Filosofia del Socialismo

Idealismo e Materialismo nella Storia contemporanea

pubblicato il 22/02/2020

II

Il materialismo “dialettico” marxista aveva ed ha in sé i caratteri di ogni materialismo, che deve prescindere da qualunque realtà dello “spirito infinito”, sovrastante o anche solo immanente. In più tale materialismo, in quanto è “dialettico”, ossia incentrato sul conflitto tra gli opposti, ha in sé i tratti di ogni visione polemologica, “di guerra”, che, ove sia “anche” materialistica, non è neppure permeata dalla percezione di una qualche dimensione sintetizzatrice “infinita”, a monte e a valle, sempre implicita tra i contendenti. Questa mancanza è grave perché per contro una vision idealistica, in cui sia viva la coscienza dell’interdipendenza morale e spirituale tra esseri umani, anche nella lotta estrema, porta a comprendere che il conflitto – talora persino a morte – è sempre tra fratelli. Questo sembrerebbe un fervorino moraleggiante, da buon prevosto “filosofo” che parli da un pulpito: eppure è proprio quello che, ad esempio, Dostoevskij – il più inquieto e inquietante di tutti gli scrittori sommi – ha sempre cercato di farci toccare con mano al cuore stesso delle situazioni più tragiche da lui raccontate, e sin nell’intimo più intimo dei suoi tragici eroi, in tutti i suoi grandi romanzi, ma soprattutto nell’Idiota e nei Fratelli Karamazov, su cui non si sarà mai meditato abbastanza[1]. Questa consapevolezza della correlazione ontologica, cioè di “essere”, tra tutti noi nel più intimo del nostro essere, quando vi sia spinge quelli che la intendano “davvero” (e non solo a chiacchere), a sapere che non si è sempre, e neppure solitamente, “nemici” – né come singoli, né come classi, né come razze o popoli, o stati o altro – e che nel caso in cui lo si sia diventati non sarà per sempre, e il nemico di oggi potrà diventare l’amico, o quantomeno il compagno di strada, di domani: uno che potrà magari starci sull’anima (per usare un eufemismo), ma che dovrà essere considerato civilmente. E vale verso chiunque. E se l’altro, che si ritiene sempre potenzialmente nemico anche al di fuori dell’aperta contesa, non lo penserà, tanto peggio per lui. Vada “al diavolo”.

Il materialismo biologico e politico-biologico: darwinismo sociale, lotta a morte tra gli Stati per la potenza e nazionalsocialismo

Ora si potrebbe pensare che le aporie cui qui ho accennato relative al materialismo “dialettico”, o anche “storico”, valgano solo per il marxismo, e per ciò stesso per il socialcomunismo. Invece io sostengo che la cosa riguarda ogni visione polemologica e materialistica. Infatti il materialismo polemologico può presentarsi, in forma persino più terribile, nella relazione conflittuale non già tra classi, ma tra pretese razze o Stati: relazione che quando parta da premesse puramente basate sul rapporto di forza o interesse, è persino peggiore del materialismo economico-sociale (cui pure, io – lo si sarà compreso – vorrei fare un funerale di terza classe, pur rendendo ad esso l’onore delle armi, considerandolo come una grande scuola di pensiero e di vita politica)[2].

Il primo riferimento, qui, va al biologismo “storico”. La base del biologismo sociopolitico, a dispetto del grande scienziato fondatore, è stata l’evoluzionismo “darwinista”.[3] Non m’importa niente che Darwin fosse agnostico, così come non m’importerebbe “molto” di sapere se Einstein possa essere detto ateo e materialista o altro, o ariano invece che ebreo qual era, o che Hitler credesse in Dio, e così via. Il darwinismo è materialista intrinsecamente. Non c’è alcun dubbio – sia chiaro – che l’evoluzionismo biologico sia, in biologia, la visione più persuasiva, e che non sia né utile né necessario alcun disegno “intelligente” sovraordinato (creazionistico), “esterno”, che faccia da “deus ex machina”[4]. Qui però m’interessa l’idea della selezione naturale attraverso la lotta per la vita.

Ove manchi la visione dello Spirito sotteso, come radicale, alla realtà biologica in divenire (per noi umana), si spalanca la porta – se tale visione scientifica evoluzionistica sia estesa alla storia – alla biologizzazione della politica. E si badi che la porta, che è davvero “larga” invece che “stretta” ma salvifica[5], può essere spalancata su più versanti. Ad esempio, in parallelo a Darwin un pensatore materialista positivista all’epoca famosissimo in tutta l’Europa, e che pure teneva una finestrella aperta verso “l’inconoscibile”, Herbert Spencer, connetteva all’idea dell’universalità della lotta biologica tra viventi, in cui vincerebbe sempre il preteso più forte o migliore, la necessità della concorrenza assoluta degli individui nell’economia di mercato, ritenuta innaturalmente frenata dallo Stato (facendosi ideologo di un liberismo più o meno assoluto, tanto che oggi è riscoperto dagli “anarcocapitalisti”); e il socialista marxista Kautsky, il più importante teorico della socialdemocrazia tedesca tra il 1895 e il 1930, connetteva la necessità “naturale” del socialismo a un’evoluzione “darwinista” fatale verso un’etica sempre più sociale.[6]

L’approccio polemologico allo stato puro, senza alcun presupposto spirituale e morale che agisse come lievito interno, portava poi a vedere come “naturale” la lotta tra gli Stati nazionali per la potenza, sino alla catastrofe, benissimo argomentata dai teorici contemporanei, apologeti o critici o infine autocritici, come Treitschke e soprattutto come il grande studioso e pensatore Meinecke. Non a caso proprio cercando un’alternativa alla altrimenti fatale e autodistruttiva lotta degli Stati per la potenza, il maggior studioso italiano di Meinecke, Sergio Pistone, ha tratto la conclusione della necessità del federalismo tra Stati come sola alternativa a nuove catastrofi[7].

Ma pure la visione del grande politologo Carl Schmitt – importantissimo prima come dopo il nazismo, ma nazista “non per caso” in tutta l’epoca di Hitler – sta in tale scia della lotta degli Stati per l’imperio su altri, sino ad elaborare una vera visione neo-hobbesiana della politica, intesa come attività imperniata tutta quanta sul conflitto amico-nemico (amicus hostis): sino a rettificare il grande teorico della strategia militare von Clausewitz, il quale aveva detto che la guerra è la continuazione della politica con altri mezzi, sostenendo che è la politica ad essere la continuazione della guerra con altri mezzi. La partigianeria, anche violenta, non sarebbe una degenerazione della politica, ma la sua quintessenza, almeno sino a quando una società o il mondo non abbia trovato – o ritrovato – una pace di lunga durata tramite Stati forti o imperi forti stabilmente insediati per secoli.[8]

Può piacere o non piacere, ma la tendenza che più solidamente si oppose a tutta questa visione di pura lotta per la vita tra forti e deboli, tra classi nemiche o Stati nemici o razze nemiche, fu il neospiritualismo, al culmine della reazione al positivismo della fine del XIX secolo. Henri Bergson, proprio partendo da Spencer, dapprima assai apprezzato e poi superato, delineò, nell’Evoluzione creatrice (1907), un evoluzionismo di tipo vitalistico spirituale, in cui lo spirito infinito ed eterno è sotteso al divenire, spezzando di continuo la materia che gli resiste, e procedendo sempre innanzi, in specie a livello umano (però “dall’interno” della vita che si fa). Lo “slancio vitale” spirituale – radicale della e nella vita reale – troverebbe la sua vera avanguardia, inter homines – sostenne in Le due fonti della morale e della religione (1932) – tra i mistici, che si identificano con lo stesso spirito che crea la vita, e per ciò vivono in simbiosi col tutto e con tutti, come santi ed eroi, quasi annuncio di una sovrumanità o divino-umanità (per lui come Gesù Cristo). Questa visione – scientificamente attrezzata, filosoficamente profonda ed eticamente notevole – passò poi al gesuita scienziato Teilhard de Chardin, ma anche al socialismo cristiano, o personalismo comunitario, di Emmanuel Mounier, e al liberalsocialismo e “gandhismo” di Aldo Capitini.[9]

