La lunga storia dell’antifascismo Cgil

L’8 e il 9 ottobre 2022, prima in piazza del Popolo e poi in un incontro pubblico in corso d’Italia, la Cgil ha ricordato, a distanza di un anno, l’assalto fascista alla sede nazionale. Nella storia recente, dopo la Liberazione dell’aprile ’45, in altre due occasioni la sede è stata colpita da attentati di stampo fascista: con delle bombe nella notte tra il 36 e 27 ottobre 1955 e l’8 gennaio 1964. Si può quindi affermare che dagli anni del regime al dopoguerra, fino a oggi, il sindacato ha sempre posto un argine allo “squadrismo” antidemocratico. E ne è sempre stato un bersaglio come bene raccontato in questo articolo.

 

La Confederazione Generale del Lavoro (CGdL) nasce al primo Congresso di Milano del 29 settembre – 1° ottobre 1906. Le prime strutture sindacali erano nate in Italia negli ultimi decenni dell’Ottocento. La fase pre-sindacale è caratterizzata dallo sviluppo delle Società di mutuo soccorso, le prime forme di associazionismo operaio. Il mutualismo aveva lo scopo di fornire assistenza ai soci in caso di disoccupazione, infortunio, malattia e vecchiaia, escludendo il ricorso alla lotta di classe. La fase sindacale vera e propria inizia con i primi scioperi, promossi tra gli anni Sessanta e Settanta dell’Ottocento. Il progressivo passaggio dal mutualismo alla resistenza si intensifica negli ultimi anni del secolo, in coincidenza con l’avvio, anche in Italia, della rivoluzione industriale.

Il biennio nero

Finito il massacro della Prima guerra mondiale, in molti Paesi europei, anche sull’onda delle notizie rivoluzionarie provenienti dalla Russia, scoppiano numerose rivolte popolari. Anche l’Italia registra un periodo di accesa conflittualità sociale: il “biennio rosso” (1919-20). Protagonisti di questa fase sono i braccianti nelle campagne, mentre nell’industria operano i Consigli di fabbrica. Al “biennio rosso” segue in Italia il “biennio nero” (1921-22), segnato dall’attacco violento che i fascisti scatenano contro il movimento operaio e le fragili istituzioni dello Stato liberale.

Dopo l’assalto alla sede del Comune di Bologna nel novembre 1920, si moltiplicano i casi d’incendio e saccheggio operati dalle squadracce nere contro le Camere del lavoro, le Case del popolo, le cooperative, le leghe; molti dirigenti della sinistra rimangono vittime della violenza fascista. Nella sola pianura padana, nei primi sei mesi del 1921, gli attacchi operati dalle squadre fasciste sono 726: 59 Case del popolo, 119 Camere del lavoro, 107 cooperative, 83 leghe contadine, 141 sezioni socialiste, 100 circoli culturali, 28 sindacati operai, 53 circoli ricreativi operai sono vittima delle violenze. “Erano i figli di un’Italia che li mandava avanti a spaventare la gente, a portare confusione (…) erano gli ‘Arditi’ plagiati, usati (…) Quella giovane teppaglia mi faceva orrore e pena”, commenterà anni dopo Pietro Nenni.

Il fascismo al potere

Il 28 ottobre 1922, con la marcia su Roma, Mussolini prende il potere. All’inizio del 1925 il duce decide una svolta in senso “totalitario” attraverso una serie di provvedimenti liberticidi (le “leggi fascistissime”), che annullano qualsiasi forma di opposizione al fascismo.

Sul piano sindacale, con gli accordi di Palazzo Vidoni del 2 ottobre 1925, Confindustria e sindacato fascista si riconoscono reciprocamente quali unici rappresentanti di capitale e lavoro abolendo le Commissioni Interne. La sanzione ufficiale di tale svolta arriva con la legge 563 del 3 aprile 1926, che riconosce giuridicamente il solo sindacato fascista (l’unico a poter firmare i contratti collettivi nazionali di lavoro), istituisce una speciale magistratura per la risoluzione delle controversie di lavoro e cancella il diritto di sciopero.

