Manzoni, prima di scrivere il suo romanzo, si documentò in modo tale da realizzare un’opera ineccepibile dal punto di vista storico e letterario.

Fu quindi attento sia ai momenti storici importanti(la carestia, la guerra e la peste) sia ai particolari della vita quotidiana, lasciando poco spazio alle licenze storiche.

Fu autore attento anche nel campo numismatico. Sono diversi i passaggi del romanzo in cui sono citate le monete circolanti nel ducato di Milano nel XVII secolo, anche se, a detta di qualche numismatico, non avrebbe dato troppa importanza ai particolari, citando in modo improprio i  pezzi in questione.

C’è da pensare diversamente. Conoscendo la “pignoleria” del grande autore , tanto sottile da sconfinare nella nevrosi,è lecito credere che ogni suo riferimento alla circolazione monetaria del milanese nel ‘600 sia stata fatto con cognizione di causa.

A chi afferma che Manzoni non “masticasse” molto di numismatica si può rispondere con il carteggio che egli ebbe con Domenico Promis, uno dei più grandi studiosi italiani di numismatica medievale del XIX secolo.

L’ uomo che ci dà una ricostruzione della peste di Milano del 1630, grazie agli studi dei cronisti dell’epoca, non poteva certo scivolare su una buccia di banana.

In questa sede tratteremo quelli che possono considerarsi i passaggi più significativi.

Iniziamo con la berlinga. Si cita questa moneta per la prima volta nel dialogo fra Tonio e don Abbondio, poco prima del tentativo di matrimonio a sorpresa.

Tonio è debitore di ben venticinque lire nei confronti di don Abbondio, al quale ha dato in pegno la collana di sua moglie.

“ Tu hai un debito di venticinque lire con il signor curato, per fitto del suo campo,che lavoravi l’anno passato.”Questo aveva detto Renzo al cugino Tonio, per ottenere la sua complicità nell’impresa che stava organizzando ai danni del curato(cap. VI).

“Son  venticinque berlinghe nuove di quelle con sant’Ambrogio a cavallo”, dice Tonio a don Abbondio, entrando nel suo piccolo studio.(cap. VIII)

Venticinque berlinghe nel 1628 corrispondono a venticinque lire(1 lira=20 soldi= 240 denari; 1 soldo=12 denari) . Sembra chiaro. Però qualche numismatico pignolo parla di imprecisione da parte di Manzoni, perché in realtà una moneta con quelle caratteristiche corrisponde al dieci soldi d’argento(mezza lira) e non alla berlinga. È vero, scorrendo specifiche opere di numismatica ci accorgiamo di questo particolare, ma è sufficiente leggere una grida sulle monete degli anni precedenti per capire che Manzoni non commette alcun errore.

Le gride sulle monete venivano pubblicate periodicamente per fissare il valore in lire, soldi e denari delle monete circolanti nel ducato,  milanesi,spagnole o straniere.

I pezzi menzionati erano quelli autorizzati a circolare al valore fissato dalle autorità. Di solito le monete d’oro e quelle d’argento di un certo valore nominale, o di buona lega, tendevano ad apprezzarsi nel tempo e a valere quindi di più. E questo accade ai pezzi con il sant’ Ambrogio a cavallo.

Nella grida sulle monete del 24 gennaio 1614 la berlinga con ducale e quella con il Santo  Ambrogio a cavallo sono valutate una lira tonda tonda, senza se, senza ma.

Quindi non si può parlare di svista o di errore da parte di Manzoni. Il termine berlinga è usato nel milanese nei secoli XVI e XVII(prima metà) per indicare le monete da venti soldi, cioè da una lira.

Tonio ha impegnato la collana della moglie Tecla per  il suo debito con don Abbondio e pensa a quanta polenta si potrebbe comprare con quella somma.

Non è una affermazione estemporanea. Con venticinque lire si poteva veramente sfamare una famiglia per parecchi giorni.

