Il lavoro e l’identità sociale

 

E’ ormai da parecchi anni senso comune che il lavoro sia cambiato, che non sia più quello di un tempo, che non esista più la classe operaia e che i giovani lavorino oggi in modo non paragonabile a quello dei loro genitori. Ma in che modo è realmente cambiato il mondo del lavoro, esso è realmente così frastagliato come non lo è mai stato?

Credo che sia necessario avanzare con una analisi, che non sarà particolarmente minuta perchè lo spazio non lo consente, e che abbia come elementi portanti il salario, la diversificazione contrattuale e degli orari, la mansione prevalente, (manuale o intellettuale), la qualifica professionale. Dopo, potremo analizzare gli elementi culturali che portano i lavoratori ad identificarsi con la propria vita lavorativa e la connessa visione della società; in sostanza una ricognizione della coscienza di classe.

Se guardiamo ai dati relativi alle diversificazioni salariali fra lavoratori risalta immediatamente alla osservazione che la tendenza che si sta consolidando negli ultimi anni è determinata da un abbassamento dei livelli salariali di buona parte dell’ impiego manuale e intellettuale. Permane una distanza abissale fra la retribuzione degli amministratori delegati e i semplici lavoratori e inoltre, i mancati rinnovi contrattuali nel settore del pubblico impiego, le esigue cifre per il rinnovo di contratti nel privato, pongono ancora più urgentemente la inadeguatezza dei livelli salariali in tutti settori, al fine di determinare un rilancio dei consumi interni per il rilancio della domanda, e al fine di garantire una vita dignitosa al lavoratore stesso.

Ma il problema salariale si pone oggi anche in relazione alla durata dei contratti, alla costanza della prestazione lavorativa. I redditi annuali dei lavoratori precari o peggio, dei disoccupati di lungo periodo, sono tali da non far sfuggire vasti strati della popolazione in età lavorativa dallo spettro della povertà assoluta, non più relativa. Qualche milione di lavoratori nel nostro paese possono essere definiti working poor, secondo l’ espressione efficace della sociologia d’ oltre oceano.

Per quanto riguarda gli inquadramenti contrattuali il mondo del lavoro si divide in due grandi gruppi, diversificati poi al loro interno; coloro che ancora posseggono un contratto di lavoro fisso e tutti gli altri lavoratori che sono a tempo determinato, sotto cooperativa o a partita IVA o Co. co. Co., infine, la vasta area degli interinali. L’ area che un tempo veniva definita quasi spregiativamente ‘garantita’, si è assottigliata sempre di più sopratutto se si intende dare attenzione ai dati dei nuovi avviamenti al lavoro. La vasta precarietà ed insicurezza che i lavoratori vivono materialmente si rispecchia poi, sulla scarsa capacità di questi di poter controllare i propri orari e carichi di lavoro e di veder riconosciuta la propria preparazone e professionalità. Il distacco che vi è fra professionalità data sul posto di lavoro e quella realmente riconosciuta dall’ inquadramento contrattuale è uno degli elementi certamente maggiormente frustranti i lavoratori, in specie quelli appartenenti alle nuove generazioni.

Sulla Rivista del Manifesto, nel 2003, Vittorio Reaser recensiva una inchiesta sul lavoro svolto dall’ allora partito dei Democratici di Sinistra. Rieser rilevava come dalle risposte date al questionario emergesse una realtà psicologica dei lavoratori sospesa fra delusione e amarezza per la propria condizione e allo stesso tempo una diffusa rassegnazione alle condizioni date, come se queste non fossero modificabili se non marginalmente. Nei dati di quella ricerca emergeva in primo piano il giudizio negativo sulla flessibilità, l’ esigenza altrettanto diffusa di una stabilità, ma inoltre, la scarsa possibilità da parte dei lavori a bassa qualifica di poter ‘far carriera’, di poter ‘crescere’ nel reddito e nella professionalità. Chi era precario rispondeva al questionario che desiderava avere più diritti , ( malattia pagata, ferie, orari definiti ecc.), pur ritenendo la condizione della precarietà nel mondo del lavoro un dato ormai strutturale della realtà e come tale immodificabile. Lo stesso Rieser concludeva il suo articolo con alcune considerazioni: “ Il panorama che emerge dall’ inchiesta è, almeno a pima vista, contradditorio, perchè accanto ad elementi di ‘introiezione’ della flessibilità come quadro inevitabile, e di accettazione/adattemento alle caratteristiche del lavoro, emergono elementi critici sull’ uno e sull’ altro versante”. E poco oltre aggiungeva: “ .. Come cambiano le possibilità di controllo del lavoratore sul suo lavoro e su mercato del lavoro – in una parola, sul suo destino lavorativo- nella transizione dalla fase fordista a quella attuale? La risposta non è semplice. A prima vista potrebbe sembrare, da alcuni dati della nostra come di altre ricerche, che migliori il controllo sul lavoro e peggiori quello sul mercato del lavoro. Ma è possibile che il drammatico peggioramento di questo secondo aspetto offuschi e metta in secondo piano i problemi del primo – un nuovo e più sottile effetto di ‘esercito industriale di riserva’, di un esercito di riserva del quale è impossibile sapere con certezza se e quando uno ne sta fuori o vi è dentro.”

L’ articolo di Rieser si chiudeva con una domanda tesa alla politica; essa sarà in grado di occuparsi delle condizioni del lavoro sul piano legislativo e sopratutto saprà farlo a partire dalla coscienza dei lavoratori attuale. Che la coscienza dei lavoratori oscilli ancora adesso, come emerge da indagini sociologiche più recenti che accentuano semmai le tendenze rilevate nelle indagini di quindici anni fa, fra impotenza e rassegnazione da un lato, e rabbia che si esprime nel voto in massa alle forze politiche qualunquiste e populiste, ( Forza Italia, 5 Stella, Lega per certi aspetti, PD nella versione renziana.), è fatto che possiamo vedere bene sotto i nostri occhi. Il punto è comprendere se vi sono forze politiche e sindacali a sinistra, perchè è la sinistra che deve assolvere questo compito e non altri, che siano in grado di modificare il quadro concettuale dei lavoratori, pur non astraendo dalle condizioni economiche e politiche più generali. Intendo dire che anche le forze politiche e sndacali hanno posto in essere una sorta di adattamento alle condizioni verificatesi con il liberismo dominante degli ultmi quarant’ anni. Ma da una condizione di continuo peggioramento delle condizioni lavorative e sociali si può porre termine, freno? Si può indicare una vera alternativa di società e di civiltà?

E’ questa è la domanda strategica che invia alla sinistra tutta l’ analisi della coscienza di classe attuale.

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