sono state fondamentali per identificazione e per tutta una serie di altre considerazioni.

.D. Ci puoi dire qualcosa di più su questi meravigliosi mammiferi marini?

.R. Le grandi balene appartengono all’ordine dei Cetacei, un diversificato gruppo di mammiferi marini che comprende anche i delfini, le orche, le megattere, i capodogli e così via. Si stratta di organismi perfettamente adattati alla vita acquatica che sono il frutto di un lungo e complicato processo evolutivo iniziato intorno ai 55 milioni di anni fa da antenati quadrupedi e terrestri. Si è trattato, infatti, di una rioccupazione di uno spazio (quello marino) reso disponibile dalla improvvisa mancanza di giganteschi rettili marini (ittiosauri e plesiosauri, tra gli altri) soppiantati da questi nuovi ospiti.

.D. Tra l’altro con alcune evoluzioni in quelli erano gli arti di mammifero…

.R. Proprio così. Infatti i più antichi cetacei prendono il nome di archeocetie mostrano diversi ‘gradi’ di adattamento alla vita acquatica mantenendo o meno le zampe posteriori e possedendo una pinna pienamente articolata a spalla, gomito e polso. Alcune addirittura con dentatura da carnivoro ancora perfettamente mantenuta.

.D. Una scoperta importante, quindi, che ci permette di capire meglio l’ecosistema marino attuale…

.R. Assolutamente vero. I cetacei moderni costituiscono un gruppo denominato Neocetiche a sua volta si divide in due grandi tronconi: gli Odontoceti(‘cetacei con i denti’: delfini, capodogli, orche, focene, narvali, zifii, delfini di fiume e così via) e i Mysticeti (‘cetacei con i fanoni’: balene, balenottere, balene grigie, megattere, cetoteridi, talassoteri basali e così via). I più antichi misticeti, vissuti tra l’Eocene finale e l’Oligocene finale, erano dotati di denti ma con il Miocene inferiore le specie con fanoni avevano quasi completamente soppiantato le forme dentate. Tra i misticeti con fanoni si osserva una grande suddivisione: i balenoidi e i talassoteri. I balenoidi comprendono le tre specie di balene franche (genere Eubalaena), la balena della Groenlandia (Balaena mysticetus) e la balena franca pigmea (Caperea marginata), anche se sulle affinità di questa ultima gli studiosi non concordano. I talassoteri includono tutte le altre famiglie: balenottere, balene grigie, megattere, cetoteridi e talassoteri basali. Tra tutti, i talassoteri basali formano un gruppo completamente estinto dalle caratteristiche molto primitive ma perfettamente adattato alla predazione di massa attraverso i fanoni e con un cranio così idrodinamico da lasciar pensare che potessero proiettarsi sui gruppi di prede a grande velocità, proprio come le attuali balenottere. Il reperto di Moleto (Atlanticetus lavei) appartiene proprio a questo gruppo.

.D. A cosa si deve questo nome particolare?

.R. Il reperto americano dello Smithsonian presentava problemi di attribuzione sistematica non banali. La sua inclusione nel genere Aglaocetusera stata messa in dubbio in molti articoli scientifici pubblicati negli ultimi dieci anni. Per questo motivo, il team di ricerca italiano ha deciso di stabilire un nuovo nome generico che comprendesse il fossile di Moleto e il reperto americano vista la chiara affinità evidenziata dalle analisi descritte sopra. Così, si è istituito il nuovo genere Atlanticetus con le due specie Atlanticetus patulus(il fossile americano) e Atlanticetus lavei (il reperto di Moleto); tra i due reperti, infatti, esistono piccole ma significative differenze che permettono di effettuare questo tipo di distinzione.

Come molto spesso succede, il nome specifico del reperto di Moleto (lavei) è una dedica alla persona che ha ri-scoperto questo reperto nelle collezioni del museo, Ennio Lavé.

.D. Un museo, quello al “Michelerio” di Asti poco conosciuto. Ci puoi dire qualcosa di più?

.R. La nuova specie rappresenta la balena con fanoni più antica del Mediterraneo. Non si sono scoperti misticeti fossili fino a ora più vecchi del reperto di Moleto. Esso assume dunque una grande importanza per la ricostruzione dei rapporti evolutivi dei misticeti mediterranei. Pur essendo molto frammentario, la sola presenza di alcune ossa ricche di dettagli anatomici ne ha permesso la ricostruzione e l’analisi generando una cascata di osservazioni precedentemente nemmeno immaginate! Il prossimo passo potrebbe essere diretto verso l’acquisizione di informazioni circa l’ecosistema in cui viveva questa balena attraverso nuovi scavi e nuove scoperte che possano arricchire ancora di più la già importante collezione di cetacei fossili del museo di Asti.

Grazie alla diversificata offerta didattico-formativa del museo, questi fossili si trasformano in cibo per la mente di giovani studenti che, chissà…, un giorno potrebbero tornare sul territorio ad investigare e portare alla luce nuovi tesori sepolti da milioni di anni. Infatti il reperto appena descritto insieme a tutti i resti storici (circa 150 esemplari che variano dagli scheletri quasi completi di balenottere alla singola sezione ossea) trasferiti nel 2019 dal Palazzo Carignano  di Torino ad Asti (Piemonte Parchi, 7 maggio 2020), possono essere visti e studiati da chi ne facesse richiesta nei depositi del museo appena allestiti.


.1. Al lettore che domanda (Corriere di ieri) «per quale motivo a nostro vantaggio abbiamo bisogno di orsi e lupi», cito la risposta che un famoso zoologo dette a una signora impellicciata che gli chiese a cosa serviva un lupo da vivo: «A nulla, signora, come Mozart». ( il riferimento era a Fulco Pratesi)

.2.  “Ad Asti, la balena più antica del Mediterraneo” : http://www.piemonteparchi.it/cms/index.php/territorio/musei/item/4118-ad-asti-la-balena-piu-antica-del-mediterraneo?tmpl=component&print=1

Autori: Alessandra Fassio, Michelangelo Bisconti, Piero Damarco, Giorgio Carnevale, Marco Pavia

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