Il virus antipopulista

È presto per dirlo. Ma forse, quando tireremo il bilancio di questo tsunami, accanto ai tanti morti da piangere ci sarà anche una vittoria da celebrare. Quella dei governi occidentali contro un virus – politicamente – forse ancora più pericoloso del Covid, il virus del populismo. Con l’attenzione mediatica – comprensibilmente – monopolizzata dalla pandemia, ci siamo dimenticati che, fino a meno di un anno fa, le democrazie stavano vacillando sotto l’attacco di un nemico tanto insidioso quanto inafferrabile: la rivolta populista contro le elite. Oggi, il vento è cambiato. Per tre fattori, proiettati sulla scena politica dallo stato d’eccezione in cui siamo precipitati.

Il primo è stato il ritorno del welfare come bussola dell’intervento governativo. Il declino dello «stato sociale» era stata la causa principale del progressivo allontanamento delle masse dai loro governanti. Il patto socialdemocratico – benessere in cambio di consenso – era stato alla base della centralità dei partiti nella seconda metà del Novecento, e quando la coperta della finanza pubblica era diventata troppo corta l’elettorato si era ribellato. Prima col neo-liberismo, poi con l’austerità, la dottrina dominante della globalizzazione era diventata un neo-darwinismo sociale, il cui risultato più palpabile era una crescita senza precedenti delle diseguaglianze. Siamo ben lontani dall’avere invertito questo trend, e non è purtroppo da escludere che il saldo finale della pandemia possa essere una sua accentuazione. Ma, per la prima volta dopo almeno trent’anni, gli stati hanno ripreso ad allentare i cordoni della spesa. Nell’America di Trump come nell’Europa a guida tedesca, le banche centrali hanno immesso liquidità incondizionata e sono stati varati piani di sussidi occupazionali e previdenziali di entità e ampiezza senza precedenti. Lo stato è tornato ad essere protagonista nella vita economica.

Accanto alla carota della spesa, gli esecutivi hanno fatto ricorso al bastone dell’ordine pubblico. Il lock-down generalizzato comminato per diversi mesi a gran parte della popolazione è stata una prova di forza e, al tempo stesso, di autorevolezza inaspettata. Guardando alla condizione di frammentazione e confusione cui sembravano ridotte gran parte delle nostre istituzioni, quanti si sarebbero attesa la prova di responsabile autodisciplina cui i cittadini si sono sottoposti per molte settimane di seguito? Si è trattato di una dimostrazione di fiducia nei confronti di chi quelle restrizioni aveva imposto. Una fiducia nei vertici politici e nel ruolo dello stato che ha ribaltato decenni di sondaggi – e di comportamenti – che andavano nella direzione opposta.

L’ultimo – e, forse, il più importante – fattore antipopulista è stato il ritorno della scienza nella cabina di regia del pianeta. Pur nello sgomento di una crisi epocale e globale, abbiamo guardato alla scienza come all’estremo baluardo con cui cercare di fermare il flagello. Lo abbiamo fatto al fianco dei medici che si sono battuti in prima linea, nei reiterati e spesso disperati tentativi di trovare rimedi che consentissero la guarigione, e infine in quella che si annuncia come la svolta nella guerra al virus, l’arrivo e la distribuzione dei vaccini con tempi straordinariamente rapidi. L’articolo di Maurizio Molinari, ieri su Repubblica, sintetizza in modo esemplare come si sia trattato di un evento di portata davvero storica. Frutto di una potentissima alleanza tra scienza e finanziamento pubblico. Un nuovo paradigma biotecnologico che ha soppiantato quello – più lento e farraginoso – che, nel corso degli ultimi due secoli, aveva presieduto alla scoperta e alla sperimentazione dei vaccini. Unitamente all’accelerazione dei trial, non più in sequenza ma in parallelo, grazie alla pressoché illimitata disponibilità economica delle aziende foraggiate dai governi.

La guerra contro la pandemia è ancora lunga. E questa crisi ha colpito al cuore l’illusione prometeica di essere al centro del pianeta e – al tempo stesso – liberi di auto-distruggerlo. Non sappiamo come ne usciremo. Ma il bilancio di quest’anno interminabile ci dice anche che il futuro c’è ancora. Uno stato più forte e benevolo, una scienza più autorevole e amica. E una democrazia che può uscire, da questa prova terribile, più vicina ai suoi cittadini.

di Mauro Calise.

(“Il Mattino”, 28 dicembre 2020).

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