Il 4 gennaio 1927, in seguito ai provvedimenti emessi dal fascismo, il vecchio gruppo dirigente della CGdL, tra cui Rinaldo Rigola e Ludovico D’Aragona, decide l’autoscioglimento dell’organizzazione. Contro tale decisione, nel febbraio 1927, Bruno Buozzi ricostituisce a Parigi la CGdL, la quale aderisce, insieme ad alcuni partiti, alla Concentrazione d’azione antifascista. Nello stesso mese, durante la prima Conferenza clandestina di Milano, i comunisti danno vita alla loro Confederazione generale del lavoro. In questo modo, dalla fine degli anni Venti e fino alla caduta della dittatura fascista, convivono di fatto due CGdL: una d’ispirazione riformista, aderente alla Federazione sindacale internazionale; l’altra comunista, aderente all’Internazionale dei sindacati rossi.

Fino alla metà degli anni Trenta i rapporti tra le due confederazioni si mantengono tesi, soprattutto a causa della decisione presa dalla Terza internazionale di contrastare i riformisti, accusati di “socialfascismo”. Quando però il pericolo fascista diventa più concreto, soprattutto in seguito alla presa del potere da parte di Hitler in Germania (gennaio 1933), le diverse componenti della sinistra riescono a trovare un terreno comune d’iniziativa, evidente nella politica dei Fronti popolari in Francia e Spagna. Gli effetti si faranno sentire sia sulla politica italiana – con la firma nel 1934 del Patto di unità d’azione tra Pcd’I e Psi – sia sul sindacato. Il 15 marzo 1936 Buozzi e Di Vittorio si incontrano a Parigi per firmare la “piattaforma d’azione della Cgl unica”.

La guerra e gli scioperi

Già prima della caduta di Mussolini, avvenuta il 25 luglio 1943 in seguito al voto del Gran consiglio del fascismo, settori importanti delle classi lavoratrici del Nord erano tornati a scioperare contro il regime. Tra il 5 e il 17 marzo 1943, le fabbriche torinesi sono bloccate da una protesta che coinvolge 100 mila operai. Dietro alle rivendicazioni economiche, le agitazioni hanno un chiaro intento politico, ossia la fine della guerra e il crollo del fascismo. Un’ondata che da Torino si estende alle principali fabbriche del Nord Italia.

Con gli scioperi del marzo 1943 succede qualcosa di nuovo in Italia. In pochi giorni, dopo il via dato da Torino, nel triangolo industriale 300 mila operai cominciano la lotta e questa assume un significato politico enorme e immediato, anche se, fabbrica per fabbrica, vengono avanzate dagli operai solo rivendicazioni salariali precise e limitate. “Gli scioperi del marzo 1943 (fra l’altro conclusi non solo con un grande successo politico, ma anche con esito positivo dal punto di vista economico) hanno un grande rilievo nella storia dell’unità dei lavoratori. Essi ne esprimono infatti la resurrezione come massa dopo più di venti anni di feroce oppressione di classe e pongono le basi di una unità nuova delle grandi correnti sindacali storiche che già avevano guidato i lavoratori fino alla dittatura e poi anche nella clandestinità. Questa unità sarà poi sancita dal Patto di Roma dell’anno dopo, che darà vita alla Cgil unitaria”.

“Gli scioperi del marzo del 1943 – scriveva Oreste Lizzadri – ratificarono, dopo un mese di lotta, non soltanto la vittoria dei lavoratori sul terreno salariale. Essi segnarono qualche cosa di più: la prima, grande vera sconfitta del fascismo nei suoi elementi ritenuti i più vitali, quali la potenza della forza repressiva poliziesca e di partito, il mito della sua organizzazione, la decantata adesione totalitaria dei lavoratori e del popolo italiano al regime”.