A dimostrazione di ciò è sufficiente consultare alcuni prezzi del calmiere della città di Alessandria del 1622:

pane buffetto (una libbra)                            soldi 1     denari—-

lardo buono    “       “                                   “     5     “       —-

riso bianco   “          “                                   soldi 1    denari 9

vino nero     “          “                                     “     2       “      —

formaggio mediocre “         “                        “     5       “    —-

ricotta fresca             “         “                        “     1        “    3

un uovo(d’inverno)                                       ———      “    9

un uovo(d’estate)                                          ———       “   6

carne di porco(una libbra)                            soldi 3         denari—-

Sono poche voci ma utili per capire il significato della frase di Tonio e il gesto di Renzo quando ricompensa Menico, e successivamente il barcaiolo, con una berlinga.

Il primo è premiato per aver avvertito lui, Lucia e Agnese della presenza dei bravi a casa delle donne.

Il secondo viene ricompensato per aver trasportato il giovane dalla riva lombarda  a quella veneziana del fiume Adda, permettendogli di scampare alla giustizia spagnola.

Una berlinga è una discreta somma per comprare la discrezione, ma per corrompere è necessario dare di più: quando Renzo torna a Milano, in piena peste, sborsa mezzo ducatone al gabelliere perché non lo veda. Mezzo ducatone corrispondeva a due lire, dieci soldi e due denari: quanto vino si poteva comprare all’osteria!

Procedendo nel primo viaggio di Renzo a Milano, questo è testimone dell’assalto al forno delle grucce.

La popolazione entra nel forno e lo saccheggia, portando via pane, farina, pasta in lievitazione, pale, buratti e altri arnesi, ma qualcuno, non interessato al pane, “corre al banco, butta giù la serratura, agguanta le ciotole, piglia le monete, intasca, ed esce carico di quattrini.”

Qualche numismatico ha voluto intendere nell’espressione “carico di quattrini” un riferimento di Manzoni alle specifiche monete circolanti nel milanese in quel periodo.

I quattrini sono monete di rame del valore di quattro denari, battute spesso con un conio stanco, quindi di pessima fattura, tanto che molte di queste, presenti nelle varie collezioni, sono quadrate o romboidali, ma non rotonde.

I milanesi non le amavano e avevano anche protestato per quelle monete brutte, ma le autorità spagnole furono ferme e imposero l’uso di quei quattrini con precisi bandi.

Chi è convinto che Manzoni parli di specifiche monete non conosce l’avversione dei milanesi verso tali pezzi.

E’ vero, la folla inferocita  si avventa contro tutto e tutto distrugge, o porta via, ma in questo caso Manzoni, con la parola quattrini, intende genericamente il denaro contenuto nelle ciotole e di tagli diversi, quattrini, parpagliole, berlinghe, reali ecc.

A fondamento di quanto detto è sufficiente leggere il capitolo XIV, quando Renzo, accompagnato dal finto spadaio,entra nell’osteria della “Luna piena”.

Il giovane vede un ambiente affollato di clienti che mangiano e giocano e insieme a carte e dadi”si vedevano correre berlinghe, reali e parpagliole, che se avessero potuto parlare, avrebbero detto probabilmente:-noi eravamo stamattina nella ciotola di un fornaio, o nelle tasche di qualche spettatore del tumulto.”

Nelle ciotole non potevano esserci solo monete da quattro denari.

Sempre qualche numismatico pignolo, o convinto di cogliere in fallo Manzoni, quando questi parla della carestia e dei provvedimenti presi dal cardinale Federico Borromeo, si sofferma sul  seguente passaggio:”A ogni contadino che si presentasse all’arcivescovado, fece dare un giulio, e una falce da mietere”(cap. XXVIII).

in merito al giulio, moneta d’argento circolante negli stati pontifici ma non nel milanese, qualcuno ha parlato di licenza storica(o numismatica), qualche altro ha definito Manzoni poco competente in numismatica. In realtà Manzoni, quando parla di giulio, fa riferimento  a quanto deliberato dal cardinale in persona.

Si è ipotizzato che Federico disponesse di una riserva di giuli romani e che li abbia fatti distribuire ai contadini che si presentarono in arcivescovado.

