La crisi generale e la sinistra: sinistra o socialismo?

Filtra, fino a raggiungere la nostra pigra provincia, lo stato dell’arte nei vari palazzi romani; il nervosismo sempre più impellente delle classi dirigenti confindustriali e politiche del nord leghista, di far rientrare l’intero paese, e questo governo, all’interno di linee di ristrutturazione economica già definite dall’alto. Si cerca, infatti, da parte della grande borghesia, che ormai domina incontrastata la grande editoria, di continuare a prosperare saccheggiando lo stato imponendogli la classica politica ‘del socialismo che salva i ricchi’, e facendo altresì ribaltare il costo di elevati indebitamenti pubblici sulle spalle delle classi lavoratrici nel loro complesso. Inoltre, si impone a questa debole e frastagliata compagine ministeriale il divieto assoluto di un rilancio, pur timido, della strategia dello ‘Stato imprenditore’, per la ripresa economica, che, secondo le direttive della associazione imprenditoriale guidata da Bonomi, dovrebbero darsi solo da investimenti pubblici negli appalti di opere più o meno strategiche e nella diminuzione della pressione fiscale al sistema aziendale. Sostanzialmente si sostiene, in un vasto schieramento di forze conservatrici rappresentate in parlamento e ancillari alla grande industria e al potere finanziario italiano, che la ripresa economica sarà data, quasi per miracolo, da un generale abbassamento del costo del lavoro, dell’indebitamento pubblico, della riduzione della burocrazia e delle tasse. Si aborrono, dunque, un ritorno al centralismo gestionale della sanità, un rilancio dello stato sociale e, come sopra richiamato, si condanna il ruolo dello stato nell’economia e nella definizione dell’indirizzo dell’investimento produttivo. Sarà il mercato, sostengono gli intellettuali e economisti liberali vicini alla grande industria, debitamente esso assistito dallo Stato quando occorre, a consentire un nuovo andamento economico e una uscita dalla crisi che graficamente può essere espresso in una curva che si sviluppa a V. Ad una grave discesa della produzione e dei consumi rappresentata dalla prima parte declinante della V, seguirebbe una seconda fase felicemente determinata da una crescita impetuosa capace di colmare i ritardi produttivi della precedente drammatica recessione. Ma come ha recentemente commentato l’economista Emiliano Brancaccio, in un suo intervento radio, tale teoria del rilancio economico ricorda semmai la ironica e sconsolata tesi del ‘rimbalzo del gatto morto’, ovvero, seguendo in maniera indefessa i meccanismi attuali e pre-crisi dell’economia liberale di mercato, non si otterrebbe nessun altro effetto se non quello di far crollare il sistema in una condizione endemica di recessione e stagnazione nel migliore dei casi. Questo per due ordini di motivi:

  • Le condizioni dei mercati mondiali, delle catene lunghe del valore, della possibilità dei paesi esportatori di guadagnare un ruolo nella battaglia commerciale mondiale sono ormai ampiamente compromessi. Tutta una fase di compressione e compartimentazione degli scambi mondiali soppianta la fase precedente e le sue caratteristiche.
  • Il ruolo dello stato, di conseguenza, cambia e cambia il rapporto fra questo e la finanza. Finanza che non può crescere il suo indebitamento sperando di reggere questo sulla base di investimenti produttivi che non hanno sbocchi in un sistema a domanda sempre più asfittica, e con investimenti che hanno tassi di rendita a volte inferiori al tasso di inflazione o di poco superiori ad esso.