La Resistenza inizia dalle fabbriche

La Resistenza la iniziano i lavoratori. E loro la concludono, occupando le fabbriche due anni dopo alla vigilia del 25 aprile 1945. Insorgendo, scioperando, nuovamente nel marzo del 1944. Il 1° marzo 1944 tantissimi lavoratori (secondo il ministero degli Interni circa 210 mila, di cui 32 mila solo a Torino; secondo Leo Valiani, d’accordo anche Paolo Spriano, perlomeno 500 mila operai e impiegati) incrociano le braccia malgrado la repressione, la minaccia di licenziamento, la paventata deportazione in Germania. Agli scioperi aderiscono centinaia di migliaia di operai, impiegati, tecnici e perfino dirigenti di ogni categoria produttiva e servizio pubblico: tranvieri, ferrovieri, postelegrafonici, dipendenti statali e municipali, bancari e assicuratori, studenti di molte scuole superiori e di alcune università; scioperano anche i dipendenti del Corriere della Sera di Milano.

“In fatto di dimostrazioni di massa – scriveva il New York Times il 9 marzo 1944 – non è avvenuto niente nell’Europa occupata che si possa paragonare con la rivolta degli operai italiani. È il punto culminante di una campagna di sabotaggio, di scioperi locali e di guerriglia che hanno avuto meno pubblicità del movimento di resistenza altrove, perché Italia del Nord è stata tagliata fuori dal mondo esteriore. Ma è una prova impressionante, che gli italiani, disarmati come sono e sottoposti a una doppia schiavitù, combattono con coraggio e audacia quando hanno una causa per la quale combattere”.

“Le notizie del grande sciopero generale – scriveva l’Unità il 10 marzo – sono risuonate come una sveglia, come un grido di guerra in tutta l’Italia occupata (…) I lavoratori italiani non rientreranno nelle fabbriche domani. Si sbaglierebbe di grosso chi credesse che hanno capito che è inutile lottare, che contro i tedeschi non è possibile farcela. Proprio il contrario; i lavoratori hanno imparato a conoscere la loro forza, la lotta di quando sono compatti e decisi, hanno capito che non basta più lo sciopero pacifico, per difendere la propria vita bisogna andare oltre. Tornano nelle fabbriche a continuare la lotta, a preparare l’insurrezione nazionale, l’azione armata per dare il colpo decisivo”.

“Lo sciopero generale politico rivendicativo del 1-8 marzo – scriveva La nostra Lotta – assume un’importanza e un significato nazionali e internazionali di gran lunga superiori agli obiettivi immediati che esso si poneva, indica la strada da seguire nel prossimo avvenire in cui si annunciano grandi e decisive battaglie, in Italia e nel mondo, per l’annientamento del nazifascismo e la liberazione dei popoli. Gli operai italiani che l’hanno sostenuto, i lavoratori e i patrioti che l’hanno appoggiato, le organizzazioni che l’hanno preparato e diretto possono essere fieri e orgogliosi della grande battaglia combattuta: essa s’iscrive fra le migliori pagine della lotta dei popoli per la propria libertà e costituisce una tappa decisiva per il risorgimento della nostra patria. I sacrifici di oggi sono il prezzo e il pegno del sicuro trionfo di domani”.

La rinascita del sindacato libero

Affermava Giuseppe Di Vittorio in occasione del primo anniversario della Liberazione: “L’insurrezione vittoriosa di tutto il popolo dell’Italia del Nord il 25 aprile 1945 realizzò la premessa essenziale della rinascita e del rinnovamento democratico e progressivo dell’Italia, come della sua piena indipendenza nazionale. È per noi motivo di grande soddisfazione ricordare che a questo movimento di riscossa nazionale, il contributo più forte e decisivo fu portato dai lavoratori italiani. Furono gli operai, i contadini, gli impiegati e i tecnici che costituirono la massa e il cervello delle gloriose formazioni partigiane e di tutti i focolai di resistenza attiva all’invasore tedesco”.

“Chi può dire – proseguiva Di Vittorio – se la clamorosa vittoria del 25 aprile sarebbe stata possibile senza gli scioperi generali grandiosi che, dal marzo 1943, si susseguirono, a breve distanza, sino al 1945? Quegli scioperi, che contribuirono fortemente a paralizzare l’efficienza bellica del nemico e a sviluppare la resistenza armata, costituiscono un esempio unico e glorioso di lotta decisa dalla classe operaia sotto il terrore fascista, sotto l’occupazione nazista e in piena guerra. È un esempio che additava il proletariato italiano all’ammirazione del mondo civile!”.