Ma è giocoforza ammettere che tale linea, già viva al tempo delle elaborazioni sulla fatale lotta delle potenze (e etnie) prima della Grande Guerra 1914/1918, rimase minoritaria, rispetto a una cultura materialistica, o economica o inter-statale e iperpoliticistica, oppure persino di biologizzazione della politica. La cultura andava sì nella direzione or ora indicata (neospiritualistica, neoidealistica e vitalistica), ma il materialismo seguitava ad essere vincente nella “cultura” dei decisori della politica, specie ai poli opposti della vita sociale e politica. E così è spesso accaduto anche in seguito, secondo il maggior studioso di Gandhi, il filosofo morale e politico Giuliano Pontara: anzi, a suo dire proprio oggi[10].

Tutto ciò ci fa anche vedere che Hitler non veniva dalla luna. Dietro al suo tristo razzismo c’erano certo fenomeni storici determinati, come la difficile convivenza inter-etnica in Europa centrale, nell’impero asburgico in cui il signor Hitler era nato e cresciuto, e in specie a Vienna dove si era “formato” (come giovane povero disadattato), con le contese tra i più poveri afferenti a popoli o etnie diversi che si confrontavano a livello sottoproletario per consumare, astiosamente, il loro misero pane quotidiano; e anche la volontà di revanche, o riscossa, nei confronti delle potenze che nel 1918 avevano sconfitto e umiliato austriaci e tedeschi. Ma nell’orientamento pesava altrettanto il biologismo darwinista applicato alla sfera sociale e politica, con criteri tardo-positivistici. Infatti Hitler aveva nei confronti del darwinismo biologico lo stesso rapporto che i marxisti hanno avuto sin dall’inizio con l’economia e i suoi meccanismi. Egli poneva infatti la pretesa “biologia” al primo posto, invece dell’economia, che almeno è fatta di relazioni che non mettono in discussione l’umanità altrui, ma rapporti sociali. Il nazionalsocialismo è stato, comunque, una forma di darwinismo sociale, ossia uno dei diversi tentativi di applicare il darwinismo al divenire sociale e politico. Nel nazionalsocialismo la lotta nella specie è tra razze e popoli, con pretesa di imporre la supremazia assoluta della razza ariana, di cui i popoli germanici sarebbero il fior fiore, in lotta mortale per il primato assoluto con il polo opposto, individuato in primo luogo negli ebrei, e subordinatamente nei neri e negli slavi.[11] Inoltre Hitler condivideva con le visioni basate sull’antitesi senza limiti tra umani, l’idea – a posteriori risultata assolutamente falsa per tutti – che il trionfo del preteso bene conseguisse puramente e semplicemente alla distruzione del preteso male. Per Hitler si trattava di eliminare gli ebrei, visti come il male incarnato; per Marx si trattava di eliminare il capitalismo, che certo è fatto di rapporti sociali e non di un’etnia (e quindi non confrontabile con l’hitlerismo in nessun modo, essendo il marxismo ben più umano), ma per cui nella storia c’è pur sempre un Negativo “da distruggere”, incarnato da una o più classi avverse (talora pure dai contadini piccoli proprietari fatti passare per “ricchi”, “kulaki”): classi nemiche detestate e oggetto di lotta a morte (con interessanti osservazioni pungenti su ciò pure in Freud)[12].

Di quel che sarebbe accaduto una volta abbattuta la borghesia, ci s’interessava poco o nulla: in area riformista – “adattiva” rispetto al sistema in divenire – in base ad un realismo materialistico inossidabile; in area rivoluzionaria perché l’importante sarebbe stato anatomizzare il capitalismo come sistema morituro (per farlo fuori), come voleva Marx, ma volevano pure Hilferding, Lenin, Rosa Luxemburg e infine pure Althusser[13]. Infatti la teoria della transizione al socialismo fu sempre molto povera, sia in senso economico che politico-istituzionale: non solo perché verteva sulla “sovrastruttura” (dal più al meno ritenuta variabile dipendente dell’economia o “struttura”, almeno “in ultima istanza”[14]), ma soprattutto per il negativismo di cui si è detto, il quale riteneva “il bene” effetto immancabile della distruzione del “male”.

Invece – credo oggi io – se vuoi il “bene” devi preparare “il bene”. Se vuoi “la pace”, sia pure tenendo l’arma al piede, devi “preparare la pace”; e far sì, eventualmente – se proprio non puoi farne a meno – la guerra, o la rivoluzione (che è poi semplicemente una guerra tra le classi), ma per dura necessità e non certo come la cosa più bella del mondo. La prefigurazione e progettazione, audacemente realistica, ma ferma e coerente pr molti anni, del presente-futuro “per me” è l’ora della verità: ben più importante della distruzione del passato, che pure è da realizzare, ma che è solida solo su basi “costruttive-ricostruttive”, e altrimenti risulterà sterile o peggio.

Materialismo e idealismo nella storia del socialismo (e comunismo)

La visione puramente materialistica, e nel marxismo polemologica (classe contro classe), senza alcuna “ratio” o armonia a monte o a valle, e quindi tutta affidata al rapporto di forza sociale, comunque nella sinistra proletaria fu accolta. Lì l’ispirazione materialistica veniva da lontano. Taluno vi ha visto un’attitudine legata alla cultura materiale, a un fare sempre legato a un’utilità immediata di singoli utenti invece che a tutti comune o universale; ma questa mi sembra un’esagerazione conservatrice, quasi che i lavoratori debbano essere per forza utilitaristi, mentre pure Pirandello ci ha commosso raccontandoci del caruso di miniera Ciàula che all’improvviso rimane in estasi guardando la luna (e però l’osservazione di Jung sul materialismo cui sarebbe portato chi pratichi quasi soltanto la cultura materiale, presa cum grano salis potrebbe avere un pizzico di verità).[15] Ma l’opzione materialistica nei proletari e socialisti è pure stata figlia della storia. Intanto si legava all’anticlericalismo antico del tempo dell’alleanza tra trono e altare, colpendo il clericalismo ancora fortissimo nelle zone rurali. Lì i preti, già solitamente connessi con le persone influenti (borghesi), erano sempre ostili ai socialisti, considerati “senza dio” (allegramente ricambiati). Valeva tanto più in città. Il prete era canzonato dai proletari più radicali delle fabbriche (tanto più delle grandi città), dove spesso appariva, o era, connivente con i borghesi (anche in età liberale). Così nel mio Borgo San Paolo natio di Torino, in cui mia madre era approdata a quattro anni (credo nel 1916), ancora dopo la prima guerra mondiale e negli anni Venti – come mi raccontava – i proletari cantavano contro i preti (che gli operai del tempo amavano così tanto da incendiare il convento di San Bernardino del Borgo nell’agosto 1917): “Al dì d’ancheui l’mund l’è pà pì ‘d sant Ciula … / e deje’l pulàstèr a lùr e nui mangé la sciula! …” (“Al giorno d’oggi il mondo non è più di Santo Fesso …/ dare polli a loro preti, e noi mangiare la cipolla!”). L’anticlericalismo antico disponeva il proletariato a recepire il materialismo marxista e socialista in genere. La tendenza materialistica – più “mossa” in Marx, sotto sotto sempre un poco “lavorato” dall’idealismo hegeliano, pur ripudiato quasi dall’inizio – si radicalizzava già in senso materialista “oggettivo” nel suo grande amico-collaboratore Engels. Ad esempio tutta l’opera di Engels Antidühring (1878), con buona pace degli scientisti materialisti del XX secolo (da Lenin a Geymonat e persino Colletti), è materialismo positivistico allo stato puro[16]. A partire da quel tempo, emergeva una visione determinista, di fatalismo economico, che vedeva la grande crisi del capitalismo come frutto di automatismo economico (ma in modo più raffinato lo ritenevano ancora Althusser e Colletti, per tacer di Bordiga)[17].

