Il Male della banalità

Sto parafrasando il notissimo scritto di Hannah Arendt, in cui la filosofa descrive la sua partecipazione al processo tenuto in Israele nel 1961 al criminale nazista Adolf Eichmann.Quello che allora sorprese la scrittrice ed il mondo intero fu il fatto che Eichmann non sembrava assolutamente un criminale sanguinario, come tanti appartenenti alle SS, ma un diligente funzionario che regolava con estrema accuratezza i trasporti ferroviari in tutte le regioni occupate dal III Reich, convogliando le vittime verso i campi di sterminio (Vernichtung lager).
La Arendt scorgeva in tutta questa immensa operazione diretta da Eichmann la banalità del Male, cioè il fatto che un tale crimine, coinvolgente milioni di persone, era diretto come fosse una fabbrica perfetta, una fabbrica produttrice di morte.
Ma esiste anche, e lo ritroviamo oggi nel nostro paese, un Male della banalità, un voler rincorrere un sistema di vita, che è del tutto inadeguato alla fase storica che stiamo attraversando, come un momento del riflusso che segue una fase di espansione.
L’Italia, come spesso ho sostenuto, ha avuto un momento d’oro, una Golden Age fra il 1948 ed il 1978, date che rappresentano l’inizio della Resurrezione e la fine di quel boom economico, industriale, ma anche intellettuale e spirituale, rappresentato dalla morte di Moro, che, a mio avviso, chiude un periodo e cancella molte speranze in un futuro più giusto.
Analizziamo punto per punto.
Sappiamo che in quei trenta anni l’Italia ha sviluppato un modello economico forse ingiusto, forse pieno di disuguaglianze, ma al tempo stesso dinamico, quasi esplosivo, e non è un caso se, paragonato ad oggi, tutti gli indici economici segnalano un sostanziale arretramento di quei valori economico-industriali e collocano l’Italia in una posizione estremamente debole nei confronti dei competitori, non più Europei, ma Globali, Mondiali.
La banalità, in questo caso, consiste nel cercare di convincere gli elettori, gli abitanti di questo paese, che la situazione è sotto controllo, che l’Italia è sempre la potenza economica che fu quaranta anni fa, ma ciò non corrisponde assolutamente alla verità, è una menzogna, e a chi non ha una visione Romacentrica, nazionalistica a tempo perso, bensì viaggia e conosce il mondo esterno, ciò risulta evidente.
Stesso discorso vale per la Cultura: negli anni del dopoguerra, abbiamo assistito ad un fiorire clamoroso di letteratura ed arte (vedi il cinema) assolutamente non paragonabile con la prima metà del secolo, ma anche, oserei dire, con questo primo ventennio del secolo successivo, e cerco di essere obbiettivo.
Nel dopoguerra, siamo stati nutriti da scrittori quali Cesare Pavese, Beppe Fenoglio, Italo Calvino, a un livello forse inferiore da molti scrittori come Moravia, ma ci sono stati pure eminenti poeti quali Ungaretti, Quasimodo e Montale.
Ci sono personaggi di tale calibro oggi? Forse dovremmo riparlarne fra qualche decennio…
Soprattutto manca un personaggio illuminante come Pier Paolo Pasolini, capace di agire in vari settori culturali, dal romanzo al cinema, alla poesia e a quella puntuta critica giornalistica, che ne fa un personaggio unico nel panorama del secondo Novecento: un personaggio irripetibile e di cui sentiamo oggi la dolorosa mancanza.
Ma anche in altri ambiti della cultura minor, quali il giornalismo, abbiamo una presenza di discorsi banali, superficiali, che magari vengono oggi acclamati dalle folle, ma non risultano pregnanti come i grandi giornalisti del post-’45: i Giorgio Bocca, gli Italo Pietra, i Sergio Zavoli e, perché no, quel personaggio urtante, ma efficace, quale Indro Montanelli.
Niente di tutto ciò in questo periodo…
Se leggiamo i giornali di oggi ed analizziamo un canale televisivo quale La7, osserviamo dei Buddini, che, con le braccia incrociate, sputano pillole di saggezza attraverso il video, e la sputacchiera è lo spettatore.
Sempre gli stessi giornalisti, sempre le stesse cose dette e ridette, fritte e rifritte, come se dovessero cambiare il mondo e non cambiano assolutamente nulla.
Certe volte mi trovo a passare delle serate ascoltando questi amabili contraddittori e ne scorgo solo la banalità, cioè il Male della futilità.
Questa banalità è come una cappa plumbea, che sovrasta le vite di tutti gli abitanti della Penisola, ma soprattutto i giovani.
Che dire della generazione dei ventenni e dei trentenni, impossibilitati ad esercitare il lavoro per cui hanno studiato, costretti a rimanere dentro a un guscio murato da altri, che non hanno nessun interesse a liberare le energie di questi giovani, ma che li vedono solo come un impaccio, un problema irrisolvibile.
Pensando a questi ragazzi, rivedo certe situazioni degli anni ’60 e ’70 del secolo scorso, quando una serata al pub per assaggiare una pinta di birra (vi ricordate Blow Up?) o il Martini sorseggiato in un American Bar rappresentava un momento di relax dopo il lavoro, dopo il sacrosanto lavoro, giustamente pagato.
Adesso, sembra che il pub o l’American Bar siano essi stessi una forma di lavoro, visto che quello reale, effettivo, non esiste più.
Sorpassato il momento storico del boom in tutti i settori, iniziato un declino che sembrava resistibile, non rimane altro che una visione arida della vita, in cui si stanno perdendo, pezzo a pezzo, i valori che la definiscono come tale e si vive in un contesto senza ideali importanti, una sopravvivenza non a misura d’uomo.
Un vivere effimero, superficiale, che rappresenta la banalità, che simboleggia una generazione in cui sarebbe necessaria, in ogni individuo, una sorta di “rivoluzione culturale”, unica capace di opporsi a questo Male della banalità, che è il male di vivere. Oggi.

Giorgio Penzo

Commenta per primo

Lascia un commento

L'indirizzo email non sarà pubblicato.


*