Lo scacchiere incerto della partita a gas

Nella sfida tra Putin e l’Europa, la Russia ha un vantaggio importante. Può gestire la comunicazione senza l’assillo del consenso immediato. I nostri governi, invece, devono cercare di convincere i loro volatili elettori che le cose vanno comunque per il meglio. La verità, però, poi viene a galla. È quello che sta succedendo con il gas. Quando Putin ha minacciato che avrebbe chiuso i rubinetti, la risposta occidentale è stata improntata all’ottimismo. Dopo un minimo di sacrifici iniziali, avremmo fatto ricorso a fonti alternative. Infliggendo, nel frattempo, ai russi l’enorme costo sociale ed economico delle nostre severissime sanzioni. Ma non sta andando così.

L’ultimo numero dell’Economist documenta come il gigante di Mosca stia assorbendo meglio del previsto i costi del blocco occidentale, diversificando i fornitori e gli acquirenti, e ritrovandosi addirittura con un surplus finanziario dal commercio del suo preziosissimo gas. Sui tempi medi, e soprattutto lunghi, la situazione potrebbe peggiorare. Ma, al momento, i problemi più grossi li ha l’Europa. Dove l’interruzione dei rifornimenti d’oltrecortina sta facendo da detonatore di due crisi, che covavano da parecchio tempo.

La prima è la crisi energetica. Nel suo magistrale articolo del 22 agosto sul Corriere, Federico Rampini spiega perché per capire le ragioni della crisi del gas non bisogna guardare alla guerra in Ucraina ma a Cina e India, e alla nuova geopolitica dei consumi in cui la Russia emerge come la principale fornitrice delle potenze asiatiche in tumultuoso sviluppo. Questo riposizionamento di domanda e offerta globale è andato avanti da almeno vent’anni, con alcune interruzioni che hanno solo contribuito a alimentare l’illusione europea di riuscire comunque a gestire i nuovi equilibri. Un’illusione che è brutalmente svanita quando, nel giro di pochi giorni, tutti i ponti commerciali con Mosca sono saltati in aria. Non si sa quanti dei nostri leader avessero, fin dall’inizio, chiaro lo scenario che oggi si sta palesando a tutti. A vederli girovagare per il globo a cercare soluzioni tampone per il proprio paese, verrebbe da pensare che fossero, chi più chi meno, impelagati in altri dossier, e che quello energetico gli sia – letteralmente – esploso tra le mani. Quel che è certo è che, al momento, nessuno dei nostri capi di stato sembra avere il bandolo della matassa. Tutti stretti nella morsa di industrie che rischiano di chiudere, consumatori stremati e inferociti, e decisioni governative che richiederebbero coraggio e grande intesa tra i diversi partner. Il contrario di ciò che offre la scena della seconda crisi, quella più direttamente politica.

Nel giro di poco più di un anno, l’Europa ha visto ribaltarsi il clima di fiducia e coesione con cui era riuscita a fronteggiare le incognite della pandemia. Lo smarrimento del lockdown e la tragedia delle morti di Covid avevano fatto scattare una reazione di solidarietà, che era sfociata in una straordinaria iniziativa congiunta di intervento finanziario strategico per il rilancio dell’economia europea. Questo slancio si era saldato a una convinta ondata di supporto per le politiche ambientaliste che erano da anni la bandiera della mobilitazione giovanile. Non era ancora l’Europa di Ventotene, ma mai come in quei mesi è sembrato che avessimo imboccato quella rotta. È fin troppo facile prendersela, ora, coi carri armati di Putin se quella rotta è di nuovo smarrita. Se, proprio nel momento in cui appare più indispensabile un’Europa forte, l’Unione torna a mostrarsi fragile e incerta. Ciò che, purtroppo, stiamo riscoprendo è l’inadeguatezza di una infrastruttura istituzionale farraginosa e pletorica quando si tratta di accelerare i tempi e l’entità delle scelte.

I limiti dell’Europa provengono dal suo interno, dai troppi appuntamenti mancati con la propria Storia. E, forse, anche dalla coraggiosa difesa di quelle libertà e quei diritti che sono il suo più prezioso contributo allo sviluppo dell’umanità. Nei commenti di questi mesi, si affaccia spesso la constatazione che i regimi autocratici hanno migliori capacità decisionali ogni volta che il gioco si fa duro. Mentre affannano le democrazie. Soprattutto se hanno la scala di stati nazionali di piccola e media grandezza che controllano a malapena i propri elettorati. Non siamo ancora alla canna del gas. Ma i margini per una risposta strategica si vanno rapidamente restringendo.

di Mauro Calise.

(“Il Mattino”, 29 agosto 2022).

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