La divisione tra fine del XIX e primo ventennio del secolo XX, a sinistra, prescindendo da pochissimi elementi, era tra chi riteneva che il fatale andare dell’economia portasse al migliorismo economico e liberaldemocratico, e quindi socialista (da Bernstein a Filippo Turati) e chi riteneva che portasse fatalmente alla catastrofe del sistema e alla rivoluzione sociale (Kautsky, e poi Lenin e Rosa Luxemburg). I primi, i riformisti, giocavano di rimessa, in un rapporto di incontro-scontro con il liberalismo “riformista” (in Italia furono egemoni dal 1898 al 1912, in discordia concors e concordia discors col liberale Giovanni Giolitti, anche se talora in minoranza nel PSI, in cui mezzo partito ebbe sempre altro, più sovversivo, sentire; poi gli epigoni della “Critica Sociale”, nel 1947 a partire dal socialdemocratico Saragat, e dal 1956, e soprattutto 1959, con Nenni, giù giù sino a Craxi – tutti sorti dall’humus e dai rivoli della turatiana “Critica Sociale” – faranno ciò con Fanfani, Moro e infine Forlani, cioè non più col moderatismo liberale, ma con il moderatismo della Democrazia Cristiana. I socialisti “rivoluzionari” marxisti, o massimalisti, volevano preservare il verbo rivoluzionario in attesa dell’ora X. Nessuno pensava di dover preparare la rivoluzione. (Lenin ci pensava molto di più, ma perché veniva dal populismo, mai dimentico del fratello terrorista antizarista Alexander impiccato, e soprattutto perché in Russia i rivoluzionari, e anche i riformisti, da sempre dovevano operare in clandestinità, e ciò faceva loro interiorizzare stili di vita cospirativi e antisistema che in Europa invece decrescevano per la stessa avanzata del capitalismo, della democrazia e, in essi, pure del movimento operaio).

Materialismo marxista e impersonalismo storico

Non solo i socialisti “marxisti” – a lungo tutti tali ufficialmente salvo che in Inghilterra, dove i laburisti avevano un materialismo socialista loro – erano materialisti nel senso già detto. Erano pure connotati – come già Hegel, ma nel loro caso in un quadro di materialismo economico – da un forte impersonalismo storico. La Storia era ed è intesa, in tale ambito, come un tutto-tutti in cammino, e che per ciò si fa da sé; e il ruolo della personalità nella storia o è ritenuto secondario o è qualcosa che arriverebbe da sé a tempo debito. Engels – poi ripreso dal fondatore del marxismo russo (iper-materialista e determinista, poi menscevico, ma maestro filosofico di Lenin e di tutto il marxismo sovietico), Plechanov, in un famoso piccolo libro sulla funzione della personalità nella storia diceva che questi famosi capi quando il contesto storico li richiedesse erano sempre venuti fuori.[18] Ma quest’attitudine a considerare molto relativo il ruolo del capo nella storia è andata ben al di là del materialismo positivista. Come nel Nord Europa l’impronta protestante è rimasta anche quando tanti hanno smesso di credere in Dio, così l’impersonalismo storico, che non crede nella personalità nella storia, è durato nell’ex hegelismo e nell’ex marxismo. In certo modo tale attitudine si è sempre riproposta come una specie di archetipo della sinistra, per cui quando emerge un capo un po’ troppo “forte”, nella sinistra anche solo derivata lontanamente da tali matrici si fa di tutto per “farlo fuori”. A tutti i livelli. Senza capire che se è vero che il capo da solo non conta niente di niente (perché senza masse – o convinte o “persuase” – il capo è irrilevante), l’avere o non avere buoni capi, e favorirne l’emergere, è una necessità imprescindibile di tutte le parti in lotta, tanto più dopo l’irruzione delle grandi masse nella storia (in senso lato dal 1789, e in senso stretto dalla prima guerra mondiale, quando le vere e proprie masse popolari furono gettate nella prima linea della storia, in guerra, e per molti anni, il che le portò poi a non accettare più un ruolo irrilevante nella società, tanto che persino le grandi dittature hanno bisogno, in tali aree, di un consenso magari minoritario, ma comunque di grandi masse pronte a lottare e persino a morire per il regime che credano “loro”). Il socialismo è rimasto materialista dialettico e impersonalista, persino quando non sa neanche più di esserlo un giorno diventato.

Idealismo e Materialismo alla luce dei risultati della storia

Ora, sarà un caso, ma tale socialismo ha sempre preso un sacco di legnate. Quando non è accaduto, essendo esso riformista, è diventato intrasistemico, e addirittura avanguardia nello sviluppo del capitalismo. Può anche esser stato “un bene” (in mancanza di meglio), ma il capitalismo è rimasto sempre lì. Magari sarà stato e sarà necessario, ma non è stato e non è “il socialismo”, ossia il post-capitalismo solidale che si darebbe voluto o vorrebbe.

I repubblicani e radicali dileggiati da Marx come cattivi epigoni dei giacobini, girondini o altro hanno spesso preso il potere, in tutto il secolo XIX. Gli spiritualisti, neospiritualisti e idealisti hanno fatto l’Italia. Intanto vi ha molto contribuito Mazzini, un idealista spiritualista, profondamente neoreligioso oltre che rivoluzionario, attraverso un’elaborazione e organizzazione continue, secondo Della Peruta tale da aver realizzato il primo partito italiano con migliaia di aderenti ancor prima del 1848[19]. Nessuno turbò i sonni di Metternich più di lui prima del 1848. Ma fu operoso e riflettente sino alla fine. E senza di lui Garibaldi, che pure per fare l’Italia, si conciliò con Vittorio Emanele II, sarebbe impensabile. Pure Garibaldi, massone come pochi, non era certo un materialista. Anche la Repubblica romana del 1849, di cui Mazzini fu un protagonista, fu una cosa grande (e ingiustamente dimenticata), liquidata solo dai soldati francesi, mandati da un ministro degli esteri francese che si chiamava Tocqueville (il più grande liberale del XIX secolo). E tutto l’ambiente piemontese aveva una matrice cattolica, sia pure cattolico liberale, come del resto lo era il più grande scrittore italiano del XIX secolo, Alessandro Manzoni. Il Risorgimento era pure molto segnato dall’idealismo hegeliano, importantissimo per Francesco De Sanctis, ma anche per la “destra storica” erede di Cavour, sol che si pensi a Silvio e soprattutto a Bertrando Spaventa. Più complesso è il problema Cattaneo. Tra le persone di rilievo dell’epoca risorgimentale può esser detto materialista in senso forte solo Giuseppe Ferrari. Forse lo era anche Pisacane, ma si è visto con quale risultato, purtroppo. Può pure esser detto materialista – anzi uno dei più grandi del suo secolo, Leopardi – anche se la sua ansia d’infinito è ben nota. Ma chi da un punto di vista socioculturale abbia contato di più nell’eletta schiera di quelli che hanno “fatto l’Italia”, è ben chiaro. [20]

Qual è stata invece la sorte dei materialisti rivoluzionari marxisti e affini (non certo sconfitti in quanto materialisti tout court o economici, ma non certo aiutati dall’esserlo stati)?