Mentre al Sud rinascono le Camere del lavoro e al Nord si intensifica il movimento resistenziale, i principali esponenti del sindacalismo italiano proseguono il lavoro di dialogo unitario avviato già negli anni Trenta che culminerà nel giugno del 1944 nella firma del Patto di Roma che decreta la rinascita del sindacato libero. La Cgil (Confederazione generale italiana del lavoro) unitaria nasce dal compromesso tra le tre principali forze politiche italiane, e il Patto di Roma sarà firmato da Giuseppe Di Vittorio per i comunisti, Achille Grandi per i democristiani, Emilio Canevari per i socialisti.

Manca una firma, quella di Bruno Buozzi, in quelle stesse ore barbaramente ucciso dai nazisti. “Il fascismo – affermava Buozzi nel 1930 – rappresenta nella vita nazionale dell’Italia un episodio doloroso: i segni della riscossa e della liberazione sono già ripetuti e frequenti. L’esperienza fascista, soprattutto in campo operaio, costituisce un’ingiustizia atroce, un passo all’indietro, la perdita di anni preziosi. Ma nel popolo italiano, sobrio e lavoratore, tenace e paziente, si registra una forza vitale così meravigliosa, un’energia così sincera e così sicura che i lavoratori d’Italia, quando si saranno liberati dal fascismo, sapranno recuperare in fretta gli anni perduti. E di questa parentesi umiliante nella sua violenza e nella sua brutalità gli italiani avranno allora avuto un solo beneficio: la ferma convinzione che la libertà è una condizione necessaria per qualsiasi elevazione delle masse, e che in questo consiste il bene supremo; un bene, però, da conquistare e difendere ogni giorno”. Intervista a Piero Craveri. Quali furono i temi centrali discussi nell’Assemblea riguardo al mondo del lavoro e alle sue organizzazioni di rappresentanza. E quale il quadro sindacale definito dal dibattito costituente

Dalla Costituente alla democrazia

Il 25 aprile 1945 le popolazioni delle principali città del Nord insorgono; l’Italia è finalmente libera. La Cgil unitaria dà un contributo fondamentale per la ricostruzione economica, sociale, politica e istituzionale dell’Italia, rappresentando uno degli interlocutori privilegiati degli Alleati. Il sindacato giocherà un ruolo politico di assoluto rilievo nell’elaborazione della Costituzione, che all’articolo 1 definisce l’Italia “una Repubblica democratica, fondata sul lavoro”.

Giuseppe Di Vittorio sarà il relatore della Terza sottocommissione, incaricata di redigere le norme costituzionali sui diritti sociali ed economici. Fu grazie all’impegno della Cgil che princìpi e istituti fondamentali quali la libertà sindacale, la contrattazione collettiva e il diritto di sciopero entrarono nel testo finale.

Dopo le elezioni politiche del 18 aprile 1948, che vedranno la netta affermazione della Democrazia cristiana e la sconfitta del Fronte popolare (Pci e Psi), e dopo l’attentato a Togliatti del 14 luglio, cui la Cgil reagirà con lo sciopero generale politico, la corrente democristiana decide la scissione. Il periodo delle scissioni sindacali si protrarrà per circa due anni, dall’estate del 1948 alla primavera del 1950. Il percorso terminerà con la nascita della Uil il 5 marzo 1950 e della Cisl il 30 aprile successivo.

L’eccidio di Modena

La fase successiva alle scissioni sarà una delle più difficili per il sindacato italiano. La repressione poliziesca, condotta dalla famigerata “Celere” potenziata dal ministro dell’Interno Mario Scelba, causerà la morte di decine di lavoratori durante manifestazioni e scioperi. La città simbolo di questi eccidi è Modena dove il 9 gennaio 1950 moriranno 6 operai.

“Si noti che tutti questi lavoratori – scriveva Di Vittorio – sono stati uccisi unicamente perché chiedevano di lavorare, gli uni sulla terra incolta, gli altri nella fabbrica serrata (…). I lavoratori sono stanchi di piangere i loro morti e non sono affatto disposti a lasciar soffocare nel sangue i loro bisogni di lavoro o di vita. La Cgil con la sua forza e il suo prestigio è riuscita sinora a contenere in limiti normali la protesta popolare contro gli eccidi. Ma la storia insegna che, al di là di un tale limite, nessuna forza umana può garantire i confini entro i quali possa essere contenuta una collera popolare lungamente compressa. Questo è il monito che viene da Modena”.