Non sarebbe stata una cosa strana, perché nei secoli passati, in regime di circolazione essenzialmente metallica, erano accettate anche monete d’argento e d’oro di paesi stranieri purché di buon peso e buona lega.

Quindi niente di strano se nelle casse di un possidente o di una persona agiata si trovassero  monete straniere.

All’uopo è utile presentare l’elenco delle monete  trovate,al momento della sua dipartita(1636), nel peculio della gentildonna M. Pansa, alessandrina e quindi suddita di sua maestà spagnola:

4 dobloni d’oro di Genova(un doblone = quattro scudi o due doppie)

2 dobloni d’oro di Spagna

1 doppia d’oro di Firenze(doppio scudo)

1 doppia d’oro di Genova

1 crosazzo d’argento di Genova

6 ducatoni d’argento di Milano

2 zecchini d’oro

8 lire d’argento

Forse il cardinale possedeva effettivamente un certo quantitativo di giuli romani.

Bisogna ricordare che, prima di diventare pastore di Milano, Federico visse a lungo a Roma(1581/1595), dove ottenne la porpora cardinalizia e il titolo diaconale di Santa Maria in domenica, optando  successivamente per titoli diversi fino a quello di Santa Maria degli Angeli(25 ottobre 1593).

Ebbe contatti con San Filippo Neri, che spinse il papa Clemente VIII a suggerire a Federico di accettare la nomina ad arcivescovo di Milano.

Quasi contemporaneamente alla nomina arcivescovile, Federico divenne commendatario dell’abbazia di Santa Maria di Casanova, fra le più importanti del centro Italia e che gli permetteva di godere di vari benefici.

Fra questi sicuramente anche una rendita finanziaria che gli veniva corrisposta in moneta pontificia,  a causa di tecniche di trasferimento di denaro poco evolute, quindi anche in giuli.

Questi ultimi erano fra le monete straniere autorizzate a circolare nello stato di Milano, come mostra,ad esempio, la grida sulle monete del 24 gennaio 1614, che fissa in lire, soldi e denari di Milano il valore di una lunga serie di monete d’oro, d’argento e di mistura del ducato, di Spagna, di Roma, dei Savoia, di Genova, Firenze, Mantova e Monferrato, Venezia e di altri stati italiani ed europei.

Compaiono anche i giuli vecchi, valutati 1 lira, 11 soldi e 6 denari di Milano, e i giuli nuovi, quotati 1 lira e 8 soldi, perché di peso e lega inferiori ai precedenti.

Una volta esauriti i giuli disponibili, gli amministratori dell’arcivescovo avrebbero dato ai contadini presentatisi successivamente, oltre alla falce, il corrispettivo in moneta milanese. Una somma sufficiente a tirare avanti qualche giorno in attesa di ricevere il compenso della mietitura e di altri lavori agricoli.

Due secoli dopo il valore del giulio corrisponderà ancora ad una lira ma con minore potenza d’acquisto se Belli chiuderà un suo componimento(“Nunziata e ‘r Caporale”) così:”E per un giulio tutto sto strapazzo”.

Quando l’Innominato si riconcilia con la Chiesa, chiedendo perdono a Federigo Borromeo per i suoi peccati, non solo libera Lucia, ma la risarcisce,facendo pervenire ad Agnese una lettera e un involucro contenente cento scudi d’oro.

Agnese non ha mai visto tanti soldi insieme e quando torna a casa conta quei “ruspi”,nascondendoli successivamente nel materasso.

Sulla parola ruspi si è discusso spesso. Perché Manzoni usa un’espressione che ricorda il termine toscano ruspone, nome di una moneta d’oro da tre fiorini?

Sembra che il vocabolo derivi dal lombardo e indichi qualcosa di ruvido al tatto, non consumato. Ancora oggi viene usato in Lombardia parlando di monete coniate da poco, ancora nuove, luccicanti.

Nella repubblica veneta il cambio degli zecchini d’oro avveniva a “marco”, o scarsi, intendendo questi inferiori al peso legale, o a “ruspi”, o di peso, corrispondente al peso legale.