I socialisti e proletari che tendessero a fare un nuovo sistema sociale e un nuovo Stato hanno collezionato disfatte: come nel 1848 in Francia o, sempre lì, la Comune di Parigi, con i suoi ventimila morti, nel 1871. (A mio parere lo stesso stalinismo è stato una rivoluzione dentro e contro la rivoluzione). Marx e poi i suoi epigoni sono stati straordinariamente bravi a trasformare in epopea, che tanti di noi hanno avuto nella mente e nel cuore per diversi decenni, le disfatte del proletariato (dai due libri di Marx del 1850/1852 ai suoi indirizzi sulla Comune)[21]. E poi si è seguitato a farlo dopo la “degenerazione” burocratico autoritaria del socialcomunismo, iniziata nel 1925, o forse già nel 1921, e risultata “sistemica”. Queste disfatte ci furono, o subito o ben presto. Ma al tempo di Marx e Engels da un lato “potevano” benissimo essere considerate disfatte contingenti, di un movimento socialista e proletario in fondo nascente (va riconosciuto pienamente); e dall’altro potevano essere considerate come disfatte che non avevano niente a che fare con la cultura materialista positivista di cui si è detto, presente nei socialisti rivoluzionari come riformisti. (Naturalmente parlando di tendenze epocali, tutte le datazioni sono approssimative). Infatti l’orientamento culturale – positivista persino quando la borghesia aveva ripudiato il positivismo – in un’epoca di massificazione, ma di miseria collettiva, aveva un valore relativo. La situazione sociale disperata bastava ad alimentare la volontà di riscatto. Sino alla Grande Guerra, più o meno compresa, il socialismo – inoltre – ebbe proprio il carattere fondamentale che Marx e Engels gli avevano attribuito sin dal Manifesto del 1848: quello di essere l’espressione diretta del proletariato nella storia: un mondo, il suo movimento politico[22], a lungo per nulla distinto dal movimento sindacale, tanto da coincidere con esso, come al tempo della Prima Internazionale, in cui non c’era ancora la separazione ben nota a fine secolo, o da allora, tra piano sindacale e politico[23]; oppure strettamente collegato da un patto di azione comune tra sindacato operaio e partito socialista, come in Italia (poi ereditato sino al 1968, nella CGIL, anche dal Partito Comunista, prima dell’”autonomia sindacale”, dal PCI accolta – dopo Togliatti – solo per fare l’unità sindacale, almeno nei fatti). Ciò faceva sì che il socialismo, sino alla Grande Guerra, fosse sì un mondo con i suoi conflitti interni, mai mancati, ma in sostanza una vasta comunità di lavoratori in espansione. Oltre a tutto la grande povertà delle masse rurali come pure urbane rendeva la faccenda degli orientamenti culturali interni non decisiva; il vivere in grandi quartieri di povera gente, già istintivamente solidale, accomunava quel socialismo in modo a mio parere assolutamente nobile e straordinario.

Ma alcune cose veramente decisive, in area radicale e socialista, avevano preso ad accadere più o meno dal 1898 in poi in tutta l’Europa. Il movimento operaio progrediva, mentre economia capitalistica e garanzie liberali si rafforzavano. Da un lato iniziavano i processi di integrazione del movimento operaio “nel sistema” e dall’altro prendeva a soffiare, specie dal 1911 in poi, il gelido vento di guerra poi diventato zunami, con stragi di massa sin lì mai viste dall’agosto del 1914 in poi.

Tra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo cominciava il riformismo socialista, letteralmente intriso di positivismo materialistico. Zola in Francia aveva scatenato una lotta culturale politica sacrosanta contro la destra antisemita, pronta a colpevolizzare l’ufficiale francese ebreo Dreyfus con false accuse di spionaggio, nel tentativo – da parte di tale destra – di promuovere un movimento di massa nazionalistico e tendenzialmente autoritario, sognando la grande revanche contro la Germania, che aveva sconfitto la “Grande Nation” nel 1870. Sull’onda della sconfitta della destra xenofoba e revanscista nel 1898 si formò il governo radicale-socialista di Millerand, pur disapprovato da tanta parte del socialismo europeo, democratico ma ancora “rivoluzionario”. Intanto il tedesco Eduard Bernstein nel 1899 pubblicava un libro materialista positivista, ma in senso riformista, sui presupposti del socialismo e i compiti della socialdemocrazia: opera che contestava l’idea marxiana che il capitalismo fosse un sistema morituro, soggetto a crisi economiche sempre più gravi, ritenute annuncio certo di rivoluzione sociale: laddove il capitalismo appariva sempre in espansione, e tale da sviluppare una democrazia liberale sempre più solida, sicché – come ho già ricordato – per Bernstein, il “fine” del socialismo – il collettivismo, il potere operaio, e più di tutto la società senza classi – sarebbe stato “nulla”, e il “movimento” – i progressi dei lavoratori al di là del nebuloso obiettivo collettivista, ormai detto utopistico – sarebbe stato da ritenere “tutto”.[24] Era l’idea del progresso continuo, nel capitalismo e nella democrazia. In tale idea si riconosceva – anche se spesso tra molti distinguo – solo il riformismo socialista, che nei grandi paesi europei era quasi sempre in minoranza (anche se in Italia fu egemone, a parte alcuni momenti, dal 1898 al 1912, ma sempre molto contestato all’interno, letteralmente da mezzo partito).

Ma nel socialismo europeo anche quelli che non erano riformisti, erano – essi pure – positivisti materialisti. Essi nella pratica si comportavano in modo identico ai riformisti, anche se ritenevano – con una sorta di doppia verità tra prassi riformista e teoria “rivoluzionaria” – che si trattasse di una fase provvisoria, cui sarebbe “poi” seguita la grande o catastrofica crisi del capitalismo, e la relativa rivoluzione proletaria, ritenuta appunto un che di fatale, e che potendo venire solo dalle “cose” non sarebbe stata da preparare, ma da attendere. Il meccanismo stesso dell’economia l’avrebbe prodotta, pensavano, ad esempio in Italia, i socialisti “intransigenti”, poi detti massimalisti, egemoni nel PSI dal 1912 al 1922. Ma lo pensavano pure i massimi capi e teorici del socialismo germanico e russo, Kautsky e Lenin compresi (con la differenza che Lenin e i suoi non vedevano l’ora di fare la rivoluzione, e la preparavano, avendo ancora tra i piedi un’autocrazia reazionaria, come lo zarismo). Erano, insomma, tutti materialisti positivisti, fossero riformisti o pretesi rivoluzionari. Si opponevano tutti a quella che oggi chiamiamo reazione al positivismo: reazione che si poteva vedere bene anche nel convenzionalismo scientifico, o empiriocriticismo, di Mach e Avenarius (combattuto da Lenin nel 1909 in Materialismo e empiriocriticismo)[25]; credevano tutti che il marxismo fosse un socialismo “scientifico” (portasse esso, “necessariamente”, ad una pacifica evoluzione, come per i riformisti, o ad una redentiva catastrofe rivoluzionaria come pensavano i “rivoluzionari”).