La prima bomba a corso d’Italia

La Cgil con la sua forza e il suo prestigio si oppone, si espone e per questo viene colpita. La prima bomba a corso d’Italia scoppia nella notte tra il 26 e il 27 ottobre 1955. Così il giorno seguente Di Vittorio riferiva alla Camera: “Signor Presidente, onorevoli colleghi, come avrete potuto apprendere dalla stampa, questa notte alle 2.25 un attentato dinamitardo è stato compiuto contro la sede della Confederazione italiana generale del lavoro all’ingresso di via Pinciana, ingresso secondario posteriore a quello principale (…). L’antifascismo unito ha fatto la nuova Italia, l’antifascismo unito deve consolidare l’ordinamento democratico dello Stato, sviluppare le libertà democratiche del nostro Paese, aprire un avvenire migliore, più sicuro e tranquillo, ai nostri lavoratori e al nostro popolo tutto”.

“Perciò – proseguiva Di Vittorio – è bene che tutti i democratici si associno alla nostra protesta contro gli attentatori e chiedano con noi che siano perseguiti, e si prendano le misure adeguate per rendere impossibile il ritorno a quell’atmosfera cui l’attentato di questa notte fa pensare e di cui costituisce un episodio (…) Se poi si vuole con attentati del genere terrorizzare la Confederazione del lavoro e i lavoratori italiani, per impedir loro di continuare a lottare nella difesa dei loro diritti e interessi vitali, dobbiamo dire, non tanto agli esecutori quanto ai mandanti di questi crimini, che si sbagliano fortemente”.

Gli anni Sessanta

L’impegno politico della Cgil raggiunge l’apice nell’estate del 1960, quando proclamerà da sola lo sciopero generale contro il Governo Tambroni, appoggiato dai neofascisti del Msi e responsabile di una dura repressione e di gravi eccidi durante alcune manifestazioni popolari a Genova, Roma, Reggio Emilia e in Sicilia.

“Che cosa era in discussione a Genova? – scriverà Luciano Romagnoli -. E, dopo ancora, a Licata, a Roma e a Reggio Emilia? Che cos’era in discussione nel Paese? Era il fondamento stesso dello Stato democratico: l’antifascismo, la resistenza e la Costituzione repubblicana”.

Così nel mese di luglio, sempre su Rinascita, Vittorio Foa: “Il fascismo per i lavoratori italiani oggi non è solo l’eco remota e nostalgica delle squadracce e delle aquile e degli orpelli barbarici dell’età mussoliniana, ma è, nelle condizioni mutate, l’arbitrio in luogo della giustizia, la disciplina subordinata in luogo della parità dei diritti e doveri reciproci fra lavoratore e padrone, la corruzione e l’avvilimento, la mancanza di prospettiva, il contrasto tra i profitti giganteschi e i salari stagnanti, lo sfruttamento intensivo della forza lavoro che impedisce all’uomo, finito il lavoro, di avere forze bastevoli per partecipare alla vita nelle sue forme più alte”.

Un’altra bomba fascista

La Cgil resiste. E vince. E questo ai fascisti non piace. Tornano così ad attaccare la sua sede l’8 gennaio del 1964. “Questa notte alle 22.45 – denunciava la Confederazione in un comunicato rilasciato poco dopo l’attentato – una bomba ad alto potenziale è scoppiata davanti alla Cgil recando danni rilevanti alla sede della Confederazione. L’inqualificabile attentato non può che provenire dalla destra fascista che in questo modo esprime il suo odio contro una grande organizzazione democratica che dirige i lavoratori nella loro lotta. La Cgil chiede che l’autorità intervenga senza indugio per colpire i responsabili che appartengono ad ambienti che a Roma hanno dato ripetute prove, anche recenti, della loro attività criminosa contro sedi politiche e sindacali”.

