Martin Eden: «tutta la memoria in un volto che ci somiglia» (C. Levi)

Questo nuovo, straordinario film di Pietro Marcello (riuscito, insieme, a spopolare nei consensi critici di Venezia e a superare già il milione e mezzo di incassi in circuito) si situa, nella sua assoluta e imprevedibile libertà, al di fuori da ogni schema. E può suscitare due diverse e opposte reazioni: una da quanti all’oscuro dei precedenti lavori suoi in regìa e di Maurizio Braucci in sceneggiatura; l‘altra di chi invece li avesse già messi a fuoco.

Il primo gruppo è reso certo maggioritario dalle angustie sempre più pesanti della logica distributiva e dell’agonìa delle sale. In esso, almeno ove presenti potenziali valenze di ascolto adeguato, la sorpresa sarà stata assoluta e (ci si augurerebbe: non v’è certezza!) festosamente disorientante.

Per l’altro, naturalmente minoritario, la visione avrà rappresentato una rassicurante e definitiva conferma di quanto promesso da La bocca del lupo o anche, per i più addentro, Il passaggio della linea o Bella e perduta, per limitarsi ai titoli di maggior durata. O a quanti, per ciò che riguarda Braucci, avessero fatto caso alla sua firma, tra l’altro, per Gomorra e Reality, L’intervallo e Anime nere, La paranza dei bambini. Oltre appunto allo stesso Bella e perduta con Marcello quattro anni fa,

La trovata madre- obiettivamente spiazzante quanto vincente- è stata quella di recidere a priori ogni radice vincolante di tempo e di spazio rispetto alla vicenda originaria del romanzo di Jack London. Di genio lasciare oltretutto al super-partenopeo protagonista l‘originaria connotazione anagrafica -Martin Eden, pronunciato come si scrive ma con accetuazione partenopea…- fissata dallo scrittore, qui autobiografante, centodieci anni fa. Identico procedimento, per coerentissima analogia, per l’altrettanto memorabile Russ Brisseden di Carlo Cecchi. Laddove tutti gli altri personaggi si tramutano di nazionalità, passando dalla famiglia Morse di San Francisco all’italianissima Orsini, dove Ruth diventa Elena e via dicendo. Il progetto viene da lontano: la lettura di London offerta da Braucci a Marcello quando studiava al DAMS. Ma la sua elaborazione fa tesoro delle ricorrenze e dell‘intero arsenale tematico e visivo del cineasta di Caserta, per sua e nostra fortuna felicemente „isolato“, nella propria unicità, sulla scena italiana. E denotante anche una capacità di declinare l‘arsenale del repertorio visivo accessibile analoga a quella della coppia Gianikian-Ricci Lucchi negli esiti migliori. E di far tornare come nutrimento ulteriore alcune costanti lineari delle sue prove precedenti: in maniera e misura che il Morandini degli ultimi anni  aveva saputo cogliere infallibilmente: «Il suo sguardo è limpido ma non asettico: qua e là capace di trasfigurare il colore di un’alba, il torpore del sonno, la smania dell’insonnia, i rumori e il chiasso». E ancora, in successiva occasione. «E‘ per „felici pochi“ questo anomalo e originale film, brusco e ispido, tenero e scabro» (parlando qui de La bocca del lupo). Un tempo si invocava il cinema di poesia: è un autentico peccato che Morando e Martin Eden non abbiano potuto vedersi concedere dal destino il tempo dell’incontro reciproco.

Tornano del pari appropriate in proposito le parole di Carlo Levi (da Un volto che ci somiglia, 1959) scelte dallo stesso Marcello e dalla sua eccezionale collaboratrice Sara Fgaier per concludere L’umile Italia, il loro episodio dal titolo pasoliniano nel collettivo 9 x 10 novanta (2014): «L’Italia della fatica umana e del riposo, della misura e dell’armonia, dell’unitaria presenza: del coraggio, della pazienza, del primo salto creativo e poetico nell’esistenza e nella storia. Ed ecco, già le immagini bianche e nere si colorano, come paesaggi notturni al primo chiarore del mattino, come sogni che si accendono di luce con i colori della memoria. Tutta la memoria in un volto. Che ci somiglia».

Oggi il cinema, se si voglia guardare in prospettiva, si salva soltanto possedendo la capacità di uscire dagli schemi omogeneizzanti e rifluenti che stanno avendola vinta a tutti i livelli, anche i più elevati e insospettabili. Marcello e Braucci appaiono tra i pochi che non si limitano ad averne coscienza -qui il gruppo è più numeroso- ma ne traggono coerentemente le conseguenze in scelte e comportamenti.

Un discorso a parte merita Luca Marinelli, al di là della Coppa Volpi con cui la giuria veneziana ha tentato in qualche modo di compensare un mancato maggior riconoscimento. Quando due anni fa era uscito l’ultimo film dei Taviani, Una questione privata da Fenoglio, Emiliano Morreale l‘aveva definito, con la consueta acutezza: «l’unico attore italiano a poter interpretare la febbrile ossessione di Milton». Sembra quasi la profezia del suo successivo incarnare con altrettanta potenza e appropriatezza, oggi, anche l’altrettanto febbrile ossessione Martin.

Quando le voci della critica, una volta tanto, dall’uscita veneziana a quella nazionale immediatamente successiva, risultavano sostanzialmente unanimi nel registro positivo, è giunto un autorevolissimo opposto parere: “Se tutti i grandi critici si inchinano e plaudono al capolavoro, mi faccio da parte e non pretendo di attribuire al mio gusto soggettivo e parziale un valore oggettivo, assoluto e universale” ha scritto Gianni Canova. A parte l’inevitabile dubbio sull’esistenza odierna di “grandi critici”, non si può che concordare con questa inattaccabile conclusione del Magnifico Rettore IULM.

                                                              («Diari di Cineclub», 76, ottobre 2019)

                                                                                                          

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