Materialismo economico e cultura nell’epoca della reazione al positivismo

Questo contesto culturalmente materialistico a tutto campo produsse poi diversi inconvenienti. Uno attiene a quello che Jung chiamerebbe “spirito del tempo” (da lui contrapposto a quello “del profondo”, “di specie”, inconscio collettivo[26]: il che, però, “qui” non m’interessa).

Ora negli anni Ottanta-Novanta del XIX secolo si afferma, nella cultura, un orientamento che è stato chiamato “reazione al positivismo”, che non saprei dire se sia mai veramente finito o se si sia solo trasformato in seguito, durando sino ad oggi (come propendo a credere). Al proposito ho già detto del bergsonismo, tra fine del XIX secolo e primo trentennio del XX secolo, che della “reazione al positivismo” fu parte imprescindibile.

Il “nuovo” orientamento non era prevalentemente il frutto di una reazione irrazionalistica e imperialistica all’avanzata “razionale”, democratica e rivoluzionaria del proletariato da parte della canea borghese e capitalistica, come sosterrà Lukàcs nell’ultimo scorcio dello stalinismo (un Lukàcs che pure era stato, al pari di Thomas Mann, un esponente della reazione al positivismo)[27]: era pure il frutto necessario – che poteva essere benefico o malefico a seconda di chi e come l’interpretasse – della rivolta contro il conformismo, contro la caduta degli ideali, contro la piattezza, contro la corruzione, contro la vuotaggine, e contro i processi d’imborghesimento maturati nel trentennio anteriore al 1914, sia pure insieme a tanti progressi (un poco come per noi europei occidentali, e soprattutto “italiani”, di oggi).

Ciò posto va notato che la cultura materialista scientista – fosse o sia essa materialista positivista, marxista “oggettivista”[28], o neopositivista o filosofico analitica o altro – nella storia socioculturale dalla fine del XIX secolo è rimasta molto minoritaria. Non dico, per ora, se ciò sia stato “giusto” o “sbagliato” (per ora lo constato, ma in seguito vi tornerò su un piano filosofico). La mia impressione è che la reazione al positivismo, messa in ombra e travolta nel 1945 (perché pur senza essere di per sé fascista, era piaciuta ai fascismi quantomeno “nascenti”, e inoltre era stata molto spesso criminalizzata, o comunque ritenuta in gran sospetto, dai “marxisti” tanto rivoluzionari quanto riformisti), sia tornata ben presto maggioritaria dagli anni Settanta del secolo scorso in poi. (Per fortuna dal Sessantotto, almeno nell’area angloamericana, che ora mi pare la sola “viva”, nella forma erotizzante, ecologista e pacifista, invece che bellicista e autoritaria, almeno per diversi aspetti). Si capisce che qui la faccenda del rapporto tra cultura della “reazione al positivismo” e storia c’interessa non in termini di archeologia culturale, o anche di storia di certe correnti, ma anche e soprattutto socioculturali: come un orientamento che finisce per permeare, in profondità, quelli che gli illuministi – lo si è visto – chiamavano honnêtes hommes, e che anche più oltre potremmo identificare con quelli che leggono e discutono tutti i giorni di politica e cultura, con quelli che persino involontariamente danno l’orientamento a tanti altri, con quelli che sono ceto politico e culturale, e che se volessimo adottare categorie marxiste dovremmo dire fiorenti “in tutte le classi in lotta”. Queste tendenze culturali sono trasversali: il che non vuol dire che siano identiche tra loro (a destra, a sinistra o al centro, “per così dire”), ma che sono corrispondenti, simmetriche, anche quando siano reciprocamente ostili. Voltaire e Rousseau erano opposti, come pure Burke e Rousseau, ma qualcosa li legava, come poteva legare Federico di Prussia e Caterina di Russia, e così via. Allo stesso modo, nel Romanticismo, Hegel e Novalis, come il realista e “l’anima bella”, possono essere reciprocamente l’opposto l’uno dell’altro, ma c’è un quid “romantico” che li lega. E così Leopardi e Manzoni. E così via. Questo è importante da capire perché ha grandi conseguenze politiche.

Ora il socialismo di ogni tendenza – salvo una minuscola minoranza contestatrice – dal 1848 agli anni Venti del Novecento è stato prevalentemente di cultura materialista e positivista. Ha pure seguitato ad esserlo dagli anni Novanta del XIX secolo in poi, nell’età della reazione al positivismo. Ma con quali conseguenze?

La cultura andava da un’altra parte rispetto al positivismo, materialista ed evoluzionista. Era il tempo del volontarismo e vitalismo “irrazionale” di Schopenhauer (risalente al 1819, ma riscoperto dagli anni Sessanta a fine secolo XIX)[29] e soprattutto di Nietzsche (a lui coevo), del neospiritualismo di Bergson (di cui si è detto) e del pragmatismo aperto al mistero religioso di William James, e del notevole neoidealismo di Croce e soprattutto di Gentile. Anche quelli che avevano un forte impianto scientifico, vedevano l’irrazionale come motivazione forte dell’agire umano, come nella psicoanalisi di Freud e, con più forte affinità tanto col vitalismo (di Schopenhauer e ancor più di Nietzsche) quanto col neospiritualismo (di Bergson e James), di Jung. Ma pure l’elitismo sociologizzante di Vilfredo Pareto, che sorgeva su un humus positivista, in realtà mirava a dimostrare sul piano collettivo quel che Freud aveva mostrato sul piano individuale (come ha spiegato Norberto Bobbio)[30]: che le motivazioni dell’azione collettiva erano di tipo irrazionale, legate a quel che emergeva da un fondo oscuro della mente collettiva, da pulsioni antropologiche arcaiche chiamate “residui”, mascherate da ideologie post rem, giustificatrici del proprio “diritto al potere”, dette da Pareto “derivazioni”. Il giovane maestro diciannovenne Mussolini, emigrato a Losanna intorno al 1902, ascoltava Pareto, di cui pare frequentasse pure talora la casa, e con cui fu in contatto pure nel 1921-1922[31].

In quell’epoca culturale il decadentismo e il simbolismo dominavano l’arte. Anche la poesia metteva al centro il mistero, l’irrazionale, in Italia con Pascoli, ma “pure” – come in D’Annunzio – l’eroico, che però nella temperie epocale era più connesso agli stati d’animo eccitati che provocava che a ideali collettivi veri. L’entusiasmo, l’eccitazione, la sensazione, l’eros, da sottoprodotti dell’azione ne diventavano il fine. Persino i romanzi e soprattutto le maggiori commedie di Luigi Pirandello stavano in questa temperie, tanto che il giovane Pirandello aveva ben assimilato la fenomenologia in Germania, e aveva un pensiero imbevuto di soggettivismo e relativismo[32].

Ora il socialismo, specie in Italia, restò estraneo a tutto quest’humus culturale, a ragione o torto condiviso dalla gioventù più inquieta dell’epoca. Anche questo sarà un elemento della sconfitta del socialismo-comunismo (bordighista) dopo la Grande Guerra: elemento da non esagerare quanto ad importanza, essendocene stati altri ugualmente importanti o forse più importanti (economico-sociali e – per me ancora di più – istituzionali[33]), ma comunque “di rilievo”. Anche per cambiare il mondo, infatti, “bisogna sognare”[34]; bisogna avere alti fini, idee razionali ma, insieme, miti redentivi; sentire l’istanza di cambiare il mondo con una sorta di idea e sentimento di tipo “religioso”, parareligioso o pseudoreligioso. Vale in senso rivoluzionario, ma pure per un riformismo “forte”, diverso da quello ricorrente del cambiare tutto perché tutto resti come prima. Il “realismo” da quattro soldi ci uccide (in tutta l’età contemporanea). Bisogna saper pensare in modo teleologico, e questo senza un approccio fortemente idealistico, e forse persino neospiritualistico, di cui per ora non affronto la fondatezza o infondatezza, a quel che opino non si può fare. Pensare di riuscirci senza tale humus è una pia illusione. Questo a me pare vero (almeno in Occidente).