“Si è voluto cioè colpire la sede di una grande organizzazione dei lavoratori – dirà Fernando Santi alla Camera dei deputati il 28 gennaio successivo -. Ho vissuto l’esperienza dolorosa del dopoguerra 1919-20; so che cosa ha significato il fascismo per l’Italia e che cosa ha fatto per poter prevalere con la violenza e con il sangue, e il fascismo noi lo riconosciamo lontano un miglio perché il suo biglietto da visita è in queste manifestazioni. (…) Per colpire gli autori di questi attentati bisogna marciare in questa direzione, e bisogna farlo con la necessaria energia e rapidità. Ma non bisogna soltanto reprimere; bisogna anche prevenire e mettere una buona volta questi movimenti in condizione di non nuocere alla causa dei lavoratori che noi rappresentiamo, né alla causa della democrazia e dell’ordine pubblico alla quale siamo tutti attaccati”.

1969, conquiste in Italia e strage a Milano

Il 1969 è l’anno dell’affermazione definitiva del sindacato come soggetto politico. Nel VII Congresso di Livorno la Cgil sceglie l’incompatibilità tra incarichi sindacali e di partito, rafforzando la propria autonomia politica. L’apice viene raggiunto con “l’autunno caldo” dei metalmeccanici, quando la categoria riesce a rinnovare il contratto ottenendo grandi conquiste in tema di democrazia, salario, orario, diritti e potere nei luoghi di lavoro. Gran parte di queste conquiste troveranno spazio nella legge 300/1970, lo Statuto dei diritti dei lavoratori.

Ai neofascisti tutto ciò non piace e alle 16,37 di venerdì 12 dicembre 1969 un ordigno esplode nel salone centrale della Banca nazionale dell’agricoltura di Milano: è la strage di piazza Fontana.Dopo la strage, in occasione dei funerali delle vittime, Cgil, Cisl e Uil di Milano decidono di proclamare lo sciopero generale. Una decisione che incide profondamente su quella giornata, con le forze del lavoro schierate a difesa della democrazia e contro l’eversione.

Racconterà anni dopo, nel luglio 2009, Carlo Ghezzi (a lungo dirigente dei chimici Cgil lombardi, in seguito alla guida della Camera del lavoro milanese e componente della segretaria nazionale Cgil) a Giovanni Rispoli in una bella intervista per uno speciale di Rassegna Sindacale sull’autunno caldo: “La nostra presenza ai funerali fu decisiva: la dimostrazione, confermata poi negli anni del terrorismo, che eravamo una grande forza nazionale, che la lotta per i diritti era una sola cosa con la difesa della democrazia”.

Non fu certamente una decisione facile. “La parola d’ordine, come per un riflesso condizionato, era inizialmente ‘vigilanza’ – prosegue Ghezzi -. Nella Camera del lavoro, nel Pci e nella sinistra c’era il timore di ulteriori provocazioni, l’idea che molti sostenevano era quella di limitarsi a presidiare le sedi. Ci fu una discussione aspra, il momento era molto confuso. Poi, quando anche la Uilm fece sapere che era per la partecipazione, la discussione finì. E con le tute blu in piazza Duomo s’impedì che la tragedia potesse essere strumentalizzata dalla ‘maggioranza silenziosa’, che allora stava nascendo”.

La prima di molte stragi

La strage di piazza Fontana è purtroppo solo la prima di tante, troppe stragi (22 luglio 1970: strage presso la stazione di Gioia Tauro – 6 vittime; 31 maggio 1972: strage di Peteano – 3 vittime; 17 maggio 1973: strage di via Fatebenefratelli, Milano – 4 vittime; 4 agosto 1974: Italicus – 12 vittime; 2 agosto 1980: stazione di Bologna – 85 vittime; 23 dicembre 1984: treno rapido 904 – 16 vittime). Stragi accomunate da un unico, terribile colore, il nero.

Il 28 maggio 1974 a Brescia, durante una manifestazione unitaria del sindacato, scoppia una bomba a piazza della Loggia. È una strage fascista; i morti sono otto, di cui cinque attivisti della Cgil.

