Nella lettura critica della crocifissione di Cristo, siamo abituati a considerare le ultime ore della vita di Cristo uomo come un dialogo con il Padre, con il Dio a cui il Figlio deve ricongiungersi.
In molti ritratti e molte scene della Crocifissione, gli occhi del Cristo sono rivolti verso l’alto, verso il Padre, qualche volta verso il ladrone che lo accompagnerà nell’al di là, come un fratello, ma mai, o quasi mai, verso coloro che lo osservano dal basso, che possiamo immaginare in un gruppo composto da Maria, Maria di Magdala ed i più fedeli discepoli, coloro che non lo hanno abbandonato nel giardino del Getsemani.
Ma è quel gruppo, per lo più composto da donne e oranti, che piange la sua morte, mentre i soldati romani osservano gelidamente una cerimonia a cui sono abituati, la punizione di un colpevole.
Per me il Cristo uomo, non quello divino, doveva invece cercare il volto pieno di lacrime della madre e dei discepoli a lui più cari, anche se al momento sbandati.
In molte parti dei Vangeli, Cristo si rivolge agli uomini, uomo fra gli uomini, anche se la promessa è sempre quella di poter far parte di un mondo ultraterreno da poter condividere assieme, certe volte il suo messaggio, le sue parabole, sono come un nuovo Decalogo che si aggiunge a quello di Mosè, ma proprio perché nel momento supremo, quello in cui Cristo uomo lascia le sue spoglie mortali e ritorna al padre, è importante che il suo sguardo si rivolga anche agli uomini, quelli per i quali ha vissuto la sua avventura terrena e che li osservi con il suo sguardo di Salvatore.
Non voglio addentrarmi nei dissidi fra monofisiti e duofisiti, così comuni nell’età bizantina, ma dico che alcuni teologi, alcuni cristologi, hanno saputo ben cogliere questo aspetto, l’umanità del Cristo morente.
E parlo di Martin Lutero, Calvino, Zwingli, Melantone e John Knox, tutti ben presenti nella statua dei Riformatori nella “Place des Réformateurs” nella eclettica e vibrante Ginevra.
Viator
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