Persino la famosa scritta del combattente volontario della Grande Guerra “È meglio vivere un giorno da leoni che cento da pecora” sta in tale humus di “reazione al positivismo”. Ci può piacere o dispiacere, anche moltissimo, ma storicamente secondo me è andata così. Quello è stato almeno uno degli aspetti fondamentali della storia. Si può pure dire – invece di quel motto da “ammazzasette” – “Non di solo pane vive l’uomo”, e io preferisco cento volte il motto evangelico or ora richiamato; ma so pure che il ricordo del pane dell’anima è la versione di tipo interiore di chi senta che dobbiamo, idealisticamente e spiritualmente, infinitizzare la nostra vita, percepire continuativamente almeno un’allure di tal genere. La frase evangelica è molto migliore della precedente “guerriera”, ma c’è un filo di rifiuto, da parte dei due autori opposti, di un vile tran tran, in cui si vende tutto un tanto al chilo, e così fan quasi tutti, che è stigmatizzato con parole di fuoco anche nell’Apocalisse di Giovanni[35], e che è da comprendere. Non averlo capito, come forze del cambiamento, nell’Occidente del primo dopoguerra è stato fatale tanto all’area socialista cosiddetta riformista che all’area cosiddetta rivoluzionaria. La cultura del materialismo in termini di storia sociale risultò sterile.

(Segue)