La paternità della strage viene rivendicata da Ordine nero e da Anno zero-Ordine nuovo. La risposta del Paese è impressionante: il giorno dopo a Milano oltre 200 mila persone confluiscono in piazza Duomo dove a nome della Federazione unitaria parla Agostino Marianetti; a Napoli, alla presenza di circa 100 mila manifestanti, a parlare è Franco Marini; a Bologna, in piazza Maggiore parla Bruno Trentin, a Torino, Giorgio Benvenuto; a Roma, in piazza San Giovanni, dove confluiscono oltre 300 mila persone, intervengono Luciano Lama, Raffaele Vanni e Luigi Macario.

Nell’aprire la manifestazione in quella piazza San Giovanni che dal rapimento di Aldo Moro alla manifestazione sulla scala mobile del 24 marzo 1984 sarà per lui luogo dei grandi appuntamenti, delle grandi sfide, dirà Luciano Lama: “Da piazza Fontana a Brescia una mente criminale, una mano sola ha operato per colpire a morte lo Stato democratico, per spegnere nella coscienza dei cittadini l’amore per la libertà; ma, compagni e amici dei partiti democratici, questo disegno che vuole disgregare il Paese non riesce: i grandi valori della Resistenza non sono senza difensori. Voi li vedete qui oggi, questi difensori riuniti come in altre cento piazze d’Italia, decisi a difendere le istituzioni, a promuovere il progresso sociale e civile”.

1972, tutti a Reggio Calabria

Tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio degli anni Settanta il Sud dell’Italia è attraversato da diversi movimenti di rivendicazione sociale. Le organizzazioni di estrema destra rispondono a quest’ondata di protesta da un lato con una serie di attentati dinamitardi, dall’altro tentando di accreditarsi al grido di ‘boia chi molla’ come rappresentanti degli interessi della popolazione in lotta.

Per rispondere a questi attacchi, i sindacati metalmeccanici di Cgil, Cisl e Uil (insieme ai sindacati degli edili e alla Federbraccianti Cgil) decidono di organizzare una grande manifestazione di solidarietà a fianco dei lavoratori calabresi. La manifestazione indetta per il 22 ottobre 1972 è fortemente voluta da Bruno Trentin, Pierre Carniti e Giorgio Benvenuto. Insieme a loro sono in città Luciano Lama e Rinaldo Scheda, alla guida degli edili Cgil c’è Claudio Truffi, a capo della Federbraccianti Feliciano Rossitto.

I neofascisti tenteranno d’impedire l’arrivo dei manifestanti con una serie di attentati nella notte tra il 21 e il 22 ottobre. Dirà Pierre Carniti in un affollatissimo comizio: “Quel treno che portava via gli emigranti… non volevano consentire che tornasse per farli partecipare a questa grande manifestazione. Siamo in presenza, amici e compagni, e non la sottovalutiamo affatto, siamo in presenza di una criminalità organizzata, che è anche indicativa, però, del suo isolamento. Si tratta di gente disperata, perché ha capito che l’iniziativa di lotta dei lavoratori, di questa stessa manifestazione sindacale, rappresenta un colpo durissimo. Ecco perché reagiscono con rabbia, reagiscono con disperazione. E oggi, come cinquant’anni fa, questa reazione conferma che il fascismo con il manganello e il tritolo è al servizio dei padroni e degli agrari contro i lavoratori e contro il proletariato”.

Prosegue Carniti: “Ma dunque, compagni, debbono sapere che non siamo nel 1922 e che la classe operaia, le masse popolari, le forze politiche democratiche hanno la forza e i mezzi per difendere le istituzioni democratiche dall’attacco e dall’aggressione fascista. E ciascuno farà la sua parte in questa direzione. Oggi non sono calati a Reggio, amici e compagni di Reggio, i barbari del Nord, ma con gli impiegati e con gli operai del Nord sono tornati a Reggio i meridionali!”.

Aggiungerà Bruno Trentin: “Io comprendo benissimo le bombe contro i treni, a Reggio, in quanto Reggio Calabria ha significato un momento di svolta: non solo per quella grande manifestazione sindacale, ma perché da lì è partito anche un impegno diverso del mondo sindacale rispetto alle masse di lavoratori e anche alle masse di disoccupati del Mezzogiorno. I fascisti hanno colto giustamente, secondo me, il pericolo che si profilava”.

Roma, 9 ottobre 2022

Ilaria Romeo

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