Massimo Recalcati – Ritratti del desiderio.

La parola desiderio sembra derivi dalla voce latina desideràre, formata dal prefisso de e dal verbo sideràre, la cui giustapposizione significa: allontanare lo sguardo dalle stelle (per difetto di chiaroveggenza); ciò quindi comporta la mancanza di qualcosa cui si anela, che si vorrebbe avere. E, a ben considerare, già l’etimologia del termine stesso rimanda ad un difetto ben altro rispetto a ciò che non possediamo. All’origine di questa o quella brama/assenza da colmare, infatti, pare esserci un’incapacità di discernimento implicita nel non riuscire a cogliere la giusta direzione, nel non sapere appunto interpretare ciò che le stelle potrebbero indicarci. Sullo sfondo di ogni umano desiderare, allora, vediamo apparire una presenza perturbante: quella dello spossessamento e della perdita di controllo dell’io. Sconcerto più o meno grande che viene tuttavia sempre ad instaurarsi ogni volta in cui veniamo presi dal desiderio. Perché una cosa è certa: di esso noi non siamo i signori, ma al contrario esso ci prende e trascina seducendoci (letteralmente: allontanandoci da noi stessi).

Come appare lontana da una tale dimensione al contempo inquietante ed affrancante – in quanto ci destabilizza pur consentendoci una metamorfosi innovatrice – il consumismo dell’attuale società capitalistica, coi suoi desideri prefabbricati in vendita presso ogni bottega o grande magazzino. Coi suoi illusori rimedi, non sai quanto a buon mercato, considerati indispensabili per trasformare ogni soggetto alienato in homo felix ad ogni costo, indotto com’è (come siamo) all’acquisto compulsivo/reiterato che vorrebbe essere cartina di tornasole del desiderio e invece finisce col decretarne il venir meno. Così, anziché liberarlo, il consumismo lo spegne, lo mortifica attraverso una gadgetizzazione perpetua della vita, per dirla con Lipovetsky.

Rimarca tutto ciò indagando il desiderio e i suoi enigmi il saggio Ritratti del desiderio (recentemente riedito da Raffaello Cortina Editore), di Massimo Recalcati, per il quale “il paradosso dell’iperedonismo del nostro tempo” sta in questo: “la pulsione appare dotata di una potenzialità infinita, si afferma come finalmente libera, svincolata dai limiti della Legge, ma questa libertà non è in grado di generare alcuna soddisfazione”, promuovendo appena un “godimento cinico” imperniato su una “fede feticistica nei confronti dell’oggetto”. Mentre il desiderio autentico non è riducibile a mero “godimento autistico” o, peggio ancora, a sopraffazione, dominio, sfruttamento. Anzi, sostiene persino l’autore, “il desiderio porta sempre con sé una povertà” che ne costituisce il “tesoro”. Non confondiamo quindi il desiderio con il consumo senza freni/limiti – ma pure senza soddisfazione –, né con l’invidia che rappresenta un modo di desiderare insano.

Come in una galleria di ritratti, Recalcati raffigura i vari volti che può assumere la tensione desiderante umana: Si va dal desiderio di godere al desiderio di niente, dal desiderio sessuale a quello amoroso, dal desiderio dell’Altrove a quello di morte. Innumerevoli (senza fine?) sono dunque le specie del desiderare, anche se vi sono modalità che sembrano prevalere sulle altre. Ad esempio quella che lo psicoanalista chiama il desiderio dell’Altro, che esprime l’urgenza di venire accettati, il voler “essere riconosciuti” dall’Altro”. In quanto il desiderio umano si nutre di relazione; tanto da far asserire a Recalcati che: “non esiste desiderio senza l’Altro”. D’altronde, come potrebbe essere diversamente? L’uomo – ogni vivente – dipende non solo dai suoi simili, ma dall’ambiente naturale e per vivere noi abbiamo bisogno d’altro che non sia la monade del nostro io, la quale poi in realtà non esiste se non nelle nostre fantasie d’onnipotenza e narcisistiche, giacché dipendiamo sempre e comunque dall’altro.

Ed ecco profilarsi la differenza basilare tra bisogni e desideri. Certo, i primi sono indispensabili e ineludibili. Senza aria, acqua, cibo, vestiti non si campa; però ricordiamo il monito evangelico: Non di solo pane vive l’uomo. Parimenti fondamentali sono altresì necessità meno tangibili. L’amore, in primo luogo, se è vero che l’infante nutrito/accudito solo materialmente, ma privato di ogni affettuosa/calorosa cura materna, finisce per deperire e morire. Ma attenzione: il desiderio non è soltanto quello dell’Altro, non è appena quello di ricevere amore. La ricerca del puro e semplice godimento da parte del singolo io, infatti, non abbisogna di un tu, anzi spesso finisce per reificarlo allorché lo riduce a corpo, a carne da cui trarre piacere. Ancora: il desiderio di godere ad ogni costo è più forte dello stesso istinto di autoconservazione, se si fa cieca “attrazione verso l’eccesso” che mette a rischio la vita. Ponendosi in quest’ottica – sulla scia del suo maestro Lacan –, l’autore giunge pertanto a concludere che il desiderio è costituito da una spinta che non ha fine e non conosce un vero e proprio oggetto. Siamo giunti, insomma, sul finire di questa galleria, al ritratto maggiormente enigmatico: costituito dal desiderio del desiderio, espresso mediante un tendere inesausto (lo streben del Faust goethiano) che non trova né può trovare pieno appagamento.

Vi è un’ulteriore possibilità, tuttavia, non volendo impaludarsi nella “ripetizione infernale del godimento”. Si tratta della prospettiva/apertura sull’Altrove, sulla “necessità” dell’Altrove che “è preghiera, invocazione, vocazione, voto”. È la presa d’atto di un’auspicabile diversa rotta/condotta esistenziale, orientata nella direzione d’una trascendenza e d’una ulteriorità di senso che potremmo anche chiamare metafisica o, perché no, semplicemente spirituale.

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