di Franco Livorsi

  1. F. DOSTOEVSKI, L’idiota (1869), a cura di G. Pacini, Feltrinelli, 1998; I fratelli Karamazov (1879/1880), Biblioteca Universale Rizzoli, Milano, 1998. Si confronti soprattutto con: L. PAREYSON, Dostoevskij. Filosofia, romanzo ed esperienza religiosa, Einaudi, Torino, 1993. Si veda pure: F. LIVORSI, Archetipi del padre in “I fratelli Karamazov” di Dostoevskij, in: AA,VV., “Il Padre. Parola, Silenzio, Trasformazione.” Atti dell’XI Convegno nazionale del Centro Italiano di Psicologia Analitica, a cura di R. Andreoli e altri, Vivarium, Milano, 2003, pp. 45-72; Fine del materialismo, “Critica Sociale”, gennaio-febbraio 1992, pp. 22-25.
  2. Questa, del resto, in me è storia vecchia, per la cui genesi rinvio ai seguenti miei testi: F. LIVORSI, Note su struttura e sovrastrutture, “Il pensiero politico”, a. XIX, n. 3, 1987, pp. 395-400, da me ripreso in forma di Tesi su struttura e sovrastrutture, nel mio: Stato e libertà, Questioni di storia del pensiero politico, Tirrenia Stampatori, Torino, 1992, pp. 303-308; La critica marxista della civiltà capitalistica e il superamento del materialismo storico, in: Coscienza e politica nella storia. Le motivazioni dell’azione collettiva nel pensiero politico contemporaneo, Giappichelli, Torino, 2003, pp. 253-274
  3. C. DARWIN, L’origine delle specie (1859), a cura di G. Montalenti, Bollati Boringhieri, Torino, 1977.
  4. Pel le pur opinabili argomentazioni sul cosmo frutto di un “disegno intelligente” (di Dio), si vedano: P. DAVIES, La mente di Dio. Il senso della nostra vita nell’universo (1992), Mondadori-De Agostini, Milano, 1995; G. V. COYNE, Interrogativi religiosi sulla cosmologia moderna, “Civiltà Cattolica”, n. 1, 1998, pp. 142-151.
  5. MATTEO, 12 – 14.
  6. Di Herbert SPENCER, al proposito, si vedano soprattutto: Principi di sociologia (1876/1896), Rinfreschi, Padova, 1922. Ma per il liberismo di cui si è detto si veda il suo: L’uomo contro lo Stato (ma il titolo vero era “L’uomo e lo Stato”) (1884), Liberilibri, Macerata, 2016.Per darwinismo e socialismo si veda: K KAUTSKY, Etica e concezione materialistica della storia (1918), Feltrinelli, Milano, 1975.
  7. I teorici della storia incentrata sulla forma Stato “forte” e sulla lotta degli Stati per la potenza, nel secondo caso cogliendone anche la tragicità, sono stati soprattutto due: H. von TREITSCHKE, La politica, Laterza, Bari, 1918, quattro voll.; F. MEINECKE, L’idea della ragion di Stato nella storia moderna (1924), Vallecchi, Firenze, 1944; La catastrofe della Germania. Considerazioni e ricordi (1946), La Nuova Italia, Firenze, 1948; Pagine di storiografia e filosofia della storia, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli, 1984. Ma si vedano in proposito: S. PISTONE, Federico Meinecke e la crisi dello Stato nazionale tedesco, Giappichelli, Torino, 1969; Politica di potenza e imperialismo. L’analisi dell’imperialismo alla luce della dottrina della ragion di Stato, Angeli, Milano, 1973; L. LEVI, Crisi dello Stato e governo del modo, Giappichelli, 2005.
  8. La miglior raccolta di saggi di Carl SCHMITT, tra cui quello del 1932 che dà il titolo al volume, è: Le categorie del politico: saggi di teoria politica, a cura di G. Miglio e P. Schiera, Il Mulino, Bologna, 1972. Ma si veda pure: Principi politici del nazionalsocialismo, a cura di Delio Cantimori, Sansoni, Firenze, 1935. Ma si veda pure: Teoria del partigiano. Note complementari al concetto di politico (1963), Il Saggiatore, Milano, 1981. L’opera considerata da molti fondamentale è: Il nomos della terra: nel diritto internazionale dello jus publicum europaeum (1950), Adelphi, Milano, 2006. Su di lui sono da vedere: P. P. PORTINARO, La crisi dello jus publicum europaeum: saggio su Carl Schmitt, Comunità, Milano, 1982, e soprattutto, per vastità e profondità, Genealogia della politica. Carl Schmitt e la crisi del pensiero politico moderno, Il Mulino, 1996.
  9. H. BERGSON, L’evoluzione creatrice (1907), a cura di F. Polidori, Cortina, Milano, 2002; Le due fonti della morale e della religione (1932), a cura di A. Pessina, Laterza, 1995. Si confronti con: P. TEILHARD DE CHARDIN, Il fenomeno umano (1938/1940), Queriniana, Brescia, 2008; Il cuore della materia (1976, postumo), Queriniana, 1993.Su un terreno liberalsocialista e neoreligioso, con apporti che vanno da Mazzini all’attualismo ripreso in senso antifascista, a Bergson e soprattutto a Gandhi: A. CAPITINI, Elementi di un’esperienza religiosa, Laterza, 1937 (e Cappelli, Bologna, 1990); Nuova socialità e riforma religiosa, Einaudi, Torino, 1960; La compresenza dei morti e dei viventi, Il Saggiatore, Milano, 1966; Religione aperta, a cura di M. Martini, Laterza, 2011.
  10. G. PONTARA, “La nuova barbarie: tendenze naziste oggi”, in: L’antibarbarie. La concezione etico-politica di Gandhi e il XXI secolo, Gruppo Abele, Torino, 2006.
  11. Il nesso tra evoluzionismo biologico “darwinista” e razzismo è continuamente ribadito, come suo evidente filo “nero”, in A. HITLER, come emerge in Mein Kampf (1925), a cura e con introduzione di Giorgio Galli, Kaos, Milano, 2002. Si veda pure: F. LIVORSI, Note politiche e psicoanalitiche sul razzismo, “Thelema. La psicanalisi e i suoi intorni”, Milano, n. 6, 1995, pp. 57-105; Ma il darwinismo sociale, considerato in tal caso come un evoluzionismo naturale che porta, per gradi necessari, come le leggi della natura, al socialismo, in età positivistica è stato ben presente anche a sinistra, come in: K. KAUTSKY, Etica e concezione materialistica della storia (1906), Feltrinelli, 1958.
  12. S. FREUD, Il disagio della civiltà (1929), in “Opere”, a cura di C. Musatti, Bollati Boringhieri, Torino, 1978, vol. 10, pp. 553-630.
  13. Le maggiori opere del marxismo sul capitalismo sono incentrate sulle crisi che possano determinare la sua fine o comunque le condizioni per cui avvenga, da K. MARX, Il capitale, I (1867), Editori Riuniti, 1962, a: R. HILFERDING, Il capitale finanziario (1910), Mimesis, Milano, 2011; R. LUXEMBURG, L’accumulazione del capitale (1913), Einaudi, 1960; LENIN, L’imperialismo fase suprema del capitalismo (1916, ma 1917), in “Opere complete”, Editori Riuniti, 1966, vol. 22, pp. 187-303 e altre.
  14. Riferimento alla famosa lettera di F. Engels a Joseph Bloch del 21 settembre 1890 sulla dipendenza della sovrastruttura dalla struttura “soltanto in ultima istanza”, da vedere in: K. MARX – F. ENGELS, “Opere scelte”, a cura di L. Gruppi, Editori Riuniti, 1966, pp. 1242-1244.
  15. C. G. JUNG, in Tipi psicologici (1921), in “Opere”, VI, Bollati Boringhieri, Torino, 1981, p. 47, al proposito osservava: “Non vi è quindi da stupirsi che sia stata proprio la filosofia dei proletari ad adottare il principio dell’inerenza” del soggetto all’oggetto, “Dovunque sussistano motivi atti a far sì che prevalga il sentimento individuale, il pensiero e il sentimento depauperati d’energia positivo-costruttrice (che viene utilizzata interamente a vantaggio individuale) divengono per forza negativo-critici: ogni cosa è analizzata e ridotta al particolare concreto. La molteplicità caotica di cose singole che ne risulta viene nel migliore dei casi sottoposta a una generica unità universale nella quale traspare, più o meno evidente, il carattere di desiderio.” Per il riferimento alla novella, si veda: L. PIRANDELLO, Ciaula scopre la luna, “Il Corriere della Sera”, 29 dicembre 1912, poi in: Novelle per un anno, con Prefazione di C. Alvaro, Mondadori, Milano, 1965.
  16. F. ENGELS, Antidühring (1878), Rinascita, 1956; Dialettica della natura (1883), Rinascita, 1956.
  17. L. ALTHUSSER – E. BALIBAR, Leggere il Capitale (1965), Feltrinelli, 1971; A. BORDIGA, Il corso storico del capitalismo mondiale nell’esperienza storica e nella dottrina di Marx, “Il programma comunista” (numeri dal 13 agosto 1957 al 28 aprile i959) e in vol. Edizioni del Partito Comunista (i “testi della sinistra comunista”, Firenze, 1991. Si vedano pure: F. LIVORSI, Bordiga, Il pensiero e l’azione politica. 1912-1970, Editori Riuniti, pp. 426-444; Scienza e politica in Amadeo Bordiga. La critica dell’opportunismo, il settarismo e il determinismo, “Il Risorgimento”, Milano, a. LVII, 2005, n. 2/3, pp. 263-302.