Ruspi quindi sono monete non consumate, perché hanno circolato poco o  non sono state sottoposte a tosatura(limatura). Le monete ricevute da Agnese sono come nuove, ma non si deve pensare che abbia ricevuto pezzi coniati da poco, quindi ultime emissioni.

Poi, sono scudi milanesi, zecchini veneziani, vista la vicinanza del castello dell’Innominato al territorio di Venezia, o un misto di monete d’oro equivalenti?

E ancora, sono pezzi da uno scudo (o da uno zecchino) o multipli?.

Sono domande che destano curiosità ma alle quali si può non rispondere. Quanti di noi, ricevendo una grossa somma in pagamento o in regalo, si preoccuperebbero di sapere se sono banconote stampate da poco o firmate da un determinato governatore?

Noi però possiamo divertirci a fare delle ipotesi, così, tanto per appagare la curiosità.

In un tempo di circolazione metallica e promiscua, possono essere scudi d’oro di Milano, zecchini o doppie di Spagna, ciò che conta è che corrispondano al valore di cento scudi.

Sono  poi pezzi da uno scudo(o da uno zecchino) o doppie?

Certo sistemare cento pezzi in un fagotto non è facile e Agnese lo dimostra quando rimette a posto a fatica, nel fazzoletto, le monete. Forse sono solo cinquanta: doppie, che comunque  la mamma di Lucia stenta a risistemare nel fagotto. Non sono comunque quadruple(tagli da quattro scudi o dobloni), troppo difficili da gestire per una persona modesta.

Quel che conta è che sono “ruspi”, non calanti nel peso: è ciò che fa notare Tonio a don Abbondio:”Venticinque berlinghe nuove quelle con Sant’Ambrogio a cavallo”,  e il parroco si accerta della loro bontà ,voltandole e rivoltandole. Nuove in questo senso, non consumate e di buon  peso.

Nuove, perché ancora luccicanti, sono pure le due parpagliole di mistura promesse da Agnese a Menico,  spinto a ben operare dal desiderio di possedere due monete luccicanti.

Questi è un fanciullo, quindi ancora affascinato dal luccichio delle cose. Ma è cosa frequente anche negli adulti: chi di noi, ricevendo alcuni spiccioli di resto, non viene colpito dalla lucentezza di uno di questi, voltandolo e rivoltandolo, per capire cos’ha in mano, e mettendolo poi da parte?

Si è parlato di scudi d’oro ma circolano anche quelli d’argento, così si esprime il valente numismatico prof. Mazzitelli nell’Annuario Rinaldi del 1948:” Circolava allora anche lo scudo d’argento del valore anch’esso di cinque lire milanesi, dl peso di 27 grammi, e dello stesso titolo(910/1000 d’argento). Il valore dello scudo era in quell’epoca rispettabilissimo, tanto che a scudi si calcolavano le ricchezze patrimoniali(…) Era perciò lo scudo la moneta di maggior conto per il popolo. I monatti mettevano a prezzo i loro servizi ricusando di portar via i cadaveri già putrefatti a meno di tanti scudi.  Né mancavano durante la peste esosi medici, detestabilmente venali, da non toccar polso a meno di uno scudo. ”

Don Rodrigo è pronto a dare al Chiodo chirurgo anche più di sei scudi a visita, anche purché  lo curi di nascosto:”E’ un galantuomo che chi lo paga bene tien segreti gli ammalati”.

E quattro scudi, e la sua protezione, promette il nobile a chi,a Pescarenico saprà dare notizie di Renzo e Lucia in fuga.

Fra scudi d’oro e d’argento ci può essere confusione? No. Quando sono d’argento sono scudi e basta, diversamente sono scudi d’oro. Nella taverna della Malanotte don Rodrigo “Cavò alcuni scudi d’oro e li mise in mano al caporalaccio(cap. XX).”

L’Innominato “ pregava di far accettare alla madre di Lucia cento scudi d’oro (cap. XXVI).”

Ringraziamo l’amico prof. Lapenta per questa parte di comunicazione su una materia non semplice. Attendiamo le integrazioni…. (ndr.)