Se questa è la condizione attuale, è chiaro che discutere, come si fa nella politica italiana, di un cambio di governo che dovrebbe risolvere o gestire in meglio non si sa bene che cosa, è del tutto puerile quando la crisi è generale; questa crisi è crisi di sistema internazionale, ( vedi alla parola Europa), è crisi sociale e di rapporto fra le classi, è lotta aspra fra stati forti e deboli, è riconferma e evoluzione di un declino industriale spaventoso, è drammatico sfilacciamento dell’unità istituzionale e civile del paese. Si invoca un cambio di governo e si straparla di un ‘governissimo’, quando soluzioni estremamente innovative e in rottura col passato sarebbero le uniche utili per fronteggiare una ‘nuova crisi generale’, per dirla con il titolo di un vecchio libro di Giovanni Arrighi. Ci si limita, invece, di fronte a tutto questo, a curare un malato di polmonite con l’aspirina!

In tutto questo dire la sinistra che cosa c’entra? E’ questo è purtroppo un tema doloroso, eppure non aggirabile perché la sinistra c’entra e dovrebbe sentirsi coinvolta per il dovere di compartecipare al futuro del paese, ma inoltre, potrebbe essere incoraggiata e ridefinirsi per trovare nella attuale situazione una insperata occasione di rilancio organizzativo e strategico. In tale contesto e groviglio di problemi, non posso che denunciare il mio pieno accordo con l’editoriale di questa domenica apparso sul Manifesto a firma di Alberto Asor Rosa. In tale articolo, l’anziano intellettuale post-operaista descrive la condizione dell’attuale governo Conte, visto da sinistra ovviamente, come il punto più avanzato dati i numeri espressi nel parlamento. Diverse ipotesi di altri governi sarebbero, chiaramente per le ragioni addotte da Asor Rosa nel suo intervento e anche per i ragionamenti qui sopra esposti, equilibri estremamente spostati a destra e dominati da uno spirito conservatore su un piano di valutazione dei fatti sociali e istituzionali. La condizione è dunque, data, e anche l’ipotesi del voto anticipato non è facilmente percorribile, per il rischio di una ingovernabilità prolungata in una fase estremamente pericolosa di turbamenti internazionali evidenti ai più. Tuttavia, correttamente Asor Rosa non ritiene che situazione data significhi rassegnato fatalismo e immobilismo di fatto. Semmai l’editorialista del Manifesto lamenta da parte delle sinistre e non solo del PD, una incapacità di agire sul piano del rilancio programmatico in modo da modificare rapporti di forza, anche nel campo dell’opinione pubblica, che modifichi la situazione politica che appare oggi in stallo. Eppure, elementi vi sono per avanzare un nuovo programma delle sinistre. Mi limito qui, attraverso, veramente, a semplici richiami ai temi, a indicare lo scheletro di una nuova questione socialista che la crisi economica e sanitaria hanno esplicitato: necessità di un rilancio della sanità e della scuola di massa, intervento assistenziale generalizzato, una nuova forma di intervento pubblico nella economia finanziaria e industriale.

Serve, dunque, a sinistra il coraggio delle proprie idee e della propria storia, orgoglio e memoria che le stesse sinistre hanno dimenticato e rimosso nell’arco del depresso ultimo trentennio, a iniziare dalla necessità di rinominare le cose. Mi riferisco ad una battaglia culturale sulle parole di fondo che va condotta fra noi. Perché continuare a dire ‘sinistra’, a definirci solo di ‘sinistra’, o lanciare liste nominate ‘La Sinistra’, e non ricominciare a recuperare il termine ‘socialista’, che ci costringe a dare un senso politico a quel conflitto fra lavoratori e proprietà ‘grande’ del capitale, che è venuto a nudo con l’esplicarsi con e conseguenze di questa pandemia? Nominare le cose è costruire non solo una identità ma iniziare a costruire un programma di fase alla altezza delle esigenze di questa crisi sociale. Ho il dubbio, al fondo delle cose per come esse si sono ormai spinte, che continuare a stingere la nostra essenza in una generica sinistra impedisca a noi di giocare la partita politica che si è aperta, intersecandola socialmente la dove è ormai è necessario. E’ forse rinviabile un dibattito su questo? Speriamo di non restare senza alcuna risposta.

Alessandria 24-05-20                                                                              Filippo Orlando

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