  18. A proposito della questione della personalità nella storia si vedano le Lettere sul materialismo storico di F. ENGELS, del 1890/1894 in: K. MARX – F. ENGELS, “Opere scelte”, a cura di L. Gruppi, Editori Riuniti, 1966, pp. 1239-1254. Lì Engels, nella lettera a Heinz Starkenburg del 25 gennaio 1894, notava: “Qui è il momento di trattare la questione dei cosiddetti grandi uomini. Il fatto che il tale uomo, e precisamente egli, sia sorto in quel momento determinato, in quel determinato paese, è naturalmente dovuto al puro caso. Ma sopprimiamo quest’uomo, e vi sarà domanda d’un succedaneo; e questo succedaneo si troverà bene o male, ma a lungo andare si troverà. Che proprio Napolene, questo corso, sia stato il dittatore, reso necessario dal fatto che la Repubblica francese era stremata dalle proprie guerre, è stato un caso, ma che, in assenza d’un Napoleone, un altro ne avrebbe preso il posto, è provato dal fatto che ogni volta ch’è stato necessario un uomo sempre lo si è trovato: Cesare, Augusto, Cromwell, ecc.” (p. 1253). Si confronti con l’analoga, ma più argomentata, trattazione di G. PLECHANOV , La funzione della personalità nella storia (1899), Rinascita, 1956. Molto interessanti, nell’ambito dello stesso “impersonalismo storico”, sono gli scritti di A. Bordiga Il battilocchio nella storia, “il programma comunista”, n. 7, 3/17 aprile 1953 e Superuomo, ammosciati!, ivi, n. 8, 16/30 aprile 1953. Per la risoluzione di tutti i complessi problemi di attribuzione dei testi di Bordiga è ora fondamentale: Amadeo Bordiga. 1889-1970: Bibliografia, a cura di A. PEREGALLI e S. SAGGIORO, Colibrì, Paderno Dugnano (Milano), 1995.
  19. G. MAZZINI, “Scritti scelti”, a cura di G. Santonastaso, Morano, Napoli, 1974; “Scritti politici”, a cura di T. Grandi e A. Comba, UTET, Torino, 1972. Ma si vedano, per i riferimenti: G. GENTILE, I profeti del Risorgimento italiano. (Mazzini e Gioberti), Vallecchi, Firenze, 1923 e poi 1944, ora Le Lettere, ivi, 2004; E. MORELLI, Mazzini: quasi una biografia, Edizioni dell’Ateneo, Roma, 1984; S. MASTELLONE, La democrazia etica di Mazzini (1837-1847), Archivio Izzi, Roma, 2000; R. SARTI, Giuseppe Mazzini. La politica come religione civile, Laterza, Roma-Bari, 2000; I. BONOMI, Mazzini, triumviro della Repubblica romana, Einaudi, Torino, 1936; F. DELLA PERUTA, Mazzini e i democratici, Ricciardi, Napoli, 1969; L’Italia del Risorgimento. Problemi, momenti e figure, Angeli, Milano, 1997. Si veda pure: F. LIVORSI, Il pensiero politico e religioso di Giuseppe Mazzini, in: L. M. BASSANI – S, B. GALLI – F. LIVORSI, “Da Platone a Rawls. Lineamenti di storia del pensiero politico, Giappichelli”, Torino, 2012, pp. 315-328. Ma si vedano pure: F. LIVORSI, République et types de représentation dans la théorie politique de Giuseppe Mazzini, in: AA.VV., “Le concept de représentation dans la pensée politique. Actes du colloque d’Aix-en-Provence, Presses Universitaires de Marseille, 2003, pp. 341-359; Introduzione e Libertà e Stato nel 1848-’49 europeo. Note e riflessioni, in: E. A. ALBERTONI et Al., “Libertà e Stato nel 1848-49. Idee politiche e costituzionali”, Giuffrè, Milano, 2001, pp. 1-22 e 23-56.
  20. W. MATURI, Interpretazioni del Risorgimento. Lezioni di storia della storiografia, Einaudi, 1962 (e poi 1969)..
  21. K. MARX, Le lotte di classe in Francia dal 1848 al 1850, a cura di G. Giorgetti, Editori Riuniti, 1962; Il 18 Brumaio di Luigi Bonaparte (1852), ivi, 1963; La guerra civile in Francia (1871), a cura di F. Engels, Rinascita, 1956.
  22. K. MARX – F. ENGELS, Manifesto del partito comunista (1848), a cura di E. Cantimori Mezzomonti. Einaudi, 1962.
  23. A. ARRU, Classe e partito nella Prima Internazionale. Il dibattito sull’organizzazione fra Marx, Bakunin e Blanqui (1871-1872), De Donato, Bari, 1972, dimostra tra l’altro quanto fosse aperta l’organizzazione dell’Internazionale, basata su adesioni prevalentemente collettive (ad esempio maestranze in sciopero che vi aderivano), senza alcuna separazione tra il piano sindacale e politico.
  24. E. BERNESTEIN, I presupposti del socialismo e i compiti della socialdemocrazia (1899), cit.
  25. LENIN, Materialismo e empiriocriticismo (1909), cit.
  26. C. G. JUNG, Il libro rosso. Liber novus (1913/1928, con breve poscritto del 1958, ma 2009), a cura e con Introduzione di S. Shamdasani, Bollati Boringhieri, 2010.
  27. G. LUKÀCS, La distruzione della ragione (1954), Einaudi, 1959. Era pure, con approccio quasi opposto, “irrazionalista”, l’autore di: L’anima e le forme (1911), Sugar, Milano, 1963; Teoria del romanzo (1916, ma 1920), ivi, 1975.
  28. Per il marxismo di tipo fortemente materialista oggettivista si vedano: G. A. WETTER, Il materialismo dialettico sovietico, Einaudi, 1948; L. GEYMONAT, Del marxismo, Saggi sulla scienza e il materialismo dialettico, Bertani, Ancona, 1987; Scienza e realismo, Feltrinelli, 1977; L. COLLETTI, Il marxismo e Hegel, Laterza, 1969; L. ALTHUSSER, Per Marx (1965), Editori Riuniti, 1972; con E. BALIBAR, Leggere il Capitale (1965), Feltrinelli, 1972; L. ALTHUSSER, Lenin e la filosofia (1969), Jaca Book, 1969, importante anche per il tema dell’impersonalismo storico.
  29. In tale epoca è significativa non solo l’influenza di Nietzsche, ma pure di Schopenhauer (filosofo contemporaneo di Hegel, ma a lungo oscuro, e riscoperto solo verso il 1870 e oltre), come si vede bene, ad esempio nel grande e ultimo protagonista del casato, in: T. MANN, I Buddenbrook. Decadenza di una famiglia (1900/1901), tr. di E. Pocar, Mondadori, 1952.
  30. H. STUART HIGHES, Coscienza e società. Storia delle idee in Europa dal 1890 al 1930 (1958), Einaudi, 1967. Si vedano inoltre: V. PARETO, Trattato di sociologia generale, Barbera, Firenze, 1916, ma poi, con Prefazione di N. Bobbio, Comunità, Milano, 1964; ma si confronti con: N. BOBBIO, Pareto e il sistema sociale, Sansoni, Firenze, 1973.
  31. Un rapporto e una buona conoscenza di Pareto si colgono nelle dichiarazioni di Mussolini al suo biografo, nell’importante libro: Y. DE BEGNAC, Taccuini Mussolini (1934/1943), a cura di F. Perfetti e con Prefazione di R. De Felice, Il Mulino, Bologna, 1990. Ad esempio a un certo punto Mussolini, criticando la visione liberale dell’homo economicus (risalente a Adam Smith), dice: “I liberali (…) fondavano tutta la loro dottrina, più che sulla libertà da tutelare dall’alto del loro governo, sull’esistenza di un solo tipo di cittadino della terra: l’uomo economico. I liberali, che pur avrebbero dovuto festeggiare di tanto in tanto san Vilfredo Pareto, dimenticavano che costui aveva dichiarato l’uomo economico uno dei possibili aspetti della persona, ponendogli accanto l’uomo etico, l’uomo religioso, l’uomo guerriero. E dell’uomo guerriero noi [fascisti] facevamo gran conto (p. 131).”
  32. In tale epoca è significativa non solo l’influenza di Nietzsche, ma pure di Schopenhauer, come si vede bene, ad esempio nel grande e ultimo protagonista del casato, in: T. MANN, I Buddenbrook. Decadenza di una famiglia (1900/1901), tr. di E. Pocar, Mondadori, 1952. Per la cultura dell’epoca in Occidente è fondamentale: H. STUART HUGHES, Coscienza e società. Storia delle idee in Europa dal 1890 al 1930 (1958), Einaudi, 1967. Per tutto quest’humus culturale in Italia si veda: C. SALINARI, Miti e coscienza del decadentismo italiano. D’Annunzio, Pascoli, Fogazzaro e Pirandello, Feltrinelli, 1960, e infine 1975.
  33. F. LIVORSI, Crisi di governabilità dello Stato liberale e avvento del fascismo. Note storiche e politologiche, in: UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI CATANIA, “Studi in onore di Enzo Sciacca”, a cura di F. Biondi Nalis, Giuffré, Milano, 2008, pp. 309-320.
  34. Scriveva LENIN nel suo Che fare? (1902), a cura di V. Strada, Einaudi, 1972, pp. 196-197: “Bisogna sognare! (…) Il contrasto tra sogno e realtà non arreca alcun danno, se chi sogna crede seriamente al suo sogno; se, guardando con attenzione la vita, confronta le sue osservazioni coi suoi castelli in aria; se, insomma, lavora coscientemente ad attuare la sua fantasia. Quando vi è un contatto tra il sogno e la vita, tutto va per il meglio. (…) Di sogni di questo genere disgraziatamente ce ne sono troppo pochi nel nostro movimento.” Come ciò potesse conciliarsi col persistente materialismo economico tendenzialmente deterministico di Lenin, di matrice engelsiana, kautskyana e soprattutto plechanoviana, è altro discorso (su cui già ho detto qualcosa). Nei coevi discorsi al congresso di Londra del 1903 del Partito Operaio Scocialista Democratico Russo, gruppo cui aderiva, e la cui sintesi è proposta felicemente da Strada in appendice alla stessa opera, Lenin ammetteva esplicitamente, nella cornice materialista economica cui si è accennato, l’operare di un “bacillo” – lo chiamava proprio così – di pura coscienza, che evidentemente era chiamato a bilanciare il determinismo economico della visione in cui pure fortemente si riconosceva.
  35. Sul “pane” dell’anima: MATTEO 14. 13-21. Per l’Apocalisse, di GIOVANNI, si veda il brano “Lettera a Laodicea”: “E all’angelo della chiesa di Laodicea, scrivi: ‘Così parla l’Amen, il Testimone fedele e verace, il Principio della creazione di Dio: conosco le tue opere; non sei freddo né caldo. Fossi tu freddo o caldo! Così, poiché sei tiepido, cioè né caldo né freddo, sto per vomitarti dalla mia bocca’.”(Cito da Apocalisse, con Introduzione di G. Manganelli e illustrato da A. Dürer, BUR-Rizzoli, Milano, 1973, p. 23. Sottolineatura mia).

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